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Terza ragione sarebbe l'ultima parte dell' invettiva stessa di Caronte, la quale doveva fermarsi a non qui se alludeva veramente al transito miracoloso, (ammesso che l'abbia previsto); perchè lá notizia che aggiunge dopo, cioè che occorreva un legno più lieve, è affatto aliena da questo modo di passaggio, accennando al bisogno di un mezzo di trasporto di cui l'angelo non avrebbe saputo

che farsi.

Una quarta ragione si ricava dall'analogia di contegno fra Caron dimonio e gli stizzosi diavoli del canto nono. Perchè, come all'entrata di Dite, anche qui il rifiuto di lasciarlo proceder oltre doveva nettamente specificarsi, se davvero Caronte s'ostinava in esso; ed in questo caso una strapazzatina da parte del cielo non sarebbe stata fuor di luogo. Invece, nulla di tutto questo. Caronte borbotta dapprima un poco, ma poi s'acquieta inteso il verbo di Virgilio; però, secondo i commentatori, negal sempre di pigliar Dante nella barca. Ciò dà cagione a far incomodare un messo celeste, e tuttavia ei ne va impunito! Così dunque si oltraggia chi gira per i luoghi bui con salvacondotto divino? Alle porte di Dite non avvenne così.

Finalmente una quinta ed ultima ragione mi par che sia questa Destatosi, Dante non si meraviglia affatto del trovarsi di là ha capito come la cosa sia andata, e poichè crede che il lettore l'abbia pur capita da quanto egli ha scritto nel canto precedente, non ricorre all' artifizio di chiederne a Virgilio e farsela narrare. Infatti dice senza alcuna sorpresa:

E l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai,
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero è, ch'in su la proda mi trovai
della valle d'abisso dolorosa, ecc.

Ciò che vorrebbe dire : « Alzatomi, mi diedi a guardare attorno e m'accorsi che non era più nel luogo di prima: allora riguardai fiso per vedere dove mi trovassi (pensando che durante il tramortimento mi avessero portato alla sponda di là); ed appunto mi trovai dall'altra parte, sull'orlo della valle infernale ». Ma quel pensiero che io ho chiuso fra le parentesi non può ammettersi che cada in mente a Dante se non si ammette nello stesso tempo che non gli restava più alcun dubbio sui modi come effettuare il passaggio; e poichè ignorava la venuta dell' angelo, egli questo passaggio non può presumere che di averlo fatto per opera di Caronte,

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e per conseguenza se, prima di tramortire, non erano appianate tutte le difficoltà dell' opposizione di costui, gliene doveva nascere una gran meraviglia, la quale invece ei non mostra punto. Ed io spiego, come ognun vede, il « vero è » in forma dichiarativa, quando, secondo la giusta spiegazione del prof. Puccianti, se si ammette il passaggio dell' angelo, deve intendersi in forma dubitativa: «< Io non so come, il fatto sta che io mi trovai, ecc. ». Ma allora nascerebbe spontanea la domanda: «Se per Dante è sorpresa trovarsi, senza saper come, di là, perchè non ne domanda a Virgilio, egli sempre si curioso di tutto? E Virgilio, così preveniente col suo discepolo, perchè non gliene fa motto?» Il Puccianti si meraviglia di questo silenzio e del silenzio pure dei chiosatori a questo riguardo, e ne ha ben donde; ma la spiegazione che egli dà del tacere dei poeti non mi pare soddisfacente: «< Vuol lasciare, egli scrive (1), questo particolare del suo passaggio nel mistero, ciò che conferisce tanto al sublime, specie nella parte miracolosa, nella macchina del poema sacro ». Ma, o io m'inganno, o da questo silenzio si ricava oscurità e dubbiezza, le quali non credo siano doti precipue del sublime; mentre questo, secondo il mio parere, poteva essere accresciuto da qualche accenno il quale, pur rendendone certi del modo. come il passaggio si effettuò, ci lasciava incerti riguardo alle circostanze particolari di esso; essendochè non il silenzio del mezzo di passaggio, ma il modo rapido, impreveduto, come questo si praticò, può darci un'alta idea della potenza del messo celestiale, e quindi un'impressione sublime. Dunque, poichè in nessun altro punto del viaggio si ha esempio di un silenzio simile, poichè è inammissibile che Dante, rifiutandosi Caronte, non abbia avuto curiosità di conoscere in qual modo si trovi all' altra sponda; poichè si deve ammettere che la medesima curiosità si desta nel lettore e che era suo dovere di narratore di soddisfarla, se ne deve indurre che il tragitto avvenne nel modo più semplice e previsto, cioè per la barca.

IV.

A qualcuna delle precedenti ragioni si può opporre quanto s'è accennato più su, che Caronte, e neppur Virgilio, non poteva prevedere quel che poi avvenne, cioè a dire, il tremore, il lampo e il

(1) Fanfulla della domenica anno 1887 n. 6 e segg. Su questo argomento non ho consultato altri scritti perchè non ne conosco di posteriori.

passaggio miracoloso, e però entrambi agivano e parlavano come se questo non dovesse accadere. Sia pur concesso ciò; ma il poeta che narra lo sa, e tanto più era suo dovere di farne cenno appresso, quanto meno prima lo fa capire dai discorsi anteriori dei personaggi. Non averlo fatto ci conduce ad una delle due seguenti conclusioni. Se il passaggio miracoloso ci fu, Dante è colpevole di voluta oscurità e incompletezza, unica di tal natura nel poema. Se non si vuole ammetter questo, allora bisogna negare tal passaggio miracoloso. E siccome nulla d'altra parte s'oppone a far credere che Dante, tramortito, sia stato collocato nella barca di Caronte e quivi trasportato all' altra riva, si può ritenere che la cosa sia avvenuta in questa forma, che è la più semplice di tutte e non ci forza a leggere nel poema quello che non c'è scritto.

Suppongo che questa conclusione si raccolga pure chiaramente dal complesso delle ragioni testè esposte, per la qual cosa Caronte, non avendo nessun passaggio angelico da prevedere, le parole che grida, rivolto a Dante, del modo come questi convien che faccia il passaggio e con che barca, le dice per rispetto a sè e al suo legno è perciò vero che tutto il discorso ha quell' intonazione ironica, di cui s'è già visto qual'è il significato recondito. Chi volesse sapere il perchè di questa ironia, dovrebbe cercarlo nei danni che l'antico barcaiuolo sa che i vivi da lui per l'innanzi tragittati avevano recato all'inferno, e nel suo or fermo proponimento di fare in modo che questo più non avvenga. Se non che, l'autorità di cui Virgilio è munito rompe il suo disegno, vince la sua resistenza e lo costringe a prestarsi al passaggio. Forse si dirà da taluno che il linguaggio ironico non è proprio di chi parla negl' impeti dell'ira; e tale era Caronte. Vero: però l'ironia di lui non sta in quello che dice, ma in quello che sottintende; è nel pensiero e non nelle parole; e se si riflette che quel che disse lo disse in suon rabbioso e tristo, si comprende di leggieri che si verifica questa progressione: dapprima dà semplicemente sfogo all'ira sua naturale gridando da lontano verso le anime e Dante, al quale ingiunge di partirsi dai morti; e così facendo i suoi pensieri sono crucciati poi l'ironia s'insinua fra questi, ed è quando dice al Poeta che se, vuol passare all' altra sponda, passerà in altro legno, ma non in quello suo: disposto così l'animo allo scherno, anche il linguaggio si fa ironico e tale è l'ultima frase che gli esce di bocca.

Riassumendo tutta la discussione che precede, la scena del passaggio dell' Acheronte io credo che debba andare intesa così: Dante vede venir Caronte da lungi, il quale grida alle anime annunziando il luogo d'orrore dove sta per tragittarle; indi si rivolge

a lui in particolare intimandogli di scostarsi da quelle. Vedendo che non lo fa, soggiunge stizzito: «Che! tu vuoi dunque venire per forza nella mia barca? Perdinci! vedrai ch'io non ti ci farò entrare! Se vuoi, potrai passare di là con altro legno e per altra via: sì, va, vatti a trovare, se ti riesce, un' altra barca; già appunto a te ne occorre una più leggiera di questa mia». Allora Virgilio lo ammonisce che è volere del cielo che Dante vivo passi per mezzo suo, e Caronte si tace acconsentendo. Le anime s'imbarcano e la navicella s'allontana. Mentre i due poeti ragionando attendono che la barca ritorni, trema la terra e scoppia improvvisamente una bufera violentissima: il tremuoto fa sudar freddo Dante di spavento, la luce vermiglia lo stordisce e lo fa cascar privo di sentimenti. Così tramortito, al ritorno di Caronte, vien collocato nella nave e tragittato alla sponda opposta, dove si riscuote ad uno scoppio di tuono: si alza, guardasi intorno e vede che non è più dove era prima; intende che è stato passato all' altra riva: affisa il luogo e riconosce di trovarsi sull'orlo dell' abisso infernale.

E qui riflettasi come s'intende bene l'aggettivo riposato, perchè gli occhi essendo stati chiusi per il non breve tratto di tempo che intercede fra l'assopimento e la scossa del risveglio, Dante può dire di aver veramente avuto agio di riposarsi.

la

Si può trovare una ragione, anzi più di una, a questo suo stratagemma del perdere i sensi. Primamente è da considerare che non importava che ci descrivesse il passaggio d'Acheronte al quale egli non volle dare alcuna importanza nell' architettura del poema: il contrario appunto del passaggio dello Stige, che per ragione contraria vien descritto minutamente. In secondo luogo ci doveva parlare dell' accoglienza di Caronte, dello sbarco e di cose simili, tutte inutili. Terzo, e mi pare assai importante, prendendo posto nella barca insieme con le anime, le quali appartenevano a diverse specie di dannati, o taceva di esse ed era sconveniente, o ne parlava ed era fuori posto; perchè delle loro condizioni generali ne aveva già detto abbastanza, e di quelle particolari non poteva dir nulla essendo lì tutte le anime in condizioni eguali. Con la scappatoia del tramortimento tutto è soppresso: portato di là e destatosi comincia il suo viaggio di giro in giro e distinguendo colpa per colpa. Anche il Rambaldi pare che la pensasse così, perchè gliene dà lode: bene fingit se transivisse per somnum.

Una sola obbiezione si può fare a tutto quanto precede, ed è: «Se non v' era più difficoltà da parte di Caronte a che Dante mettesse piede nella sua barca, perchè i due poeti non vi discesero subito e si fecero trasportare assieme a quelle anime che

furono tragittate sotto i loro occhi?» Il dubbio sta; ma la risposta è altrettanto facile quanto l'apparente gravità di esso.

Dante nel poema è da considerarsi sotto un doppio punto di vista; e come visitatore dei luoghi oltramondani, e come artista. Come visitatore egli va osservando tutto e vuol rendersi ragione di tutto; però nel punto che ci occupa, egli non aveva ancora finito di osservare quanto c'era di notevole al passaggio d'Acheronte, non sapeva cioè come le anime s'imbarcano, che, mentre le une trapassano il rio, altre si vanno raccogliendo di qua, ecc. Tutte queste cose egli parte le vede, parte le sa poi, a guisa di spiegazione, da Virgilio; e poichè, non ostante la via lunga, la sua sollecitudine non doveva giungere a tal segno da traversare i luoghi visitati con tal furia come se avesse attaccato ai fianchi l'assillo di Io, Virgilio crede opportuno di tenerlo come spettatore e di indugiare per un poco il suo tragitto. Fors' anche Virgilio, che nell'inferno prevede tutto, ha già previsto la luce vermiglia e il resto, ed anche il suo sbalordimento, ed ha giudicato che quello è il momento più opportuno per passarlo di là. Come artista, Dante non solo deve rendere conto al lettore di quanto è necessario perchè questi abbia un'idea completa di quanto avviene colà; non solo deve presentare le cose in ordine naturale e chiaro; non solo deve toglier via il troppo e il vano, ma non deve tacere nulla che sia importante e che abbia attinenza al soggetto. Ora una cosa alla quale Dante tien molto è quella bufera che si scatena all'ultimo di qua dell' Acheronte. Questa bufera la quale è, secondo me, un saggio delle commozioni atmosferiche che a quando a quando si verificano in quell' antinferno, non sarebbe più stata osservata da Dante, se non forse per un rombo di tuono, nel caso che egli si fosse imbarcato con le prime anime. Metterla prima non poteva, altrimenti doveva sopprimere il tramortimento, che non gli avrebbe permesso di veder nulla; imbarcato che fosse, o non l'avrebbe intesa perchè lontano, o l'avrebbe intesa con meno forza e spavento; e ciò anche perchè gli effetti naturali, puzzo, grida, calore, freddo, ecc., hanno colaggiù soltanto azione tutta locale. Non gli restava quindi che di fare come ha fatto, cioè indugiare l'imbarco e mettere lo stordimento in fine.

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Poichè ho avuto necessaria opportunità di dilungarmi a discorrere di questo passaggio d'Acheronte, e certo più che non avrei voluto, mi si permetta di aggiungere, per finire, un' altra con

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