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Quanto v'aggrada, se gli e ancor venuto
Romor laggiù del ben locato offizio!
Come cre', che Fabbrizio
Si faccia lieto udendo la novella!
E dice: Roma mia sarà ancor bella.

E se cosa di qua nel Ciel si cura;
L' anime, che lassù son cittadine,
Ed hanno i corpi abbandonati in terra,
Del lungo odio civil ti pregan fine,
Per cui la gente ben non s' assecura:
Onde 'l cammin a'lor tetti si serra,
Che fur già si devoti, ed ora in guerra
Quasi spelunca di ladron son fatti,
Tal ch'a' buon solamente uscio si chiude;
E tra gli altari, e tra le statue ignude
Ogn'impresa crudel par che si tratti.
Deh quanto diversi atti!
Nė senza squille s'incomincia assalto,
Che per Dio ringraziar fur poste in alto.
Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
Della tenera etate, e i vecchi stanchi,
C'hanno se in odio, e la soverchia vita;
E i neri fraticelli, e i bigi, e i bianchi,
Con l'altre schiere travagliate, e 'oferme
Gridan: O signor nostro, aita, aita:
E la povera gente sbigottita
Ti scopre le sue piaghe a mille a mille
Ch' Annibale, non ch'altri, farian pio.
E se ben guardi alla magion di Dio,
Ch' arde oggi tutta; assai poche faville
Spegnendo, fien tranquille

Le voglie, che si mostran si 'nfiammate:
Onde fien l' opre tue nel Ciel laudate.

chian

sterpi

Orsi, lupi, leoni, aquile, e serpi
Ad una gran marmorea Colonna
Fanno noia sovente, ed a sè danno:
Di costor piagne quella gentil Donna,
Che t'ha chiamato, acciocchè di lei
Le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già più che 'I millesim' anno,
Che 'n lei mancar quell'anime leggiadre,
Che locata l' avean là, dov' ell' era.
Ahi nova gente oltra misura altera,

Irreverente a tapta, ed a tal madre!
Tu marito, tu padre;

Ogni soccorso di tua man s'attende:
Che 'I maggior Padre ad altr' opera intende.

Rade volte addisien, ch'all'alte imprese
Fortuna ingiuriosa non contrasti;
Ch' agli animosi fatti mal s' accorda.
Ora sgombrando passo, onde tu intrasti,
Fammisi perdonar molt' altre offese:
Ch' almen qui da se stessa si discorda:
Però che, quanto'l mondo si ricorda,
Ad vom mortal non fu aperta la via
Per farsi, come a te, di fama eterno;
Che puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
In stato la più nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia

Dir: Gli altri l' aitar giovine e forte;
Questi in vecchiezza la scampo da morte!
Sopra' monte Tarpeo, Canzon, vedrai
Un cavalier, ch' Italia tutta onora,
Pensoso più d'altrui, che di se stesso.
Digli: Un, che non ti vide ancor da presso,
Se non come per fama uom s'innamora,
Dice, che Koma ogni ora
Con gli occhi di dolor bagnati e molli
Ti chier mercè da tutti sette i Colli.

SONETTO VIII.

A messer Agapito, pregandolo di ricevere
in sua memoria alcuni piccioli doni.

La guancia che fu già piangendo stanca,
Riposate su l'un, signor mio caro;
E siate omai di voi stesso più avaro
A quel crudel che suoi seguaci imbianca:

Con l'altro richiudete da man manca
La strada a messi suoi, ch' indi passaro,
Mostrandovi un d'agosto e di gennaro;
Perch' alla lunga via tempo me manca:
E col terzo bevete un suco d'erba,
Che purghe ogni pensier che 'l cor afllige;
Dolce alla fine, e nel principio acerba.
Me riponete, ove 'l piacer si serba,

Tal ch'i' non tema del nocchier di Stige;
Se la preghiera mia non è superba.

SONETTO IX.

Invita le donne e gli amanti a pianger se co la morte di Cino da Pistoia.

Piangete, donne, e con voi pianga Amore;
Piangete, amanti, per ciascun paese;
Poi che morto è colui, che tutto intese
In farvi, mentre visse al mondo, onore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,
Non sian da lui le lagrime contese;
Emi sia di sospir tanto cortese,
Quanto bisogna a disfogare il core.
Piangan le rime ancor, piangano i versi;
Perche 'l nostro amoroso messer Cino
Novellamente s'è da noi partito:
Pianga Pistoia e i cittadin perversi,
Che perdut' hanno si dolce vicino;
E rallegues'il Cielo, ov'ello è gito.

SONETTO Χ.

Ad Orso dell'Anguillara che doleasi di non poter ritrovarsi ad una giostra.

Orso, al vostro destrier si può ben porre
Un fren, che di suo corso indietro il volga:
Ma 'l cor chi legherà, che non si sciolga,
Se brama onore, e 'l suo contrario abborre?

Non sospirate: a lui non si può tôrre
Suo pregio, perch' a voi l'andar si tolga;
Che, come fama pubblica divolga,
Elgi è già là, che null' altro il precorre.

Basti, che si ritrove in mezzo'l campo
Al destinato di, sotto quell' arme,

Che gli dà il tempo, amor, virtute, e'l sangue:

Gridando: D'un gentil desire avvampo
Col signor mio, che non può seguitarme,
E del non esser qui si strugge e langue.

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SONETTO ΧΙ.

A Stefano Colonna, perchè segua il corso
di sua vittoria contro gli Orsini.

Vinse Annibal, e non seppe usar poi
Ben la vittoriosa sua ventura:
Però, signor mio caro, aggiate cura,
Che similmente non avvegna a voi.
L'Orsa, rabbiosa per gli Orsacchi suoi,
Che trovaron di maggio aspra pastura,
Rode se dentro; e i denti e l'unghie indura,
Per vendicar suoi danni sopra noi.

Mentre 'I novo dolor dunque l'accora,
Non riponete l'onorata spada;
Anzi seguite là, dove vi chiama

Vostra fortuna dritto per la strada,
Che vi può dar, dopo la morte ancora
Mille e mill' anni, al mondo onore e fama.

SONETTO ΧΙΙ.

Alle virtù del Malatesta, ch' ei vuol rendere
immortale, scrivendo in sua lode.

L' aspettata virtù, che'n voi fioriva
Quando Amor comincio darvi battaglia,
Produce or frutto, che quel fiore agguaglia,
E che mia speme fa venire a riva.

Però mi dice 'I cor, ch' io in carte scriva
Cosa, onde 'l vostro nome in pregio saglia:
Che 'n nulla parte si saldo s' intaglia,
Per far di marmo una persona viva.

Credete voi, che Cesare o Marcello,
O Paolo, od African fossin cotali
Per incude giammai, nė per martello?

Pandolfo mio; quest' uest' opere son frali
Al lungo andar; ma'l nostro studio è quello,
Che fa per fama gli uomini immortali.

CANZONE III.

Si è innamorato della Gloria, perch' essa
gli mostrerà la strada della virtù.

Una donna più bella assai che 'I Sole,
E più lucente, e d' altrettanta etade,
Con famosa beltade,.

Acerbo ancor, mi trasse alla sua schiera:
Questa in pensieri, in opre, ed in parole;
Però ch'è delle cose al mondo rade;

Questa per mille strade
Sempre innanzi mi fu leggiadra, altera:
Solo per lei tornai da quel ch'i' era,
Poi ch' i' soffersi gli occhi suoi da presso:
Per suo amor m' er' io messo

A faticosa impresa assai per tempo,
Tal che s'i' arrivo al desïato porto,
Spero per lei gran tempo
Viver, quand' altri mi terrà per morto.

Questa mia donna mi menò molt'anni
Pien di vaghezza giovenile ardendo,
Siccom' ora io comprendo,
Sol per aver di me più certa prova,
Mostrandomi pur l'ombra, o 'l velo, o' panni
Talor di sè, ma 'l viso nascondendo:
Ed io, lasso! credendo

Vederne assai, tutta l'età mia nova
Passai contento; e 'l rimembrar mi giova.
Poi ch'alquanto di lei veggi'or più innanzi,
I'dico, che pur dianzi,
Qual io non l'avea vista infin allora,
Mi si scoverse: onde mi nacque un ghiaccio
Nel core; ed evvi ancora;

E sarà sempre fin ch'i'le sia in braccio.

Ma non mel tolse la paura, o'l gelo;
Che pur tanta baldanza al mio cor diedi,
Ch'i'le mi strinsi a' piedi

Per più dolcezza trar degli occhi suoi:
Ed ella, che rimosso avea già il velo
Dinanzi a' miei, mi disse: Amico, or vedi
Com' io son bella: e_chiedi

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