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SONETTO CLXI.

Soffre in pace di pianger sempre, ma non che
Laura siagli sempre crudele.

Tutto'l di piango; e poi la notte, quando
Prendon riposo i miseri mortali,
Trovom' in pianto, e raddoppiarsi i mali:
Cosi spendo mio I mio tempo lagrimando,

In tristo umor vo gli occhi consumando.
E'l cor in doglia; e son fra gli animali
L'ultimo si, che gli amorosi strali
Mi tengou ad ogni or di pace in bando.

Lasso, che pur dall'uno all'altro Sole,
E dall' un' ombra all'altra ho già 'l più corso
Di questa morte, che si chiama vita.
Più l'altrui fallo, che 'l mio mal mi dole:
Che pietà viva, e 'l mio fido soccorso
Vedem'arder nel fuoco, e non m'aita.

SONETTO CLXII.

Si pente d'essersi sdegnato verso di una bellezza che gli rende dolce anche la morte.

Già desiai con si giusta querela,
E'n si fervide rime farmi udire,
Ch'un foco di pietà fessi sentire
Al duro cor ch'a mezza state gela;

E l'empia nube che 'I raffredda e vela,
Rompesse a aura del mio ardente dire;
O fessi quell'altru' in odio venire,
Ch'e' belli, onde mi strugge, occhi mi cela.

Or non odio per lei, per me pietate

Cerco: che quel non vo', questo non posso; Tal fu mia stella, e tal mia cruda sorte:

Ma canto la divina sua beltade:

Che quand' i' sia di questa carne scosso, Sappia 'l mondo, che dolce è la mia morte.

SONETTO CLXIII.

Laura è un Sole. Tutto è bello finch' essa vive, e tutto si oscurerà alla sua morte.

Tra quantunque leggiadre donne e belle
Giunga costei ch'al mondo non ha pare;
Col suo bel viso suol dell' altre fare
Quel che fa'l di delle minori stelle.

Amor par ch'all' orecchie mi favelle,
Dicendo: Quanto questa in terra appare,
Fia 'l viver bello; e poi 'l vedrem turbare;
Perir virtuti, e 'l mio regno con elle.

Come Natura al ciel la Luna e'l Sole,
All' aere i venti, alla terra erbe, e fronde,
All' uomo e l'intelletto, e le parole,
Ed al mar ritogliesse i pesci, e l'onde;
Tanto e più fien le cose oscure e sole,
Se Morte gli occhi suoi chiude, ed asconde.

SONETTO CLXIV.

Levasi il Sole, e spariscono le stelle.
Levasi Laura e sparisce il Sole.

Il cantar
In sul di fanno risentir le valli,
E'l mormorar de' liquidi cristalli
Giù per lucidi freschi rivi e snelli.
Quella c'ha neve in volto, oro i capelli,
Nel cui amor non fur mai inganni, ne falli,
Destami al suon degli amorosi balli,
Pettinando al suo vecchio i bianchi velli.

ar nove, e'l pianger degli augelli

Cosi mi sveglio a salutar l'aurora,

E'l Sol, ch'è seco, e più l'altro, ond' io fui
Ne' prim'anni abbagliato, e sono ancora.

I' gli ho veduti alcun giorno ambedui
Levarsi insieme; e 'n un punto, e 'n un' ora,
Quel fra le stelle, e questo sparir lui.

SONETTO CLXV.

Interroga Amore, ond abbia tolte quelle tante
grazie, di cui Laura va adorna.

Onde tolse Amor l'oro, e di qual vena,
Per far due trecce bionde? e 'n quali spine
Colse le rose? e 'n qual piaggia le brine
Tenere e fresche, e die lor polso, e lena?

Onde le perle, in ch' ei frange ed affrena
Dolci parole, oneste, e pellegrine?
Onde tante bellezze, e sì divine
Di quella fronte più che 'l ciel serena?

Da quali angeli mosso, e di qual spera
Quel celeste cantar, che mi disface,
Si, che m'avanza omai da disfar poco?

Di qual Sol nacque l' alma luce a'tera
Di que' begli occhi, ond'i' he guerra, e pace,
Che mi cuocono 'I cor in ghiaccio, e 'n foco?

SONETTO CLXVI.

Guardando gli occhi di lei si sente morire,
ma non sa come stancarsene.

Qual mio destin, qual forza, o qual inganno-
Mi riconduce disarmato al campo
Là 've sempre son vinto; e s'io ne scampo,
Maraviglia n'avrò; s' i' moro, il danno?

Danno non già, ma pro: si dolci stanno
Nel mio cor le faville, e 'l chiaro lampo,
Che l'abbaglia, e lo strugge, e 'nch' io m'avvampo
E son già, ardendo, nel vigesim' anno.

Sento i messi di morte, ove apparire
Veggio i begli occhi, e folgorar da lunge;
Poi, s'avven, ch'appressando a me li gire,

Amor con tal dolcezza m'unge, e punge,
Ch'i' nol so ripensar, non che ridire;
Che ne 'ngegno, ne lingua al vero aggiunge.

SONETTO CLXVII.

Non trovandola colle sue amiche, ne chiede loro il perchè; ed esse 'l confortano.

Liete, e pensose, accompagnate, e sole
Donne, che ragionando ite per via;
Ov'e la vita. ov'è la morte mia?
Perche non e con voi, com'ella sôle?

Liete siam per memoria di quel Sole;
Dogliose per sua dolce compagnia,
La qual ne toglie invidia, e gelosia,
Che d'altrui ben, quasi suo mal, si dole:

Chi pon freno agli amanti, o da lor legge?
Nessun all'alma; al corpo ira ed asprezza:
Questo ora in lei, talor si prova in noi.

Ma spesso nella fronte il cor si legge:
Si vedemmo oscurar l'alta bellezza,
E tutti rugiadosi gli occhi suoi.

SONETTO CLXVIII.

Nella notte sorpira per quella, che sola nel di
può addolcirgli le pene.

Quando l Sol bagna in mar l'aurato carro,
E l'aer nostro, e la mia mente imbruna;
Col cielo, e con le stelle, e con la Luna,
Un'angusciosa, e dura notte innarro:

Poi, lasso, a tal, che non m' ascolta, narro
Tutte le mie fatiche ad una ad una;
E col mondo, e con mia cieca fortuna,
Con Amor, con Madonna, e meco garro.

Il sonno e'n bando; e del riposo è nulla:
Ma sospiri, e lamenti infin all'alba,
E lagrime, che l'alma agli occhi invia.

Vien poi l' aurora, e l'aura fosca inalba;
Me no; ma 'i Sol, che 'l cor m' arde, e trastulla,
Quel può solo addolcir la doglia mia

SONETTO CLXIX.

Se i tormenti che soffre, to condurranno a morte ei ne avrà 'l danno, ma Laura la colpa.

S'una fede amorosa, un cor non finto,
Un languir dolce, un desïar cortese;
S' oneste voglie in gentil foco accese;
S' un lungo error in cieco laberinto;

Se nella fronte ogni penser dipinto,
Od in voci interrotte appena intese,
Or da paura, or da vergogna offese;
S' un pallor diı viola, e d'amor tinto;

e

S' aver altrui più caro che sè stesso :
Se lagrimar: e sospirar mat sempre,
Pascendosi di duol, , d'ira, d' affanno ;
S'arder da lunge, ed agghiacciar da presso,
Son le cagion, ch'amando i'mi distempre;
Vostro, Donna, I peccato, e mio fia 'l danno.

SONETTO CLXX

Chiama ben felice chi guidò quella barca, e quel carro, su cui Laura sedeva cantando.

Dodici donne onestamente lasse,

Anzi dodici stelle, e 'n mezzo un Sole
Vidi in una barchetta allegre e sole,
Qual non so s'altra mai onde solcasse.

Simil non credo, che Giason portasse
Al vello, ond' oggi ogni uom vestir si vole;
Ne 'I pastor, di che ancor Troia si dole;
De' qua' duo tal romor al mondo fasse.

Poi le vidi in un carro trionfale,

E Laura mia con suoi santi atti schifi
Sedersi in parte, e cantar doleemente,

Non cose umane, o vision mortale.
Felice Autumedon, felice Tin,
Che conduceste si leggiadra gente!

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