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Passato è già più che 'l millesim' anno
Che 'n lei mancâr quell' anime leggiadre
Che locata l'avean là dov' ell' era.
Ahi nova gente oltra misura altera,
Irreverente a tanta et a tal madre!
Tu marito, tu padre:
Ogni soccorso di tua man s'attende:
Ché 'l maggior padre ad altr' opera intende.
Rade volte adiven ch'a l'alte imprese
Fortuna ingiuriosa non contrasti,
Ch'a gli animosi fatti mal s'accorda:
Ora, sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
Fammisi perdonar molt'altre offese,
Ch'al men qui da sé stessa si discorda:
Però che, quanto 'l mondo si ricorda,
Ad uom mortal non fu aperta la via
Per farsi, come a te, di fama eterno;
Che puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
In stato la piú nobil monarchia.

Quanta gloria ti fia

Dir: Gli altri l'aitâr giovene e forte:
Questi in vecchiezza la scampò da morte !

ponle mufiur, Sopra 'I monte Tarpeo, canzon, vedrai

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Un cavalier ch'Italia tutta, onora,
Pensoso piú d'altrui che di sé stesso.

rebber meno ». - 77-9. Costantino frasporto | sei venuto a tanta autorità, fa da me per

la sede dell'impero in Bisanzio nel 329 di C.; e di qui lo scadimento di Roma e il mancar in lei di que' grand'uomini che l'avean collocata in sí alto grado di potenza e di gloria. 80. Nuovo uomo è chi non ha chiarezza de' suoi predecessori ma nuovamente comincia a splendere o vero nuovamente è cittadino (G°). Inf. XVI 73 « La gente nuova e i subiti guadagni Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sí che tu già te 'n piagni». - 82. Suppl. le sei o le hai da essere. Andromaca ad Ettore, Il. VI 429 « Tu padre e madre e fratello, tu marito». E Luc. Ph. 11 388 di Catone « Urbi pater est urbique maritus ». 81. Cfr. la nota che segue alla canz. -85-87. Staz. Theb. x 478 « Invida fata piis et fors ingentibus ausis Rara comes». - 86. ingiuriosa. Con ingiuste offese (L). Oraz. o. 1 35, alla fortuna « Iniurioso ne pede proruas Stantem columnam». Il P., della Fortuna, Fam.11 «Humanarum rerum omnium, excepta virtute, domina est: illam quoque saepe oppugnare sed nunquam expugnare permittitur. -88-89. Questa volta, sgombrando dai molti ostacoli la via onde

PETRARCA - Rime

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donarsi molte altre sue male opere.
Questa volta non fece quello di che la bia-
sima ne' primi due versi di questa stanza
(Forn). 91. quanto. Per quanto tratto di
tempo (Bgl). Quasi quatenus. Bocc. Filoc. v
Queste parole ed altre molte furono tra
Florio e Biancofiore, quanto quel giorno mo-
strò la sua luce».
92-3. A niuno fu aperta
la via per farsi eterno di fama, come a te
è aperta. 91-5. drizzar... in stato. Riporre
dritta in piede, di giacente che era.
monarchia. Roma, la quale soleva esser mo-
narchia, cioè imperatrice, di tutto il mondo
(D). Parlando a un de' Colonna che erano di
parte imperiale, il p. accenna all' impero. O
forse è detto per la vecchia partizione della
storia antica in quattro monarchie.
dir. Che si dica, che le genti dicano (Forn).
gli altri eroi dell'antica Roma.
99. So-
pra 'l monte Tarp. Parlo virgilianamente:
<<< Hinc ad Tarpeiam sedem et Capitolia du-
cit Aen. VIII [347]: « custos tarpeiae Man-
lius arcis Stabat pro templo, et Capitolia
celsa tenebat [ib. 652]» (Gir). - 100. ch'. Cui.
Potrebbe nondimeno anche intendersi che

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era onore di tutta Italia (Forn). - 103. Se iis etiam quos non viderunt Aethic. VIII 1. non a quel modo con che uno s'innamo-E Ovid. epist. Paris Helenae [v. 59] < Ante

ra d'altri per fama, cioè immaginandosi
e guardando colla mente la persona cele-
brata dalla fama (Forn). Nel Tr. Am. IV 22
il p. dice a Massinissa « ...tua fama real
per tutto aggiunge, E tal che mai non ti ve-
drà né vide Con bel nodo d'amor teco con-
giunge. E'l filosofo «Multi benevoli sunt

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tuos animo vidi quam lumine vultus » (Gir). 106. chier. Chiede. Da chierere antiq. (quaerere); ed era pur del provenzale. Anche in prosa: Volgarízz. Gr. s. Gir. 49. « Se tu non dài al bisognoso ciò ch'egli ti chiere, Iddio non ti darà ciò che gli chieri ».

A Cola di Rienzo, che nel 1347 col titolo di tribuno tento rifar Roma a repubblica, crederono quasi tutti nella metà prima del nostro secolo fosse indirizzata questa canzone: ma era credenza né antica né fondata su ragioni di storia e di tradizione, anzi formata d'impressioni personali. Primo tra i commentatori a mettere innanzi Cola fu nel 1523 il Vellutella, a cui seguito dieci anni appresso il Gesualdo, indótto, afferma egli stesso, dall'autorita del Minturno. Ma il Vellutello e il Gesualdo tante altre volte errano dal vero nella conoscenza della vita e dei tempi del P., che non è permesso, la prima volta che escono fuori banditori d'una novità, pigliarli per apostoli; e l'autorità del vescovo Minturno, spettabile in arte poetica, in istoria è nulla. Del resto il Vellutello il Gesualdo e il Minturno mostrano aver pensato a Cola soltanto per la conformità che parve, loro trovare tra alcuni passi della canzone e altri delle epistole latine indirizzate dal P. al tribuno: impressione personale e d'apparenze (cfr. Saggio, pp. 50-56). Per la seconda metà del XVI, per tutto il xvn e per la metà prima del secolo XVIIE l'attribuzione passò né ammessa né respinta né discussa, a pena ricordata: quei tempi non curavano molto la storia, massime in poesia.

Ma l'opinione che la canzone sia a un senatore di Roma è antica: attestata da Antonio da Tempo nell'ultimo ventennio del sec. XIV e da Fr. Filelfo circa il 1455. A' giorni del Minturno il senatore generalmente riconoscevasi in Stefano Colonna. E a Stefano Colonna il giovine, designato nel 1335 senatore di Roma dal pontef. Benedetto xn, la assegnò nel 1764 l'ab. De Sade (I, Notes, 61), instauratore della critica petrarchesca. Aderirono al De Sade il Tiraboschi (St. d. lett. it., vol. v, prefaz.), il Bettinelli (Delle lodi del P., in Opere, vi, 310, Venezia, 1799), 11 Ginguené (Hist. litter. d'It., part. 1, ch. xiv).

Nel 1807, rumorosamente, cioè con gonfia prosa a cui nessuno allora badò, riprese le parti del tribuno un frate, che pretendeva discenderne, Tomm. Gabrini (Comm. sopra il poemetto « Spirto gentil che il P. indirizzò a Niccola di Lorenzo tribuno, Roma, Fulgoni). E naturalmente tutti i biografi e storici e romanzatori del tribuno riconobbero lui nello Spirto gentil: furono, Zefirino Re (in append. alla Vita di C. di R. scr. da un aut. del sec. XIV, Forli, Bordandini, 1828; e Firenze, Le Monnier, 1854), Fr. Papencordt (C. di R. e il suo tempo, traduz. Gar, Torino, Pomba, 1844, pp. 239 e segg.), Ferd. Gregorovius (Gesch. d. Stadt Rom. in m. A., VI, Stuttgart, 1867, pp. 262 e segg.), Ed. Bulwer (Rienzi e l'ultimo de' tribuni, trad. Barbieri, Milano, Stella, 1836). E già Ant. Marsand nell' edizione che delle Rime die' in Padova del 1819 avea messo il nome di Cola in fronte alla canzone; e come tutte le edizioni di poi esemplarono dal piú al meno la marsandiana, cosi lo Spirto gentil rimase il tribuno nella credenza generale delle scuole e dei lettori.

Solo contro Cola tribuno e per il senatore Colonna stiè Salv. Betti, rialzando con altri e validi argomenti l'opinione del De Sade, nel 1854 in una Lettera a Ferd. Ranalli (Giorn. Arcad. vol. cxxxv, riprodotta in Scritti vari di S. B., Firenze, Torelli, 1856, pp. 167 e segg.), e novellamente con un Dialogo nel 1857 (Giorn. Arcad. t. xxxvi della n. serie, rist. Roma, tip. d. belle arti, 1864) contro le opposizioni di Zef. Re e di Gius. Fracassetti editore e traduttore delle epistole del P. Finalmente le ragioni sparse dell' ab. De Sade e del Betti furono riunite e con accolta di ausiliarî riarmate in battaglia nel nostro Saggio del 1876; al quale rimandiamo, perché compendiare né sapremmo né potremmo qui noi, e ci contentiamo a prendere in prestito alcune note dal Manuale di lett. ital. di Tomm. Casini (I, 61-2, Firenze, Sansoni, 1886). In difesa di Stefano Colonna si argomenta: 1) la tradizione antica che alla canz. fosse occasione la nomina di un senatore romano: 2*) lo spirto gentil non era conosciuto dal P. di persona, come egli non conosceva il Colonna [ma conosceva ben Cola]: 3*) l'opera cui intendeva il papa era la questione teologica della visione beatifica, che fu poi risoluta con una bolla del 29 gennaio 1336: 4*) l'anno 1335 il papa restitui al popolo romano il diritto di eleggere i senatori, contentandosi che questa dignità per cinque anni fosse tenuta dal Colonna; fatto memorabile e degno di esser cantato dal P., perché era la prima volta che si concedeva per un quinquennio il primo magistrato della città a un cittadino romano e perché questo succedeva nell' officio a un re, a Roberto d'Angio: 5") l'accenno alle famiglie baronali, che contendono invano il primato a quella dei Colonna, non avrebbe ragione d'essere, se la canz. non fosse indirizzata a un colonnese: 6") secondo la distribuzione del canzoniere, anteriore a quella ora vulgata del Md, la canz. si trovava in mezzo a rime degli anni 1334-1336, e però non può esser stata composta dopo questo tempo ».

Per il tribuno e contro il senatore tornarono a combattere, súbito nel 1876 Alessandro D'Ancona (Del personaggio al quale è diretta la canz. del P. Spirto gentil, Napoli ecc.; ristamp. in Studi di critica e storia letter., Bologna, Zanichelli, 1880), e nel 1885 Franc. Torraca (Cola di R. e la canz. « Spirto gentil, nell'Arch. Rom. di storia patria, vIII, 141-222; ristamp. in Discussioni e ricerche letterarie, Livorno, Vigo, 1888); e strenuamente combatterono; ma, se valsero a intaccare Stefano Colonna il giovane, intatta rimase la credenza nostra contro Cola. Altri cercarono un altro senatore: Franc. Labruzzi (Un altro pretendente alla canz. « Spirto gentil, in Rivista europea, Roma, 1879) in Paolo Annibaldi rettore di Roma nel 1335; Ad. Borgognoni (La canz. « Spirto gentil, Ravenna, 1881) in Stefano Colonna il vecchio: finalmente Ad. Bartoli, parteggiatore anch' egli per il tribuno nella sua Stor. della lett. ital. (Firenze, 1884, vII, 127) rivelò (Domenica del Fracassa, Roma, а. п, 1885, n. 2) un nuovo e antico pretendente da un codice ashburnhamiano (478), che ha su la canz. questa rubrica Mandata a messer Bosone d'Agobbio essendo senatore di Roma. L'ashburnhamiano fu scritto, come resulta certo dal confronto dei caratteri, circa la metà del secolo xv da Bonaccorso di Filippo Adimari, copista di piú altri codd. fiorentini, il quale nel riccard. 1601 si sottoscrisse con la data 1453. Ciò ne afferma l'amico dott. Sal. Morpurgo, il quale anche crede che il piú volte ricordato ashburnhamiano derivi per gran parte dal riccard. 1100, che fu scritto nei primi anni del quattrocento e ha Spirto gentil col titolo Canzone di mess. Franciesco Petracchi a mess. Busone (cfr. Cat. Mss. Riccard., I, 106: Firenze, 1893). Altri mss. quattrocentisti ancora ripetono su la canz. lo stesso nome. Tanto di piú per mess. Busone Raffaelli, cavaliere e rimatore da Gubbio, il quale, se non rimane oramai alla storia letteraria come autore dell'Avventuroso Ciciliano, rimarrebbe tra la leggenda e l'ipotesi dell'amicizia di Dante e dell'acclamazione di Francesco Petrarca. A Busone vennero di mano in mano aderendo (nei successivi numeri della Domenica del Fracassa 4 e 5) il Borgognoni e Franc. D'Ovidio, il quale mostra tenersi dell'aver pensato, indovinando, a Bosone prima che il nome fosse manifestato di su i manoscritti; che è pur qualche cosa: aderirono poi i signori Licurgo Pieretti (Cola di R. e Bosone da G., Roma, 1885), Arturo Pakscher (pp. 40-75) e G. A. Cesareo (pp. 41-47). ІІ Pakscher conchiude: «La canz. fu diretta nel 1337 a Bosone. Ai fedeli del tribuno rimane aperto il largo campo delle supposizioni: ed essi lo corrono bravamente. Tomm. Casini: «Io credo piuttosto che quell' un [v. 102 e 103 «un che non ti vide ancor da presso Se non come per fama uom s' innamora] indichi una persona determinata, ma non il P., si bene qualche altro, forse alcun grande prelato o uomo politico, che egli sapesse favorevole all'opera iniziata o sperata dallo Spirto gentil» (Man, di lett, it., I pag. 60). Ultimamente Vitt. Cian (Atti d. R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. XXVIII, 2 luglio 1893) ha sostenuto argutamente che la canzone fosse bensi fatta per il tribuno, e che poi « il P., fallita dolorosamente e ingloriosamente la impresa di Cola, avrebbe inteso di tramandare ai posteri una canzone indirizzata non piú al disgraziato tribuno, ma ad uno spirto gentil, simbolo astratto di quel redentore che egli augurava a Roma e all'Italia, e che in un certo momento gli era parso di ravvisare nella persona di Cola. Rifacendo la primitiva canzone, egli le avrebbe dato quel carattere di indeterminatezza enimmatica, quasi sibillina, ond' egli e il Boccaccio e in generale quegli umanisti si compiacevano specialmente nelle ecloghe di contenenza politica».

Il Voltaire anch' egli nel capitolo LXVIII de' Saggi su i costumi assegnava questa canzone all'onore di Cola tribuno: ciò poco importa: a noi piace ch' e' la tenesse per la più bella tra le canzoni del P. Ma il De Sanctis, fitto il chiodo che il p. facesse questa da vecchio, come se, dato pur che fosse, come se la poesia del P. non crescesse via via di bellezza con gli anni fino alla vecchiaia, il De Sanctis ci trovava l'imaginazione stracca e che essa era fredda e strascicata e inferiore al soggetto. Noi per contro crediamo che la sia ben superiore, anche se fosse stata indirizzata a Cola. E ogni volta che torniamo a leggerla, il che ci avviene spesso, tornaci anche a mente quella sentenza del Leopardi «Non è meraviglia che l'Italia non abbia lirica, non avendo eloquenza; la quale è necessaria alla lirica a segno che, se alcuno m' interrogasse qual composizione mi paia la piú eloquente tra le italiane, risponderei senza indugiare: Le sole composizioni liriche italiane che si meritino questo nome, cioè le tre canzoni del P., O aspettata, Spirto gentil, Italia mia » (lett. del 19 f. 1819 a P. Giordani), e tuttavia restiam piú fermi nel pensiero che Spirto gentil sia una delle maggiori tra le liriche veramente eloquenti delle genti latine. Tanto è meraviglioso il contrasto fra la solenne antichità nelle prime tre stanze e il medioevo informe e discorde nelle ultime e l'accordo finale nell' etopeia del congedo grandioso!

LIV

Narra allegoricamente come perché e quando deliberasse di lasciar l'amore. L' Alfieri nota i vv. 3, 6-7.

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Per ch' al viso d'Amor portava insegna,
Mosse una pellegrina il mio cor vano;
Ch'ogni altra mi parea d'onor men degna.

E lei seguendo su per l'erbe verdi
Udii dir alta voce di lontano:

Ahi quanti passi per la selva perdi!
Allor mi strinsi a l'ombra d'un bel faggio,
Tutto pensoso; e rimirando intorno
Vidi assai periglioso il mio viaggio;

10 E tornai 'n dietro quasi a mezzo il giorno.

1. d'Am. port. ins. Bellezza o vero segni | gogna perdere il tempo dietro una femd'animo inclinato ad amare (L). Altrove, mina. - 6. selva, di Dante, della vita (T).

CCLXIX 14 «Ritogli a morte quel ch'ella n'ha tolto E ripon le tue insegne nel bel vólto. F°, G°, Cv intendono del P., che mostrasse disposizione ad amare (Tr. am. 153, l'amico gli dice «da' primi anni Tal presagio di te tua vista dava ») o avesse dell' amore il sembiante (Dante V. N. IV Diceva d'amore, perché io portava nel viso tante delle sue insegne, che questo non si poteva ricoprire»). Meglio la prima interpetraz. 2. pellegrina. Qui la vita è significata sotto la metaf. d'un viaggio (Le G°). Bellezza pellegrina, cioè rara (Bgl, F°, Br). Non solo per le bellezze e maniere insolite, ma anche perché Laura veramente era di gente straniera (Te D). - 4. su per l'erb. v. Gli anni teneri della giovanezza (D). Le speranze (V, G°, T). La vita voluttuosa (dC, D, Cv). - 5. alta v. Come da una torre o da cielo, da Dio e dalla ragione che in su la vetta siede a far la guardia (CV). di lontano. Perché già buon viaggio avea fatto fuori di strada (Cv). Per lo peccato la grazia ci sta lontana (G°). Il des e Fr credono dover intendere delle lettere del p. Dionigi da Borgo San Sepolcro che gli scrivea da Parigi essere una ver

Le cose terrene e sensuali: da' filosofi la materia è grecamente chiamata ύλη (G). Gli errori e vaneggiamenti dell' amore (L). - 7. a l'omb. d'un b. f. Al refugio d' una bella e dolce solitudine, che'l faggio nasce ne' luoghi alpestri e solitari (V). Virg. ecl. 11 Tantum inter densas umbrosa cacumina fagos Assidue veniebat». Tr. Mort. II 17, Laura gli apparisce, e « seder femmi in una riva La quale ombrava un bel lauro et un faggio». Cfr. ancóra xxIII 117. 8. rimirando int. Guardando da quante dannose cagioni io era circondato (V). - 10. quasi a m. il g. Tutti, salvo P che interp. quasi nella maggior veemenza del caldo (amoroso»), intendono che sia quel di Dante (Inf. 1)

Nel mezzo del cammin di nostra vita >> e vaglia, come spiega il L, a mezzo il corso naturale della vita, che sarebbe, secondo Aristotele e Dante, a 35 anni. Aggiungendo quasi, il P. ci fa intendere che fu un poco avanti e determina proprio il tempo del ritiro in Valchiusa; sebbene des e Men riportano q. madr. al 1336. Ma F, dC, C° vogliono che alluda a un amore diverso da quel di Laura.

LV

Credevasi liberato del suo amore, e s'avvede d'esserne preso piú che mai (Ai) - L'Alfieri nota i vv. 1-8 e Dal cor del 9, 14, 16 в 17.

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Quel foco ch'i' pensai che fosse spento

Dal freddo tempo e da l'età men fresca,
Fiamma e martir ne l'anima rinfresca.
Non fûr mai tutte spente, a quel ch' i' veggio,
Ma ricoperte alquanto le faville;
E temo no 'l secondo error sia peggio.
Per lagrime ch' io spargo a mille a mille
Conven ch' il duol per gli occhi si distille
Dal cor c'ha seco le faville e l'esca,
Non pur qual fu, ma pare a me che cresca.
Qual foco non avrian già spento e morto
L'onde che gli occhi tristi versan sempre?
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
Vuol che tra duo contrari mi distempre;
E tende lacci in si diverse tempre,
Che, quand' ho piú speranza che'l cor n'esca,
Allor più nel bel viso mi rinvesca.

2. Dal fr. t. Par che fosse d'inverno. ve». peggio. Peggiore: Evang. S. Matt. XII 3. rinfresca. Rinnovella (Bgl). In signifi-Et fiunt novissima hominis illius peiora

caz. consimile e con egual contrasto di termine metaf. Inf. XIV 42: « Iscuotendo da sé l'arsura fresca ». - 4-5. Ovid. met. VII 80 Parva sub inducta latuit scintilla favilla». Oraz. o. II 1 «ignes Suppositos cineri doloso». Più bella l'immagine di Plutarco, riportata dal Cv nella traduz. del Volaterrano Amor, quamquam discedit aut tempore aut ratione victus, non penitus liberam relinquit animam; remanetque in ea vestigium veluti sylvae exustae aut fumantis». - 6. temo no '1. È famigliare di questo p. il tralasciare la partic.che. E veramente alle volte ella riesce piú d'impedimento che d' esplicazione; anzi ci sono delle frasi che senza essa paiano aver piú di grazia : « Ch'io temo no'l soccorso giunga tardo >>> disse il Bembo (T). Stessa elissi ed apocope, Inf. 111 80 Temendo no 'l mio dir gli fosse gra

(L).

prioribus ». - 8. Inf. xxIII 97 «Ma voi chi siete, a cui tanto distilla, Quant' i' veggio, dolor giú per le guance ? ». 9. l'esca. L'alimento di esse faville, che è la bellezza di Laura scolpita nel cuore. 10. La qual esca, o pure il qual duolo [questo intend. G° e Bgl], non è tanto solamente quanto era prima, ma ec. (L). 13. avegna. Avvegnaché; cioè Benché (L). Dante, Rime: «Tant'è la sua virtú che spande e porge, Avvegna non la scorge Se non chi lei onora desiando ». - 14. tra duo contr. il fuoco e le lacrime. mi dist. mi disfaccia e mi strugga (L). - 15. tempre. Guise (L). Cfr. xxxv 10.

17. rinvesca. Invesca di nuovo (Bgl). Non c'è altro esempio, e solo il Bembo (Asolani) lo ripeté « Se non la prima voglia mi rinvesca L'anima desïosa».

LVI

Si finge composto in tempo che il p. stava aspettando Laura a un colloquio promessogli L'Alfieri nota i vv. 1-7, 8-11, 13 e 14.

Se co 'l cieco desir che 'l cor distrugge

Contando l'ore no m' inganno io stesso,

2. non, A.

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