raria, che è giornale essenzialmente educativo, potrà opportunamente mutarsi, di quando in quando, in viva scuola, in conversare fraterno tra lo scrittore e il lettore. Perchè il poema dantesco accoglie in sè quanto per l'universo si squaderna, l'esercizio a cui il Franciosi chiama i giovini, potrà essere, pur dentro a' confini del poema, molto vario e attraente e fecondo. Certo, le domande e le risposte, dovranno convenire all'indole del giornale nel quale saran publicate: e riusciranno quindi, al paragone dell' argomento, cosa tenue: ma le tenui dice Lucrezio, - possono dar vestigio delle grandi: e in una goccia di rugiada. possono anche specchiarsi profondità di azzurro e di luce. (258 cose - Questioni dantesche. [« I pensier ch'hai si faran tutti monchi » Inf., XIII, 30]. [Ivi, An. II, no. 6]. Perchè i pensieri, se erano errati, dovevano soltanto farsi monchi? Essi dovevano troncarsi del tutto. A questo dubbio risponde l'autore, che in ogni errore vi è una parte vera e una parte falsa, e questa sola deve esser recisa, rimanendo la vera. Così qui, Dante errava imaginando che in quel bosco [il bosco dei suicidi] si nascondessero spiriti da cui partissero i guai ch'egli udiva; ma non errava imaginando che quei guai uscivano da spiriti umani. L'au tore trova pure che è una imagine simile quella del IX, 17. Discende mai alcun del primo grado Che sol per pena ha la speranza cionca? Cfr. ni. 258 e 291. (259 Frati Ludovico. Gano di Lapo da Colle e le sue rime. [In Propugnatore. Nuova serie, vol. VI, fasc. 34-35]. Delle rime di Gano di Lapo da Colle, imitatore di Dante e del Petrarca, erano a stampa, finora, un sonetto responsivo ad Antonio da Ferrara [Quella che cresce per andar sue posse] publicato dal Crescimbeni e dal Villarosa, un altro [L'amaro colpo della fredda morte] che il Ricci trasse dal cod. Laurenziano della ss. Annunziata 122, una canzone sulla fortuna data dal Ginanni e poi dallo Zambrini a Menghino Mezzani e ripublicata col nome del Cavalcanti dal Cicciaporci e dalli editori del Parnaso italiano, ed un'altra canzone sui sette peccati mortali publicata dal Sarteschi sotto il nome di Matteo Correggiaio sulla fede d'un codice sienese. Ora, per le cure del dr. Ludovico Frati, che tutte le rime di Gano ha ridotte a meglior lezione sulla scorta de' molti manoscritti che le contengono, il patrimonio poetico di questo trecentista si aumenta di altre due canzoni sopra l'amor mondano [Favole d' Elicona io vo lassare e Qual' uom si veste de l'amor carnale] e di un capitolo in terza rima [4vie Titan suo' carri in su 'l leone], che fanno fede del valore poetico di messer Gano forse superiore a quello di altri trecentisti che ebbero meglior fortuna di lui. (260 Gambinossi-Conte Teresa. I luoghi d'Italia rammentati nella divina Commedia. [Recens. in Nuova Antologia. An. XXIX, terza serie, vol. L, fasc. 5°]. L'idea di questo lavoro è ottima: ma non altrettanto può dirsi dell'attuazione di esso. Il dizionarietto dei luoghi lascia alquanto a desiderare, sia rispetto all'opportunità di certe notizie superflue, sia per la mancanza di notizie desiderate, sia infine per le inesattezze geo. grafiche e storiche che spesso vi occorrono. È da augurarsi che l'autrice, megliorando, in una nuova edizione, il suo lavoro con più diligenti ricerche, si studi di darci quella piena e sicura illustrazione dei luoghi ricordati da Dante che è un vecchio e non ancora soddisfatto desiderio degli studiosi. Cfr. ni. 85 e 106. (261 327. Gebhart Emile. L'Italie mystique: histoire de la renaissance religieuse au moyen âge. Paris, libr. Hachette, [impr. Lahure], 1890, in 16°, di pagg. VII Sommario: I. Les conditions religieuses et morales de l'Italie antérieurement à Joachim de Flore. Arnauld de Brescia. II. Joachim de Flore. III. Saint François d'Assise et l'apo- Ghignoni A. Nuova costruzione d'un passo del « Paradiso ». [Nella Biblioteca delle scuole classiche italiane. An. VI, no. 7]. Intorno alle due terzine 73-78 del canto XX di Paradiso: Quale allodetta che in aere si spazia, bella la prima, innanzi tutto perchè chiara; non bella la seconda, innanzi tutto per la sua ambiguità. Ma un dubbio può tuttavia affacciarsi anche nell'interpretazione della prima terzina: Qual è l'ultima dolcezza che sazia la lodoletta? Rispondono i chiosatori: quella del canto, dell'ultimo gorgheggio; ma, dalla costruzione di questi versi: Quale allodetta che prima cantando si spazia in aere poi tace contenta dell'ultima dolcezza che la sazia, trae il Ghignoni un'altra spiegazione. Nell'allodetta si vogliono notare indubbiamente due azioni successive, quella del cantare spaziando in aere, e quella del tacere contenta. Ora, nel fatto, la lodoletta tace quando ripiega il volo al suo nido in mezzo ai campi; quindi la sua ultima dolcezza sarebbe quella ch'essa prova avvicinandosi e, quindi, posandosi al nido. Quanto alla seconda terzina, le parole Dell' eterno piacere son determinazione della imprenta o no? I commentatori dicon di si; ma perchè è da notare che in Giove l'imprenta è l'insegna, l'emblema imperiale, l'aquila, onde ai versi 112-114 del XVIII di Paradiso le anime con poco moto si allungarono per compire la imagine dell'aquila, questi commentatori danno sospetto di non saper essi stessi come mai e perchè l'imprenta imperiale sia l'imprenta dell' eterno piacere, e certo ci annaspano d'intorno molte parole senza grande costrutto. L'impiccio nasce forse dal cattivo ordinamento delle frasi che dovrebber disporsi così: Quale allodetta che prima cantando si spazia in aere, poi tace contenta .... tale, o così contenta dell'eterno piacere, che è Dio, in quanto è oggetto di beatitudine conseguita alle anime [Parad., XVIII, 13-18], mi sembrò la imagine dell'imprenta. Inteso in questo modo il passo controverso, ne resulta un parallelo perfetto. E di vero: l'allodola canta come avea cantato la celeste aquila: dopo il canto, l' allodola tace inebriata dell'ultima dolcezza, e l'aquila tace nella contemplazione di Dio in cui si riposa come fera in lustra. Ma che significa l'ultima frase: al cui disio Ciascuna cosa, quale ell'è, diventa? Tutte le cose, spiegano i commentatori, sono create quali Dio le vuole. Ma già il Tommasèo osservò acutamente: disìo di Dio non so se proprio. Non, infatti, al disio, ma al volere propriamente di Dio le cose vengono all'esistenza. Probabilmente, dunque, si deve intendere: Al desio dell'eterno valore, cioè nutrendo desiderio di Dio, ultimo fine di tutte le cose, esse divengono, ossia vanno perfezionandosi, accostandosi man mano al tipo ideale della loro natura: la creatura ragionevole colla scelta razionale e libera dei mezzi, tutte le altre con istinto a lor dato che le porti [Parad., I, 110]. (263 Gottlob Adolf. Die päpstlichen Kreuzzugs-Steuern des 13. Jahrhunderts. Ihre rechtliche Grundlage, politische Geschichte und technische Verwaltung. Heiligenstadt [Eichsfeld], Fr. W. Cordier, 1892, in 8o, di pagg. XVI-278. Di questo importante studio intorno alle imposte per le crociate nel secolo XIII, è una diligente recensione di G. Papaleoni in Arch. stor. ital., serie V, tom. XII, disp. 4a del 1893. (264 Graf Arturo. Miti, leggende e superstizioni del medio evo. Torino, E. Loescher [stab. tip. V. Bona], 1892-"93, voll. due in 8o, di pagg. XXIV-312, 398. Sommario: I. Il mito del paradiso terrestre. La prima origine di tale credenza è da cercarsi in una proprietà della natura umana. Elementi vari, storici, ideali e sociali, concorsero poi a dar forma al mito primitivo nato per virtù di fantasìa. Dopo aver ritrovato le più antiche tradizioni del mito nelle tradizioni indo-europee, l'autore ne tratta ogni parte punto per punto: la situazione del paradiso nelle varie regioni del globo, le maraviglie di che lo arricchì la fantasia de' vari popoli, i primi abitatori di esso, Adamo ed Eva, ecc. II. Il riposo dei dannati. Vi si parla del riposo che, secondo la Visio Pauli, è concesso a' dannati dalla nona ora del sabato alla prima del lunedì. A Dante non dovette essere ignota la pie tosa leggenda: e l'autore si duole che egli non abbia introdotta nel poema la finzione dell'interrotto castigo. Con far tacere subitamente le grida disperate dei dannati, con farle poi ricominciare, giunto il termine del riposo, più spaventose di prima, egli avrebbe, infatti, trovata la via a bellezze poetiche di prim'ordine, degne del poema immortale. San Tommaso forse fu quegli che non gliel permise. III. La credenza nella fatalitá. IV. La leggenda di' un pontefice. V. Demonologia di Dante (1). VI. Un monte di Pilato in Italia. VII. Fu superstizioso il Boccaccio? VIII. San Giuliano nel « Decamerone » e altrove. IX. Il rifiuto di Celestino V. Vi si espone la favola colla quale volle darsi ragione del gran rifiuto di quel pontefice. Dante, sebbene parli in generale degli inganni usati da Bonifazio per salire su la sedia di Pietro, o non conobbe quella leggenda della quale pure parlano alcuni antichi comentatori o sdegnò di raccoglierla. Nata e fiorita, forse, tra i frati seguaci di Piero da Morrone, si ritrova trasportata in Islanda e conservata in un codice del quattrocento. X. La leggenda di un filosofo. Michele Scotto. XI. Artù nell' Etna. XII. Un mito geografico. Il monte della calamita. (265 Il sentimento religioso nel medio evo. [In Fanfulla della domeni Graziani Augusto. ca. An. XVI, no. 9]. Rende conto di una conferenza tenuta dal prof. Carlo Calisse al Circolo giuridico di Siena. Egli vi accennò a Dante quasi anello di transizione fra il medio evo e il risorgi mento, poichè mentre riconosce la teologia quale prima delle scienze e in Beatrice rimette la spiegazione di ogni dubbio che gli si affaccia alla mente, subordinando l'umana ragione alla fede, pur tuttavia è desideroso di gloria, è grato al suo maestro che gli ha insegnato come l'uom s'eterna, ama la patria, e grande la vagheggia fino a Pola nel Quarnero, fino dove il Rodano stagna, e mai non teme d'infligger a papi ed a cardinali severe censure. Felicemente concluse, paragonando a Dante Vergilio, che sull' ingresso della nuova età trasmette, poetizzata, l'eredità del passato, al Petrarca, ad Orazio, tra il vecchio e il nuovo ondeggiante, al Boccaccio, a Ovidio, che dà ai romani quello che ai contemporanei suoi Giovanni Boccaccio. (266 Grisar Hartmann. Le tombe apostoliche di Roma: studî di archeologia e di storia. Roma, tip. Vaticana, 1892, in 4', di pagg. 56, con due tavv. in fototipia e quattro zincotipie nel testo. Nonostante le innumerevoli vicende alle quali Roma soggiacque nel corso di quindici secoli, le tombe de' due grandi apostoli della fede cristiana, Pietro e Paolo, rimasero inviolate nel luogo ove Costantino magno le fece costruire. Recens. dettagliata e favorevole nella Civiltà Cattolica, Anno XLIV, serie XV, vol. VII, quad. 1038. (1) Di questo studio diremo nel prossimo bollettino. G (267 Guglieri Ernestina. Canto VIII Purgatorio». [In Cenni letterarii di E. Guglieri. Cremona, tip. sociale, 1893]. Esame estetico delle due prime famose terzine del canto VIII di Purgatorio, Era già l'ora che volge il disìo... (268 Iannucci Alfonso. Teologia estetica e sociale della divina Commedia di Dante Ali ghieri: conferenze. [Recens. in Civiltà cattolica. Anno XLIV, serie XV, vol. VIII, quad. 1043]. L'opera, [Napoli, Morano, 1892, in 8'], nel suo tutto, manifesta nell'autore svariata dot trina e più svariata erudizione, fantasia vivacissima e facilità di stile. Quanto alla materia l'autore prova generalmente bene l'assunto preso a trattare. Non è bensì lodevole quel troppo diffondersi a mettere in rilievo l'ortodossìa di Dante, verità tanto evidente che niun critico, ai nostri giorni, per quanto razionalista, si attenterebbe di revocare in dubbio. Il volere poi scorgere nel dilettoso monte del II canto d' Inferno il Calvario, sarà congettura ingegnosa, ma non pare si fondi sopra solido fondamento. Maggiore esattezza di linguaggio sarebbe desiderabile qua e colà, dove il Jannucci tocca punti di teologia. Da quello, per esempio, che egli scrive a pagine 171, non potrebbe altri a ragione di logica dedurre che la Trinità in divinis può conoscersi col solo lume della ragione? Dottrina quanto falsa, altrettanto aliena dall'opinare del chiaro autore, che si mostra altrove versato nelle opere dell' Angelico. Nella conferenza IX, ove tratta della croce sabauda nel campo di Sahati e di Dogali, son parecchi concetti ispirati più dal fervore dell' estro poetico che dalla nuda verità dei fatti. Cfr. no. 26. Inguagiato Vincenzina. Cfr. no. 304. (269 Lajolo Gregorio. - Indagini storico-politiche sulla vita e sulle opere di Dante Ali ghieri. Torino, tipografia L. Roux e C., 1893, in 8o, di pagg. 213. I. Guelfismo e ghibellinismo. Il Boccaccio, mentre infierivano ancora le fazioni guelfa e ghibellina, diceva di non sapere onde cotali nomi si avessero: frase che sta bene accanto a quest'altra di Gregorio X che del nome ghibellino nel 1273 esclamava Inane nomen quod quid significet nemo intelligit. Noi siamo da lunga mano avvezzi a confondere le lotte tra la chiesa e l'impero colle lotte tra città e città, confederate le une contro le altre sotto i nomi di leghe guelfe e ghibelline; tanto più che i cronisti del tempo usano per le une la frase di parte di santa chiesa e per le altre di parte d' imperio; onde il più rudimen tale buon senso ne dice che, se i cronisti adoperano queste frasi, bisogna pure che ce ne sia una ragione. Tuttavia, che esse corrispondano esattamente a due ideali politici opposti, non pare all'autore: dacchè i cronisti ne fanno uso non pure quando chiesa ed imperio, essendo tra di loro in pace, continuano le lotte tra guelfi e ghibellini, ma anche quando quelle lotte non cedono contro alla volontà di papi e di imperatori. Questo fatto, anzi, induce il Lajolo ad un altro dubbio: che neppure allorquando Italia pare divisa in due parti con a capo le due autorità papale ed imperiale l'una contro l'altra armate, non si possa con fondamento ritenere che gli animi siano divisi da ideali opposti; e gli conferma il sospetto che il combattere per la chiesa o per l'impero non sia che una delle vie che avrebber condotto, come condussero, al conseguimento di certi ideali che stavano al di sopra della chiesa e dell'impero ed eran comuni alle due parti. II. Tendenze politiche di Dante in patria. Dante Alighieri fu uomo di parte? Quel poco che sappiamo di lui in patria non sembra contraddire alla narrazione del Boccaccio, la quale, sfrondata di tutte le frasi retoriche, viene a dire che il giovane allievo di Brunetto Latini a voler ridurre in unità il partito corpo della sua republica, pose ogni suo studio. E credendo molto più di bene poter operare per là sua città, se nelle cose publiche fusse grande, che essere privato, si diede a seguire i publici offici e vedendo che per sè medesimo non poteva una terza parte tenere, la quale giustissima la ingiustizia delle altre due abbattesse, tornandole ad unità, con quella si accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era più di ragione e di giustizia, operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a' suoi concittadini conoscea. Tutto ciò non è da uomo legato ad una parte di cittadini contro l'altra, nè di una setta politica piuttosto che di un'altra; e coloro che fanno Dante guelfo in patria debbono venire al dilemma: o Dante non è quale il Boccaccio lo descrive o il nome di guelfo è nome vano. Quindi, nè gli offici sostenuti nel comune, nè le battaglie combattute per esso ci posson far venire alla conclusione cui giungono il Balbo ed i suoi seguaci. III. Condanna di Dante in esiglio. Nella sentenza di Cante Gabbrielli, fra i capi d'accusa gravanti su Dante e i suoi tre compagni, è notevole quello di essersi essi adoperati contra summum pontificem et dominum Karolum pro resistentia sui adventus, vel contra statum pacificum civitatis Florentie et partis guelforum. La prima parte dell'accusa sembra più fondata della seconda: e si potrebbe accettare non solo quale una conferma della ostilità che Dante ha mostrata contro al pontefice ne' consigli del comune, ma anche perchè non contraddice, anzi consuona del tutto colle allusioni che son nel poema a questi due personaggi, e col severo giudicio di lor torbidi maneggi contro la parte preponderante nel comune fiorentino. Ma anche non bisogna dimenticare che i neri ebber molto sospirato l'intervento di Bonifazio: e spacciandosi veri fedeli di santa chiesa tanto armeggiarono che egli, consigliato di abbattere il rigoglio dei fiorentini, promise di prestare a' guelfi neri la gran potenza di Carlo mandandolo con nome di paciaro a Firenze ma col proponi mento, in realtà, di fare i bianchi nemici della casa di Francia e della chiesa. Dante Alighieri doveva essere irresistibilmente travolto nelle sventure de' bianchi, nonostante la sua buona volontà e le proteste di essere senza parte. IV. Questione cronologica e politica sul libro De Monarchia. Chi esaminasse attentamente il contenuto e la forma delle varie opere di Dante, forse potrebbe trovare una progressione di maturità di pensieri tale, da ammettere senz'altro un nesso cronologico, in cui appare prima la Vita nuova, poi il De Monarchia, poi il Convito e il De vulgari eloquio, poi le Epistole politiche e la Commedia, dove ha pieno svolgimento la sua potenzialità intellettuale ed artistica. Nel trattato della Monarchia Dante ha voluto combattere le imprese di Bonifacio interpretando così le idee ghibelline de' suoi concittadini, e porre un argine ai mali dell'umanità. V. I primi anni dell'esilio di Dante. Dante in esilio fu fatto, come gli altri bianchi, ghibellino per forza senza essere stato guelfo in patria. Che i fuorusciti bianchi avessero fatto causa comune con i ghibellini, è appunto ciò che racconta il Compagni: nè è difficile a comprendersi un tale affratellamento, dacchè tutti costoro aspiravano a tornare in patria: e se pur tra loro poteva essere una tradizione di vicendevoli rappresaglie, alimentate da odii, quelle rappresaglie, di fronte a nemici comuni potevano, se non estinguersi, almeno dimenticarsi un istante. Che Dante si sia unito ai fuoru sciti per rientrare in Firenze non si può dubitare: chè il suo nome è tra i firmatarii del patto scritto nel congresso di San Godenzo di Mugello nel 1302. Non ugualmente sicuro è che egli si trovasse in Mugello nel 1303 e al tentativo della Lastra nel luglio del 1304: come non pare neppure essersi l'Alighieri trovato coi bianchi nel 1306 all'assedio di Monteaccini. co. L'esito infelice dell' impresa della Lastra pare ad evidenza profetato nelle parole di Cac. ciaguida ai versi 61-66 del XVII di Paradiso: e Dante, affermando che non avrebbe avuta rotta o rossa la tempia, lascia pure intendere che non ci ebbe parte. Ciò avvenne un poco appresso che i suoi si adirarono con lui; cioè un poco prima del tentativo della Lastra ci fu rottura di amicizia fra Dante e i compagni di esilio. Questo tentativo avvenne il 22 di luglio |