37 40 44 47 50 Che colpa è de le stelle Meco si sta chi di e notte m' affanna, Uscîr buone di man del mastro eterno: Cosí l'ha fatto infermo Pur la sua propria colpa, e non quel giorno <<< Nel dolce tempo de la prima etade ». (L). La memoria di lei (V). - 39-40. Da che il sembiante di Laura mi fece andar grave, cioè m'inebbrid, m'empiè il cuore, del suo piacere, cioè della sua dolcezza e del desiderio di esso (L). - 41-46. Tutte le cose belle del mondo furono da Dio create buone [Gen. 1 31 << Vidit Deus cuncta quae fecerat, et erant valde bona], e però Laura non può esser causa di male: ma io, che non penetro collo intelletto cosí addentro, sono abbagliato dalla estrinseca bellezza di quella; e, se alcuna volta mi riduco a mirare il vero splendore, cioè l'interna bontà ed eccellenza di colei, l'occhio non vi può durare (L). - 48. Pur solamente (L). e non q. g. Cfr. III. Il capoverso d'una canz. già famosa o conosciuta dà il finale a ogni stanza di questa. Cosi la prima finisce con un capoverso d'Arnaldo Daniello, poeta occitanico che visse al sec. XII sotto Alfonso I conte di Provenza, altamente stimato dal P. stesso (Tr. Am. III 40) e da Dante (Purg. XXVI 115): ciò a detta del Bembo, sebbene afferma il T che altri vogliono fosse d'una canz. di Guglielmo Roieri, la quale egli non trovò nelle rime che ci sono rimase de' provenzali: il Galvani (Osserv. su la poes. dei Prov. pag. 117, nota 7) scrive che una canz. del Roiero, il quale fiori intorno la fine del duecento, comincia Drech e razon es qu'iou canti d'amour, stando alla lez. certamente scorretta del p. Papon, Hist. gen. de Provence, t. Im a f. 465. Tornando alla canz. del P., finisce la seconda stanza col principio d'una canz. di G. Cavalcanti; con una di Dante la terza, e di Cino la quarta; la quinta poi con un verso di esso il P., il 1° della canz. delle metamorfosi. - Anche Dante, nel son che inc. Parole mie che per lo mondo andate, citò il principio d'una sua canz.; e, per la mistura di versi stranieri, l'avea già fatta pur Dante nella sua trilingue Ai fals vis! per que traits avetz, e prima di lui Rambaldo di Vaqueiras il quale ne compose una mischiata di versi provenzali, toscani, francesi, spagnoli; ed è quella che inc. Eras quan vey verdeyar riportata dal Galvani (op. cit. p. 110), e può anche vedersi in Raynouard Choix 11 266 e Mahn Die Werke der Troub. 1 371. Pare al D che questa sia come d'introduzione alle tre canz. su gli occhi, e la disposizione del Ms. originale vaticano gli da ragione. Può segnare un passaggio dal turbamenti della passione alla serenità della contemplazione. Ha delle bellissime parti, benché non vada in riga delle prime di questo autore (Mur). LXXI Questa canzone e le due seguenti sono sopra gli occhi di Laura; e si chiamano le canzoni degli occhi (L). Le quali il p. chiama sorelle, tutto che esse non abbiano una stessa apparenza, perché la prima indirizza agli occhi, a Laura la seconda, e la terza ad Amore (D). — Intorno tutt'e tre scrisse otto lezioni B. Varchi, dette nello Studio fiorentino l'aprile 1545 (Lez. sopra materie poet, e filos. Firenze, Giunti, 1590) ed una esposizione Seb. Erizzo (Vinegia, Arrivabene, 1562). Contro ad alcune opposizioni del Mur (Della perf. poes.) si pubblicò (Lucca, Frediani, 1709) una Difesa delle tre canzoni ec. composta da Gio. Bart. Casaregi, Gio. Tomm. Canevari e Antonio Tommasi pastori arcadi. Ultimamente ne scrisse Gius. Agnelli (De le tre canz. sorelle, Bologna, Zanichelli, 1887). - Se de' componimenti del P. fu mai alcuno, il quale e di vaghezza e di grazia e di meraviglia vincesse gli altri e trapassasse tutti quanti, queste tre canzoni degli occhi sono quelle desse; essendo sopra ogni vaghezza, sopra ogni grazia, sopra ogni meraviglia, vaghissime, graziosissime, meravigliosissime. Onde dicono molti che egli in queste tanto fu maggiore di sé stesso, quanto in tutte le altre a tutti era stato superiore. E io porto ferma opinione che nessun poeta in nessuna lingua facesse mai sopra un soggetto cotale né piú varia composizione di questa né più bella; e tengo per certo che questa sola basti largamente a mostrare, che non solo la copia ma ancora gli ornamenti della favella toscana sono tali e tanti che molte volte in molte cose s'appressano piú alla ricchezza della lingua greca che non si discostano dall'eloquenza della latina. E se alcuno non sente in leggendo queste tre sorelle moversi dentro al cuore una quasi infinita indisusata dolcezza, vede risolutamente o di non intenderle o d'essere lontanissimo da ogni grazia ed armonia (Var). Queste tre sorelle, che reine dell'altre canzoni si possono chiamare, bastavano da sé sole a far meritare la corona al p. Però, come piene d'ogni eccellenza, non meritano che in esse si ponga bocca eccetto che per sommamente lodarle: il che pur io stesso ho pensiero di fare anche un giorno a parte; se non per altro, almeno per dimostrare quant' io ammiri questo gran poeta, dell' altre rime del quale se ho detto qualche cosa forse piú arditamente di quello che all' autorità di tal uomo pareva si convenisse, non è stato per acquistar fama del biasimo suo, ma per mostrare a certi granchi nuovi come si conosce il pepe dagli scalogni (T). - A far belle queste canzoni si sono mirabilmente uniti un intenso affetto e un ingegno filosofico, ciascun de' quali campeggia qui con tutte le finezze e gli ornamenti dell' arte poetica. Può dirsi che questa sia una tela di riflessioni ed immagini squisitissime cavate dall' interno della materia, in considerando il p. o la singolar beltà degli occhi amati o tutti gli effetti interni ed esterni che in lui si cagionavano dagli occhi medesimi. Né paia ad alcuno che tali pensieri talora sembrino alquanto sottili, quasi a tanta foga d'affetto non si convenga tanta sottigliezza d' ingegno. Perocché il p. non parla all'improvviso come s'inducono gli appassionati a ragionar sul teatro, ma con agio e tempo di meditar le cose e di espor le cose meditate col piú bel1' ornamento ch' ei possa, per maggiormente piacere non solo ai lettori ma anche alla persona ch'egli ha preso a lodare. In somma io ho per costante che questi rari componimenti sieno stati e sieno sempre per essere una miniera onde si possano trar nobili concetti per formarne moltissimi altri; e alla perfezion loro altro io non truovo che manchi, se non un oggetto più degno che non è la femminil bellezza (Mur). Nella poesia italiana non v' ha forse composizione piú lavorata, con piú puro stile, con più sostenuta eleganza, di queste canzoni: le quali formano tutt' insieme come un piccolo poema in tre canti regolari sopra oggetti il cui effetto rapido non accordasi comunemente con tanto ordine e, per cosi dire, metodo. La superiorità, per altro, di queste tre canzoni su tutte le opere del P. non può essere intesa che rispetto allo stile, alla delicatezza delle espressioni e al giro delle frasi, all' armonia, all'incatenamento melodioso delle parole, delle rime e delle misure de' versi; di che soli gl'italiani sono giudici competenti; ma io non crederò di fare un sacrilegio preferendo per la verità. dei sentimenti, per la ricchezza e varietà delle imagini e per quella dolce malinconia che è la prima attrattiva delle poesie d'amore le canz. Di pensier in pensier, Chiare fresche e dolca acque, e la precedente Se 'l pensier che mi strugge e anche la seguente In quella parte, e Ne la stagion si ricca di comparazioni tratte dalla vita campestre e si poeticamente espresse, e forse alcune altre (Ginguenė, Hist. litt. d' It. ch. xIv). Dove il P. ha mostrato piú di vera forza, di quell' allegrezza geniale nella produzione che attesta sovrabbondanza di vita, lieta di riversarsi al di fuori con la facilità di chi si trastulla, è in quella specie di poemetto lirico sugli occhi di Laura che ha diviso in tre canzoni (De Sanctis, VII). 1-6. A scrivere degli occhi della sua donna gli manca tempo e ingegno; ma pur lo rincuora la speranza di far intendere a Laura il dolor suo (Proemio generale a tutte tre le canz.). 7-21. Dolore? Oh no! Tanto è il piacere che move da loro, tanta la forza che il p. n'acquista, ch'ei canterà gli effetti più segreti operatigli da loro nell'animo. Sa bene che ogni lode è minore di quegli occhi, e forse non gradita: ma come resistere al desiderio nato in lui non a pena li vide? (Proemio particolare a questa canz.). - 22-30. In presenza loro, se non fosse temenza di offenderli, verrebbe meno di piacere: del resto, morire in presenza loro gli sarebbe piú caro che viverne lontano. 31-45. Se non che quella temenza lo tiene in vita. Quindi la sua passione, da cui né vicinanza né lontananza posson salvarlo, la morte sola potrebbe. - 46-56. Ma via! non vuol dolersi né rivelare i dolori suoi intimi. Già essi occhi veggono lo stato dell' animo suo dal mutare dell' aspetto. 57-66. Se ne canti dunque la bellezza divina. Sebbene essi possano dal vedere a che riducono il p. conoscere la virtú loro, che sarebbe s' e' potessero ammirare sé stessi? è bene che ciò non sia. 67-75. Ma è male che non sien piú larghi di sé al p. il quale per essi soli ama la vita, per essi è doloroso insieme e felice. 76-90. Ma specialmente felice, tanto che non potrebbe tal felicità umanamente durare; però i begli occhi, a lui nascondendosi, lo fanno ritornare in sé. -91-105. Se non che allora il p., ha già conosciuto nella lor vista l'anima della donna sua. Ciò gli è cagione di beatitudine che non vien meno per noia che al loro disparire sopravvenga: ciò gli è cagione di pensieri e di opere che lo faranno immortale. E se questo avverrà, tutto è merito di quegli occhi. fieri la nota tutta. L'AI 6 11 Perché la vita è breve E l'ingegno paventa a l'alta impresa, Ma spero che sia intesa Là dov'io bramo e là dov'esser deve Pigro da sé, ma 'l gran piacer lo sprona: Tien dal suggetto un abito gentile, 1-3. Dolevasi il Mur che il lettore do- | quello che i latini dicono incoeptum, ogni vesse arrestarsi sul principio, non iscoprendo tosto una chiara armonia fra i primi sei versi, anzi ancora fra questi e i segg. Al che riparò il L con un punto fermo alla fine del 6, come già fra gli antichi aveano fatto V, D, R, e con interpetrare cosi: Dice il p. che, sebbene egli si fida poco che la vita e l'ingegno gli bastino a parlar sufficientemente degli occhi di Laura, nondimeno spera che, comunque egli ne parlerà, il dolore che cagionano a lui questi occhi dovrà essere inteso dalla medesima Laura, poiché esso lo dà ad intendere eziandio tacendo. - 1. Ha voluto esprimere il sentimento del primo aforismo di Ippocrate (Gir). - 2. a l'. Par che significhi in q. luogo la causa efficiente e quello che i lat. direbbero propter: come diciamo tutto il giorno, Io tremo a ricordarmene (Var). È un dire compendioso di paventare davanti all' (Bgl). Poliz. St. g. 1 6 ... fin ch'all'alta impresa tremo e bramo». impresa di lodare gli occhi (Bgl). Cfr. v 6. Chiamasi impresa cosa che s'imprende o a fare o a dire (Var). 15 21 26 Levando il parte d'ogni pensier vile: Quanto mia laude è ingiurïosa a voi, Ch' i' vidi quel che pensier non pareggia Forse ch'allor mia indegnitate offende. Non temprasse l'arsura che m'incende, 21. l'aguagli, cosi aveva da prima il ms. originale, ma poi fu raschiato, non sappiamo il perché, e corretto in lauagli. miro da vicino (L). Erizzo e Fr legano q. v. all'anteriore. 25-6. Variamente esposto; lasciando stare le interpretazioni che amplificano il senso, del resto facile, senza dar ragione della sentenza. Per De G° è metonimia simile all'oraziana (epi. I 12) « quid premat obscurum lunae, ponendosi il g. sdegno in vece degli occhi gentilmente sdegnati, e sono seguíti dal Pe dal Fw: all' Erizzo sdegno par che signif. l' alterez aiutato dall'ale amor., cioè dal disio amoroso, parte lo scrittore [Levando, innalzandolo, il parte, lo divide, lo allontana (L): modo figurato, volendo dire lo leva e parte (Var)) da ogni pensier vile e spezialmente da scrivere cosa che sia indegna della santità degli occhi (Cv). 15. Ovid. m. xv 147, nel dogma di Pitagora, «Quaeque diu latuere canam ». 16. Non fo già questo di pigliare a lodarvi perché io non conosca ec. (L). Simile supplimento si fa in quel luogo [LXXX] «Non per-za e nobiltà d'animo di Laura, al quale ch'io sia securo ancor del fine (CV). - 17. Quando si loda alcuna cosa o meno che non si dovrebbe o in altra guisa che non si conviene, se le fa torto non onore (Var). Oraz. 0. 16 Laudes egregii Caesaris et tuas Culpa deterere ingenî e III 3 « desine, pervicax,... Magna modis tenuare parvis ». 20. quel. Cioè lume, movimenti e pensieri. Ed è simile a quello [CXXVII] « Ove fra 'l bianco e l'aureo colore Sempre si mostra quel che mai non vide Occhio mortal, ch' io creda, altro che 'l mio » (Cv). - 20-1. Che non solo non possiamo agguagliar con parole né io né altri, ma non si può pareggiare eziandio col pensiero (L). 22. Vocativo. Occhi autori del ec. (L). Al Cv piaceva piú, non si capisce come, che q. v. si tenesse per apposizione di quel che p. non pareggia. 23. Perocché, per quanto esprimesse il suo dolore in lamenti, non potrebbe alla millesima parte del vero aggiungere, mentre la vista sua chiaro dimostra fuori quello che sente dentro (Bgl). Altrove, xcv « E so ch' altri che voi nessun m'intende: Di fuor e dentro mi vedete ignudo». 24. neve d. Mi struggo (Ai). Vuol dire, Quando io vi par avvicinarsi il Casarotti spiegando « la mia bassezza e indegnità è forse cagione che il v. sd., che suol essere gentile, soave e leggiadro (altrove, CCLXXXIX « col bel viso e co' soavi sdegni e CCCLXII « Leggiadri sdegni che le mie infiammate Voglie tempraro»), divenga fiero e superbo, e cosí l'offende, gli fa ingiuria; interpretaz. questa che fu messa per buona da L. Muzzi (Epist. contenente la nuova esposiz. di un luogo del Petr. ecc., Bologna, MDCCCXXV, Nobili), ove disse che la voce sdegno doveva in q. luogo prendersi in altro signif. del preso finora, per contegno, gravità, sussiego, nondegnazione in somma, e non mai per indignazione. «Ma, seguitava il Muzzi, piú m'aggenia tenere sdegno per quello che suona ordinariamente, e che offendere sia usato dal p. alla prima maniera de' latini, e significhi incorrere, incontrarsi: La mia indegnità incorre il vostre sdegno, s'incontra nel vostro sdegno ». Di tal signific. del v. offendere portava il Muzzi esempi del Cavalca (Dial. s. Gregor.) del Passavanti (Specc. pen.) del San Concordio (Amm. ant); ma son con la prepos. 30 36 41 45 Beato venir men! che 'n lor presenza Si frale oggetto a si possente foco, Che 'l sangue vago per le vene agghiaccia, Ahi dolorosa sorte! Lo star mi strugge, e 'l fuggir non m'aita. Non m'affrenasse, via corta e spedita Dolor, perché mi meni Fuor di camin a dir quel ch' i' non voglio? in o ne e non forse suonanti quel medesimo che il nostro: il San Concordio, p. es., dice In molti peccati noi tutti offendiamo. L, muove il vostro sdegno; Ai, provoca, suscita. -29. In tal caso io verrei meno, mi disfarei; e beato me, se ció avvenisse (L). 31-6. Replica quel medesimo concetto che aveva detto nel fine della 2 st.; non per carestia né di sentenze né di parole, ma poeticamente a maggior espressione (Var). - 31. non mi sf. Disfaccia e distrugga, stando in sulla traslaz. o della neve al sole [v. 21] o della cera al foco [v. 32] (Var). - 32. Essendo oggetto [obietto, da obiicere] sí fragile dinanzi a un fuoco sí possente (Bgl). 33. proprio v. Virtú (Var), forza mia propria (L). - 34. la paura. Quella temenza di non offendere e far disdegnare Laura (Var). un poco. Dipende da risalda del v. 36 (L). Var e Go male lo riferiscono ad agghiaccia del v. 35. - 35. La paura è una contrazione o ristringimento dell' animo per cagione d' alcuna cosa o che sia veramente o che ci paia cattiva, la quale giudichiamo 36. disperso Correndo fugge verso Lo cor che 'l chiama; ond' io rimango bianco». Risalda. Rinforza (P). Rassoda (L). Temprando rifa (G°). Cfr. cv 87. Bgl stranamente fa di q. v. una sentenza staccata dall' anteced., con punto d'ammirazione. -37. Avverte il Dal Tr. d'AM. III 115 «Fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi » che sopra quel verso era scritto Attende similem pedem in Cantilenis oculorum et in illa A la dolce ombra [CXLII); perché disse nell' una « O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi e nel l'altra Selve, sassi, campagne, fiumi e poggi». 38. grave. Molesta, per traslaz. dai pesi (Var). - 41. Lo star in presenza di Laura (Cv), di quegli occhi (L). - 42. Cfr. CCLXVIII 62 e segg. Bembo «E se non fosse che maggior paura Frenò l'ardir, con morte acerba e dura, Alla qual fui molte fiate presso, D' uscir d'affanni arei corta via presa». Quante parole! - 43. via del morire, il ferro, il veleno e simile (Cv). spedita. Non essendo piú agevol cosa che 'l morire: onde altrove, [CLII] Che ben po nulla chi non po mori che ne debba apportare, o di presente ore (Var). - 45. di tal. I piú intend. Laura, della quale altrove, CXXI «Tuo regno sprezza e del mio mal non cura». Ma Cv, Bgl, Cr vogliono che sia la morte riportandosi ai vv. 12-14 del xxxvI. 46-8. Parendogli di sopra aver detto cosa che potea dispiacere all'amata donna, vuol ora scusarsi mostrando non dopo molto tempo, alcuno danno o male grande. Mediante cotale perturbazione l'animo si contrae e ristringe, e quinci séguita che il sangue correndo al cuore lascia le membra esteriori, onde séguita la bianchezza ed il freddo e il tremito (Var), Dante, Rime < E il sangue ch'è per le vene | che 'l dolore è di ciò cagione (F). - 48. ove'l |