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che, emesso un grido disperato, scompare: per l'infelice sposo, dopo un anno, si prega l'eterna pace. Da quel tempo gli ultimi tre giorni di gennaio sono di triste memoria nei paesi vicini al Po; la pietà di quei contadini si converte in usanza, in una specie di festa. in cui si canta la mesta canzone popolare, che è il lamento del povero Merlo, ed alla quale tutti quelli che che sono presenti rispondono con questo ritornello in flebile coro:

E di sera e di mattina

la sua Merla poverina
piange il Merlo, e piangerà.

Va'ha chi sopra questo racconto ha composto una ballata che qui trascrivo.

Una fanciulla timida
Merla chiamata e sposa
all' impensato ostacolo
del gelo un po'stizzosa
» ma avanti, andiamo avanti
pur invocando i santi »>

grida il corteo nel giubil

che il giorno delle nozze inspira in cor.

« Alla chiesetta vadasi

» a consumare il nodo

>> alcun non v' ha pericolo

» il ghiaccio è molto sodo ».

Cosi taluno folle

sul Po discender volle

uno, due, tre s'avanzano

e Merla pure del villaggio onor. Ma come questa un piccolo

tratto di fiume ha scorso

diventa il pian men solido
per ingannevol corso:
il lastrico fu scisso

e nell' aperto abisso

la fidanzata misera

scomparve delle fredde onde nel sen....

Di lei, del caso orribile

dura tuttor memoria.

Dovrem noi creder favola

la dolorosa istoria?

Per certa io voglio averla;

della compianta Merla

nel suo linguaggio il popolo
la ria sciagura ripetendo vien.

Questo racconto sarà verissimo: ma per quanto sia patetico e tale da poter dare una sufficente spiegazione del proverbio, tuttavia ci lascia ancora molta curiosità. Il Sacchi ci dà una storia che egli dice ricavata da

varie tradizioni: e noi sappiamo che le tradizioni, attraverso a lungo tratto di tempo, vengono manomesse in modo che ben difficilmente si riesce a raccapezzarne il primitivo costrutto. Il Sacchi poi localizza la memoria del fatto nei paesi presso il Po: invece si trova che la denominazione di giorni della merla è molto più diffusa; e il proverbio: La merla ha passato il Po fu usato dall'autore del Pataffio, dal Petrarca, e da diversi altri, pure antichi, e, quel che importa, ben lontani dal Po, il che non è poco contro la storiella del Sacchi; nella quale, del resto, non si vede la precisa ragione di avere consacrato tre dì, e non uno solo, l'anniversario, alla memoria della povera sposa di Montalino.

Il canonico Antonio Barili ci vuol dare anch'egli un po' di luce a questo riguardo. Nella sua Storia di Casalmaggiore scrive: « La quarta congelazione del Po accadde nell'anno 1510, su cui passò l'esercito francese con tutta la pesante guerresca artiglieria (tra la quale eravi il lungo e grosso pezzo di cannone denominato la Merla, donde si è propagato il proverbio La merla ha passato il Po.... e da cui eziandio si chiamano gli ultimi giorni annuali del mese di gennajo giorni della merla, alludendo al rigidissimo freddo glaciale che si fè sentire nell'epoca indicata) per lo che gli abitanti di Casalmaggiore costretti furono a trasferire a Colorno i necessari grani per farli colà macinare ne' mulini di terra ivi esistenti, con notabile gravissimo dispendio ».

Ma anche questo racconto a cui si cerca di dare la maggior forza possibile con storiche apparenze, lascia molto da dubitare nella conseguenza che si vuol dedurre. Il proverbio, usato dal Petrarca, conosciuto da Dante, da ser Brunetto, dal Sacchetti e da diversi commentatori del divino poema, anteriori al 1510, dà a conoscere di essere nato da cause forse simili, ma molto più antiche, e non specificate. Del resto i versi dell' Alighieri non si possono in alcun modo applicare al Po gelato e la canzone della colombina o merla parla del volare sul mare, che potrebbe essere anche il fiume Po, il maggiore d'Italia, ma non fa parola di congelamento, che è circostanza affatto staccata dalla favola della merla.

I cronisti e gli storici che vissero sulle rive del Po, come il Cavitello, il Muratori, il Corio, i Campi, il Poggiali, il Boselli, Defendente Lodi ed altri, nei loro scritti ci lasciarono diverse informazioni sui congelamenti padani.

Il canonico Pier Maria Campi nella sua Storia ecclesiastica di Piacenza (1) ci racconta che «l'anno 1211 l'acqua del Po agghiacciando in modo che, siccome sul terreno, vi passavano sicuramente cavalli e carri, l'imperatore Ottone IV che, dopo l'infelice spedizione delle Puglie avviato coll'esercito in Germania, varcar lo dovea rimpetto a Guardamiglio, lo passò difatti senza che nè egli nè altri si accorgessero dell' inganno, giacchè il conte di Santafiora suo seguace, non volendo che i cavalli sdrucciolassero, fece coprire il ghiaccio di paglia in modo che non ne apparisse vestigia. Se non che Ottone, poscia che fu sulla sinistra sponda del fiume, accortosi del fatto, e giustamente sospettando che il conte ciò fatto avesse perchè nell'acqua si affogasse, comandò che egli stesso miseramente vi fosse gettato, e che banditi venissero i suoi figli dall'impero ».

(1) Tom. Il, Lib. 16.

Questa storia non prova nulla circa la favola della merla: ho voluto riferirla perchè almeno nel fatto principale ha relazione colla seguente ballata composta anch' essa per la spiegazione del costume lombardo.

Nevi, geli, pruine
trofei di vette alpine

rendono impervio il suolo, al piè nemico,

e il focolar gradito.

Ne' di trascorsi ho udito

ripeter della Merla il grido antico,

una duplice istoria

affidata de' vecchi alla memoria.

Un gran signore, un principe
de' suoi poder nel raggio
nella stagion più squallida
oh tempi!... fa viaggio;
una di sue giumente

gli vien tirando il cocchio

Merla la chiama il suo servo e cocchier.

Al grande fiume italico,

trottando, ei pure arriva
il signor col domestico
e non ha comitiva;
mutata in diaccio è l'onda
dall' una all'altra sponda.

Che far? dar volta subito

fu, di chi guida, il primo e buon pensier.

Poi, dal suo fato misero,

ebbe un altro consiglio:
vuol che la Merla superi
il Po senza naviglio

e: « avanti, andiamo avanti
pure invocando i santi »

al duro passo il principe

un funesto decreto in lui formò.

E l'indoman fu l'ultimo

giorno del cocchier servo
che non dovea l'esimio

capo giocar protervo.

Con tutto questo però io non pretendo di avere pienamente stenebrata l'origine della favola della Merla: ma ciò nulla toglie che il verso dantesco sia stato suggerito da questo singolare costume di Lombardia, tanto più quando si ponga mente che Dante fu in questi paesi alla venuta dell'imperatore Arrigo VII e, precisamente, nel gennaio del 1311.

Lodi, novembre, 1893.

GIOVANNI AGNELLI.

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Corsi Teodoro.

Un' escursione in Casentino. [In Illustrazione italiana. An. XX, no. 41]. Vi si parla del castello de' conti Guidi a Poppi, e di quello diruto di Romena.

(250

Dal Bò Eugenia. Matelda: studio dantesco. Catania, Nicolò Giannotta editore, [Ascoli Piceno, pei tipi di Camillo Bonomi], 1894, in 16o, di pagg. 79.

Passa in rivista tutte le spiegazioni, sì letterali, sì allegoriche, che furon date della Matelda dantesca; e conclude col ritenerla simbolo della felicità che l'uomo può godere in questa terra, e persona non attinta nella storia, ma nella vita privata del poeta, senza che per altro possa determinarsi chi fosse. (251

Della Torre Ruggero. - La pietà nell' « Inferno dantesco: saggio d'interpretazione. [Recens. nella Civiltà cattolica. An. XLV, serie XV, vol. IX, quad. 1050].

I megliori luoghi di questo saggio son quelli dove l'autore si fa a considerare la pietà del poeta verso la Francesca. Dante, tale è in sostanza la sua sentenza, mostra per lei sentimento tanto tenero di compassione, sol perchè, trovandosi nel principio del viaggio salutare, troppo in lui predomina la parte umana, e non ancora è giunto a godere del trionfo della divina giustizia. Cfr. ni. 14 e 231. (252

Drane A. T. - Histoire de saint Dominique fondateur de l'ordre des frères précheurs. Trad. de l'anglais par l'abbé Cardon. Paris, Lethielleux, 1893, in 8°, di pagg. VII-189.

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(253

A proposito di due chiose dantesche. [In Biblioteca delle scuole clas

siche italiane, 1894. Anno VI, no. 12].

È una lettera al direttore della Biblioteca, prof. Giuseppe Finzi, con la quale l'autore,

senza proporre interpretazioni proprie, discute quelle dei professori Bertana e Posocco sul verso
63 del I d'Inferno: Chi per lungo silenzio parea fioco, e del prof. Posocco stesso sul verso
82 del X d'Inferno: E se tu mai nel dolce mondo regge.
(254

Filomusi-Guelfi Lorenzo. Ancora per il verso: « Che quel dinanzi a quel di retro gitta» [Parad., XII, 117]. [In Biblioteca delle scuole classiche italiane. An. VI, no. 5].

È un verso sul cui significato tutti sono d'accordo: i francescani d'oggi camminano al rovescio dei francescani di ieri. Svariano solo sui punto, se devasi intendere di un camminare per innanzi o per indietro; e svariano poi nel fare, per cosi dire, l'anatomìa, l'analisi grammaticale delle espressioni dantesche. Il Filomusi avea tradotto: rivolge il davanti del corpo al luogo ove prima rivolgeva il di dietro [Bollett, no. 104] ; il Moschetti: caccia il piede dinanzi verso quello di dietro invece che, come suolsi, quello di dietro verso quello dinanzi [Bollett., no. 222]. Contro questa interpretazione il Filomusi solleva la eccezione, che non si può nell'uomo parlare di piede anteriore e posteriore; risponde poi, non senza qualche acrimonia, alle obbiezioni che il Moschetti elevò contro la obbiezione sua. Cfr. ni. 104 e 222. (255

Flamini Francesco. Esame dello studio di G. Simonetti sui biografi di Castruccio Castracani degli Antelminelli, e sulla nota del Cipolla intorno alcuni luoghi autobiografici nella divina Commedia. [In Rassegna della letteratura italiana. Anno I, no. 7]. Favorevole. Cfr. ni. 52 e 96.

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(256 Francescatti A. Di una similitudine dantesca. Rovereto, tip. Grigoletti, 1893, in 80, di pagg. 5.

-

Difende Dante dall'accusa che gli avea mosso il Bartoli, di prolungare troppo talune similitudini perdendo di vista il loro intento, come in quella dell' Arzenà de' viniziani [Inf., XXI, 7-18], ove tutto l'arrabattarsi degli operai poco ha che fare con la pece dei barattieri. E prima suppone che tali similitudini allargate abbiano valore di episodio e intento di riposare la mente rivolgendola per un istante alla vita terrena. Quindi osserva, anche nell' Iliade, molte di tali similitudini avere per iscopo di creare nel lettore una disposizione subiettiva a ben comprendere il quadro che gli vien sottoposto, come in quella al canto IV, ove parago nasi il sangue scorrente sull'anca ferita di Menelao ad avorio che meonia o caria donna Tinge d'ostro.... onde fregiarne di superbo destriero le mascelle, e che molti cavalieri desiderano, ma è serbato ad un solo. Dovendosi qui il lettore figurare l'ostro e l'avorio più belli e preziosi, è condotto a pensare alla grazia delle membra, alla nobiltà del sangue, al pregio della persona di Menelao, e dispone così l'animo a sentire lo spavento provato da Agamennone e dagli amici alla vista del piagato eroe. E Dante poi, come Omero, ama mo. strarci le cose in azione, avvivarle colla presenza dell'uomo, o, se non altro, colla personifi cazione della natura; come là ove descrive gli Slavini di Marco, che ce li pone sott'occhio muoversi da la cima del monte e percuotere l'Adige nel fianco. Nella similitudine da ultimo dell'Arsenale nota l'autore derivare efficacia anche da ciò che quando più ferve il lavoro, più si suppone la pece bollire al massimo grado, che era ciò ch'ei voleva che i lettori pensassero della pece infernale. In alcune di queste idee si è incontrato anche il nostro Giornale [quad. XI-XII pag. 565 e quad. VIII-IX pag. 402]. (257

Franciosi Giovanni. Questioni dantesche. [In Roma letteraria. An. II, no. 2]. L'autore si volge ai giovani che, dopo aver letto Dante con attenzione, saran certo disposti ad interrogare e ad essere interrogati su questioncelle dantesche: così la Roma lette

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