Credevasi libero d'amore, e conosce d'essersene rinpescato sempre più.
Quel foco ch'io pensai che fosse spento Dal freddo tempo e dall' età men fresca, Fiamma e martir nell'anima rinfresca..
Non fur mai totte spente, a quel ch'i' veggio, Ma ricoperte alquanto le faville: E temo, no 'l secondo error sia peggio. Per lagrime, ch' io spargo a mille a mille, Conven che 'I duol per gli occhi si distille Dal cor c'ha seco le faville e l'esca, Non pur qual fu, ma pare a me, che cresca. Qual foco non avrian già spento e morto L'onde, che gli occhi tristi versan sempre? Amor (avvegna mi sia tardi accorto) Vuol, che tra duo contrarii mi distempre: E tende lacci in si diverse tempre, Che quand' ho più speranza che 'l cor n'esca, Allor più nel bel viso mi rinvesca.
SONETTO XXXVI.
Tradito é deluso dalle promesse di Amore, mena la vita più dogliosa che prima.
Se col cieco desir, chel cor distrugge, Contando l' ore non m' ingann' io stesso; Ora, mentre ch' io parlo, il tempo fugge, Ch'a me fu insieme, ed a mercė promesso. Qual ombra é si crudel, che 'l seme adugge, Ch' al desïato frutto era si presso? E dentro dal mio ovil qual fera rugge? rug Tra la spiga, e la man qual muro è messo? Lasso! nol so: ma si conosco io bene, Che, per far più dogliosa la mia vita, Amor m' addusse in si gioiosa spene: Ed or di quel ch'i'ho letto mi sovvene: Che 'nnanzi al di dell' ultima partita Uom beato chiamar non si convene.
SONETTO XXXVII.
Amore lo amareggia di troppo, e non può gustar più le sue rare dolcezze.
Mie venture al venir son tarde e pigre; La speme incerta e 'l desir monta e cresce: Onde 'l lassar, e l'aspettar m' incresce: E poi al partir son più levi che tigre. Lasso, le nevi sien tepide e nigre,
E'l mar senz' onda, e per l' Alpi ogni pesce; E corcherassi 'l Sol là oltre, ond' esce D'un medesimo fonte Eufrate e Tigre; Prima ch' i' trovi in ciò pace, ne tregua, O Amor, o Madonna altr'uso impari; Che m'hanno congiurato a torto incontra: E s'i' ho alcun dolce, e dopo tanti amari, Che per disdegno il gusto si dilegua. Altro mai di lor grazie non m'incontra.
Vorrà sempre amarla, benchè non vedesse mai più i suoi occhi, ne i suoi capelli.
Perche quel che mi trasse ad amar prima, Altrui colpa mi toglia,
Del mio fermo, voler già non mi svoglia. Tra le chiome dell' or nascose il laccio, Al qual mi strinse Amore;
E da' begli occhi mosse it freddo ghiaccio, Che mi passò nel core
Con la virtù d'un subito splendore,
Che d'ogni altra sua voglia,
Sol rimembrando, ancor l'anima spoglia.
Tolta m' è poi di que' biondi capelli,
Lasso, la dolce vista;
E'l volger di duo lumi onesti e belli Col suo fuggir m'attrista:
Ma perchè ben morendo onor s'acquista,
Per morte, nè per doglia
Non vo', che da tal nodo Amor mi scioglia.
Non abbia più previlegii quel lauro, che di dolce e gentile gli si jece spietato.
L'arbor gentil che forte amai molt'anni, Mentre i bei rami non m' ebber a sdegno, Fiorir faceva il mio debile ingegno Aila sua ombra, e crescer negli affanni.
Poi che, securo me di tali inganni, Fece di dolce sè spietato legno,. I' rivolsi i pensier tutti ad un segno, Che parlan sempre de' lor tristi danni.
Che porà dir chi per Amor sospira, S'altra speranza le mie rime nove Gli avesser data, e per costei la perde?
Nè poeta ne colga mai; nė Giove La privilegi; ed al Sol venga in ira Tat, che si secchi ogni sua foglia verde.
SONETTΟ ΧΧΧΙΧ.
Benedice tutto ciò che fu cagione od effetto del suo amore verso di lei.
Benedetto sia 'l giorno, e'l mese, e l'anno, E la stagione, e'l tempo, e l'ora, e'l punto, E'l bel paese, e 'l loco, ov' io fui giunto Da duo begli occhi, che legato m'hanno:
E benedetto il primo dolce affanno,
Ch' i' ebbi ad esser con Amor congiunto; E l'arco, e le saette, ond' io fui punto; E le piaghe, ch'infin al cor mi vanno:
Benedette le voci tante, ch' io,
Chiamando il nome di mia Donna, ho sparte, E i sospiri, e le lagrime, e 'l desio:
E benedette sian tutte le carte,
Ov'io fama le acquisto; e 'l pensier mio, Ch'è sol di lei si, ch'altra non v'ha parte.
SONETTO XL
Avvedutosi delle sue follie, prega Dio che lo torni ad una vita migliore.
Persuade Laura a non voler odiare quel cuore, dond'ella non può più uscire.
Se voi poteste per turbati segni,
Per chinar gli occhi, o per piegar la testa, O per esser più d'altra al fuggir presta, Torcendo 'l viso a' preghi onesti e degni,
Uscir giammai, ovver per altri ingegni, Del petto, ove dal primo Lauro innesta Amor più rami, i' direi ben, che questa Fosse giusta cagione a' vostri sdegni:
Che gentil pianta in arido terreno Par, che si disconvenga; e però lieta Naturalmente quindi si diparte.
Ma poi vostro destino a voi pur vieta L'esser altrove; provvedete almeno Di non star sempre in odïosa parte.
SONETTO XLII.
Prega Amore di accender in essa quel foco, dalle cui fianime ci non ha più scampo
Lasso, che mal accorto fui da prima Nel giorno ch' a ferir mi venne Amore; Ch'a passo a passo è poi fatto signore Della mia vita, e posto in su la cima!
Io non credea, per forza di sua lima, Che punto di fermezza, o di valore Mancasse mai nell' indurato core: Ma così va chi sopra'l ver s' estima.
Da ora innanzi ogni difesa è tarda Altra, che di provar, assai, o poco Questi preghi mortali Amore sguarda. Non prego già, nè puute aver più loco, Che misuratamente il mio cor arda; Ma che sua parte abbia costei del foco.
« PrethodnaNastavi » |