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Corsi Teodoro.

Un' escursione in Casentino. [In Illustrazione italiana. An. XX, no. 41]. Vi si parla del castello de' conti Guidi a Poppi, e di quello diruto di Romena.

(250

Dal Bò Eugenia. Matelda: studio dantesco. Catania, Nicolò Giannotta editore, [Ascoli Piceno, pei tipi di Camillo Bonomi], 1894, in 16o, di pagg. 79.

Passa in rivista tutte le spiegazioni, sì letterali, sì allegoriche, che furon date della Matelda dantesca; e conclude col ritenerla simbolo della felicità che l'uomo può godere in questa terra, e persona non attinta nella storia, ma nella vita privata del poeta, senza che per altro possa determinarsi chi fosse. (251

Della Torre Ruggero. - La pietà nell'Inferno dantesco: saggio d'interpretazione. [Recens. nella Civiltà cattolica. An. XLV, serie XV, vol. IX, quad. 1050].

I megliori luoghi di questo saggio son quelli dove l'autore si fa a considerare la pietà del poeta verso la Francesca. Dante, tale è in sostanza la sua sentenza, mostra per lei sentimento tanto tenero di compassione, sol perchè, trovandosi nel principio del viaggio salutare, troppo in lui predomina la parte umana, e non ancora è giunto a godere del trionfo della divina giustizia. Cfr. ni. 14 e 231. (252

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Drane A. T. Histoire de saint Dominique fondateur de l'ordre des frères précheurs. Trad. de l'anglais par l'abbé Cardon. Paris, Lethielleux, 1893, in 8°, di pagg. VII-189.

Dufresne de Saint-Léon A. Cfr. no. 281.

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(253

A proposito di due chiose dantesche. [In Biblioteca delle scuole clas

siche italiane, 1894. Anno VI, no. 12].

È una lettera al direttore della Biblioteca, prof. Giuseppe Finzi, con la quale l'autore,

senza proporre interpretazioni proprie, discute quelle dei professori Bertana e Posocco sul verso 63 del I d'Inferno: Chi per lungo silenzio parea fioco, e del prof. Posocco stesso sul verso 82 del X d'Inferno: E se tu mai nel dolce mondo regge. (254

Filomusi-Guelfi Lorenzo. Ancora per il verso: «Che quel dinanzi a quel di retro gitta» [Parad., XII, 117]. [In Biblioteca delle scuole classiche italiane. An. VI, no. 5].

È un verso sul cui significato tutti sono d'accordo: i francescani d'oggi camminano al rovescio dei francescani di ieri. Svariano solo sui punto, se devasi intendere di un camminare per innanzi o per indietro; e svariano poi nel fare, per cosi dire, l'anatomia, l'analisi grammaticale delle espressioni dantesche. Il Filomusi avea tradotto: rivolge il davanti del corpo al luogo ove prima rivolgeva il di dietro [Bollett, no. 104] ; il Moschetti: caccia il piede dinanzi verso quello di dietro invece che, come suolsi, quello di dietro verso quello dinanzi [Bollett, no. 222]. Contro questa interpretazione il Filomusi solleva la eccezione, che non si può nell'uomo parlare di piede anteriore e posteriore; risponde poi, non senza qualche acrimonia, alle obbiezioni che il Moschetti elevò contro la obbiezione sua. · Cfr. ni. 104 e 222. (255

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Flamini Francesco. Esame dello studio di G. Simonetti sui biografi di Castruccio Castracani degli Antelminelli, e sulla nota del Cipolla intorno alcuni luoghi autobiografici nella divina Commedia. [In Rassegna della letteratura italiana. Anno I, no. 7]. Favorevole.

Cfr. ni. 52 e 96.

(256 Francescatti A. Di una similitudine dantesca. Rovereto, tip. Grigoletti, 1893, in 8°, di pagg. 5.

Difende Dante dall'accusa che gli avea mosso il Bartoli, di prolungare troppo talune similitudini perdendo di vista il loro intento, come in quella dell' Arzenà de' viniziani [Inf., XXI, 7-18], ove tutto l'arrabattarsi degli operai poco ha che fare con la pece dei barattieri. E prima suppone che tali similitudini allargate abbiano valore di episodio e intento di riposare la mente rivolgendola per un istante alla vita terrena. Quindi osserva, anche nell' Iliade, molte di tali similitudini avere per iscopo di creare nel lettore una disposizione subiettiva a ben comprendere il quadro che gli vien sottoposto, come in quella al canto IV, ove paragonasi il sangue scorrente sull'anca ferita di Menelao ad avorio che meonia o caria donna Tinge d'ostro.... onde fregiarne di superbo destriero le mascelle, e che molti cavalieri desiderano, ma è serbato ad un solo. Dovendosi qui il lettore figurare l'ostro e l'avorio più belli e preziosi, è condotto a pensare alla grazia delle membra, alla nobiltà del sangue, al pregio della persona di Menelao, e dispone così l'animo a sentire lo spavento provato da Agamennone e dagli amici alla vista del piagato eroe. E Dante poi, come Omero, ama mostrarci le cose in azione, avvivarle colla presenza dell'uomo, o, se non altro, colla personifi cazione della natura; come là ove descrive gli Slavini di Marco, che ce li pone sott'occhio muoversi da la cima del monte e percuotere l'Adige nel fianco. Nella similitudine da ultimo dell'Arsenale nota l'autore derivare efficacia anche da ciò che quando più ferve il lavoro, più si suppone la pece bollire al massimo grado, che era ciò ch'ei voleva che i lettori pensassero della pece infernale. In alcune di queste idee si è incontrato anche il nostro Giornale (quad. XI-XII pag. 565 e quad. VIII-IX pag. 402].

(257

Franciosi Giovanni. Questioni dantesche. [In Roma letteraria. An. II, no. 2]. L'autore si volge ai giovani che, dopo aver letto Dante con attenzione, saran certo disposti ad interrogare e ad essere interrogati su questioncelle dantesche: così la Roma lette

raria, che è giornale essenzialmente educativo, potrà opportunamente mutarsi, di quando in quando, in viva scuola, in conversare fraterno tra lo scrittore e il lettore. Perchè il poema dantesco accoglie in sè quanto per l'universo si squaderna, l'esercizio a cui il Franciosi chiama i giovini, potrà essere, pur dentro a' confini del poema, molto vario e attraente e fecondo. Certo, le domande e le risposte, dovranno convenire all'indole del giornale nel quale saran publicate e riusciranno quindi, al paragone dell' argomento, cosa tenue: ma le tenui Cose dice Lucrezio, - possono dar vestigio delle grandi: e in una goccia di rugiada. possono anche specchiarsi profondità di azzurro e di luce. (258 Questioni dantesche. [« I pensier ch'hai si faran tutti monchi » Inf., XIII, 30]. [Ivi, An. II, no. 6].

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Perchè i pensieri, se erano errati, dovevano soltanto farsi monchi? Essi dovevano troncarsi del tutto. A questo dubbio risponde l'autore, che in ogni errore vi è una parte vera e una parte falsa, e questa sola deve esser recisa, rimanendo la vera. Così qui, Dante errava imaginando che in quel bosco [il bosco dei suicidi] si nascondessero spiriti da cui partissero i guai ch'egli udiva; ma non errava imaginando che quei guai uscivano da spiriti umani. L'au. tore trova pure che è una imagine simile quella del IX, 17. Discende mai alcun del primo grado Che sol per pena ha la speranza cionca? Cfr. ni. 258 e 291. (259

Frati Ludovico. - Gano di Lapo da Colle e le sue rime. [In Propugnatore. Nuova serie, vol. VI, fasc. 34-35].

Delle rime di Gano di Lapo da Colle, imitatore di Dante e del Petrarca, erano a stampa, finora, un sonetto responsivo ad Antonio da Ferrara [Quella che cresce per andar sue posse] publicato dal Crescimbeni e dal Villarosa, un altro [L'amaro colpo della fredda morte] che il Ricci trasse dal cod. Laurenziano della ss. Annunziata 122, una canzone sulla fortuna data dal Ginanni e poi dallo Zambrini a Menghino Mezzani e ripublicata col nome del Cavalcanti dal Cicciaporci e dalli editori del Parnaso italiano, ed un' altra canzone sui sette peccati mortali publicata dal Sarteschi sotto il nome di Matteo Correggiaio sulla fede d'un codice sienese. Ora, per le cure del dr. Ludovico Frati, che tutte le rime di Gano ha ridotte a meglior lezione sulla scorta de' molti manoscritti che le contengono, il patrimonio poetico di questo trecentista si aumenta di altre due canzoni sopra l'amor mondano [Favole d' Elicona io vo lassare e Qual' uom si veste de l'amor carnale] e di un capitolo in terza rima [4vie Titan suo' carri in su 'l leone], che fanno fede del valore poetico di messer Gano forse superiore a quello di altri trecentisti che ebbero meglior fortuna di lui. (260

Gambinossi-Conte Teresa.

I luoghi d'Italia rammentati nella divina Commedia. [Recens. in Nuova Antologia. An. XXIX, terza serie, vol. L, fasc. 5°].

L'idea di questo lavoro è ottima: ma non altrettanto può dirsi dell'attuazione di esso. Il dizionarietto dei luoghi lascia alquanto a desiderare, sia rispetto all' opportunità di certe notizie superflue, sia per la mancanza di notizie desiderate, sia infine per le inesattezze geo. grafiche e storiche che spesso vi occorrono. È da augurarsi che l'autrice, megliorando, in una nuova edizione, il suo lavoro con più diligenti ricerche, si studi di darci quella piena e sicura illustrazione dei luoghi ricordati da Dante che è un vecchio e non ancora soddisfatto desiderio degli studiosi. Cfr. ni. 85 e 106. (261

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Gebhart Emile.

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L'Italie mystique: histoire de la renaissance religieuse au moyen âge. Paris, libr. Hachette, [impr. Lahure], 1890, in 16°, di pagg. VII Sommario: I. Les conditions religieuses et morales de l'Italie antérieurement à Joachim

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327.

de Flore. Arnauld de Brescia. II. Joachim de Flore. III. Saint François d'Assise et l'apostolat franciscain. IV. L'empereur Frédéric II et l'esprit rationaliste de l'Italie méridionale. V. Exaltation du mysticisme franciscain. L'Evangile éternel. Jean de Parme. Fra Salimbene. VI. Le Saint-siège et les spirituels. La poésie et l'art populaires. VII. Le mysticisme, la philosophie morale et la foi de Dante. (262

Ghignoni A.

Nuova costruzione d'un passo del « Paradiso. [Nella Biblioteca delle scuole classiche italiane. An. VI, no. 7].

Intorno alle due terzine 73-78 del canto XX di Paradiso: Quale allodetta che in aere si spazia, bella la prima, innanzi tutto perchè chiara; non bella la seconda, innanzi tutto per la sua ambiguità. Ma un dubbio può tuttavia affacciarsi anche nell'interpretazione della prima terzina: Qual è l'ultima dolcezza che sazia la lodoletta? Rispondono i chiosatori: quella del canto, dell' ultimo gorgheggio; ma, dalla costruzione di questi versi: Quale allodetta che pri ma cantando si spazia in aere poi tace contenta dell'ultima dolcezza che la sazia, trae il Ghignoni un'altra spiegazione. Nell' allodetta si vogliono notare indubbiamente due azioni successive, quella del cantare spaziando in aere, e quella del tacere contenta. Ora, nel fatto, la lodoletta tace quando ripiega il volo al suo nido in mezzo ai campi; quindi la sua ultima dolcezza sarebbe quella ch'essa prova avvicinandosi e, quindi, posandosi al nido. Quanto alla seconda terzina, le parole Dell'eterno piacere son determinazione della imprenta o no? I commentatori dicon di si; ma perchè è da notare che in Giove l'imprenta è l'insegna, l'emblema imperiale, l'aquila, onde ai versi 112-114 del XVIII di Paradiso le anime con poco moto si allungarono per compire la imagine dell'aquila, questi commentatori danno sospetto di non saper essi stessi come mai e perchè l'imprenta imperiale sia l'imprenta dell'eterno piacere, e certo ci annaspano d' intorno molte parole senza grande costrutto. L'impiccio nasce forse dal cattivo ordinamento delle frasi che dovrebber disporsi così: Quale allodetta che prima cantando si spazia in aere, poi tace contenta .... tale, o così contenta dell' eterno piacere, che è Dio, in quanto è oggetto di beatitudine conseguita alle anime [Parad., XVIII, 13-18], mi sembrò la imagine dell'imprenta. Inteso in questo modo il passo controverso, ne resulta un parallelo perfetto. E di vero: l'allodola canta come avea cantato la celeste aquila: dopo il canto, l'allodola tace inebriata dell'ultima dolcezza, e l'aquila tace nella contemplazione di Dio in cui si riposa come fera in lustra. Ma che significa l'ultima frase: al cui disio Ciascuna cosa, quale ell'è, diventa? Tutte le cose, spiegano i commentatori, sono create quali Dio le vuole. Ma già il Tommasèo osservò acutamente: disio di Dio non so se proprio. Non, infatti, al disìo, ma al volere propriamente di Dio le cose vengono all'esistenza. Probabilmente, dunque, si deve intendere: Al desio dell'eterno valore, cioè nutrendo desiderio di Dio, ultimo fine di tutte le cose, esse divengono, ossia vanno perfezionandosi, accostandosi man mano al tipo ideale della loro natura: la creatura ragionevole colla scelta razionale e libera dei mezzi, tutte le altre con istinto a lor dato che le porti [Parad., I, 110]. (263

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Gottlob Adolf.

Die päpstlichen Kreuzzugs-Steuern des 13. Jahrhunderts. Ihre rechtliche Grundlage, politische Geschichte und technische Verwaltung. Heiligenstadt [Eichsfeld], Fr. W. Cordier, 1892, in 8o, di pagg. XVI-278.

Di questo importante studio intorno alle imposte per le crociate nel secolo XIII, è una diligente recensione di G. Papaleoni in Arch. stor. ital., serie V, tom. XII, disp. 4" del 1893. (264

Graf Arturo.

Miti, leggende e superstizioni del medio evo. Torino, E. Loescher [stab.

tip. V. Bona], 1892-"93, voll. due in 8°, di pagg. XXIV-312, 398.

Sommario: I. Il mito del paradiso terrestre. La prima origine di tale credenza è da cercarsi in una proprietà della natura umana. Elementi vari, storici, ideali e sociali, concorsero poi a dar forma al mito primitivo nato per virtù di fantasia. Dopo aver ritrovato le più antiche tradizioni del mito nelle tradizioni indo-europee, l'autore ne tratta ogni parte punto per punto: la situazione del paradiso nelle varie regioni del globo, le maraviglie di che lo arricchì la fantasia de' vari popoli, i primi abitatori di esso, Adamo ed Eva, ecc. II. Il riposo dei dannati. Vi si parla del riposo che, secondo la Visio Pauli, è concesso a' dannati dalla nona ora del sabato alla prima del lunedì. A Dante non dovette essere ignota la pie. tosa leggenda: e l'autore si duole che egli non abbia introdotta nel poema la finzione dell'interrotto castigo. Con far tacere subitamente le grida disperate dei dannati, con farle poi ricominciare, giunto il termine del riposo, più spaventose di prima, egli avrebbe, infatti, trovata la via a bellezze poetiche di prim'ordine, degne del poema immortale. San Tommaso forse fu quegli che non gliel permise. III. La credenza nella fatalitá. IV. La leggenda di un pontefice. V. Demonologia di Dante (1). VI. Un monte di Pilato in Italia. VII. Fu șuperstizioso il Boccaccio? VIII. San Giuliano nel « Decamerone» e altrove. IX. Il rifiuto di Celestino V. Vi si espone la favola colla quale volle darsi ragione del gran rifiuto di quel pontefice. Dante, sebbene parli in generale degli inganni usati da Bonifazio per salire su la sedia di Pietro, o non conobbe quella leggenda della quale pure parlano alcuni antichi comentatori o sdegnò di raccoglierla. Nata e fiorita, forse, tra i frati seguaci di Piero da Morrone, si ritrova trasportata in Islanda e conservata in un codice del quattrocento. X. La leggenda di un filosofo. Michele Scotto. XI. Artù nell' Etna. XII. Un mito geografico. Il monte della calamita. (265 Il sentimento religioso nel medio evo. [In Fanfulla della domeni

Graziani Augusto.

ca. An. XVI, no. 9]. Rende conto di una conferenza tenuta dal prof. Carlo Calisse al Circolo giuridico di Siena. Egli vi accennò a Dante quasi anello di transizione fra il medio evo e il risorgi mento, poichè mentre riconosce la teologia quale prima delle scienze e in Beatrice rimette la spiegazione di ogni dubbio che gli si affaccia alla mente, subordinando l'umana ragione alla fede, pur tuttavia è desideroso di gloria, è grato al suo maestro che gli ha insegnato come l'uom s'eterna, ama la patria, e grande la vagheggia fino a Pola nel Quarnero, fino dove il Rodano stagna, e mai non teme d'infligger a papi ed a cardinali severe censure. Felicemente concluse, paragonando a Dante Vergilio, che sull' ingresso della nuova età trasmette, poetizzata, l'eredità del passato, al Petrarca, ad Orazio, tra il vecchio e il nuovo ondeggiante, al Boccaccio, a Ovidio, che dà ai romani quello che ai contemporanei suoi Giovanni Boccaccio. (266

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Grisar Hartmann. Le tombe apostoliche di Roma: studî di archeologia e di storia. Roma, tip. Vaticana, 1892, in 4', di pagg. 56, con due tavv. in fototipia e quattro zincotipie

nel testo.

Nonostante le innumerevoli vicende alle quali Roma soggiacque nel corso di quindici secoli, le tombe de' due grandi apostoli della fede cristiana, Pietro e Paolo, rimasero inviolate nel luogo ove Costantino magno le fece costruire. - Recens. dettagliata e favorevole nella Civiltà Cattolica, Anno XLIV, serie XV, vol. VII, quad. 1038.

(1) Di questo studio diremo nel prossimo bollettino.

(267

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