1304: ma le cronache ci narrano altre sconfitte non meno sanguinose e vergognose che risalgono molto tempo addietro. Probabilmente Dante, non molto dopo il congresso di San Lorenzo di Mugello [8 di giugno 1302] disgustatosi del modo con cui procedeva la guerra, si allontanò da suoi compagni, forse indottovi dall'esito del primo scontro in Mugello, quando la parte nera passò l'Alpe; ville e castella arsono; e furono nel Santerno nell' Orto degli Ubaldini e arsonlo; e niuno con arme si levò alla difesa. [Cronaca, II, 35]. Ammessa tale ipotesi, saranno spiegabili due altri fatti, cioè dell'essersi Dante ricoverato presso Bartolommeo Scaligero e dell'aver egli potuto percorrere molte parti d'Italia prima della fine del 1304. Nella corte di Verona potè l'Alighieri occuparsi di questioni estranee alla guerra che i suoi compagni di sventura facevano a Firenze, confessando anzi che in quella voleva, con buona pace dei fiorentini, riposare l'animo stanco, e terminare il tempo che gli era dato. Ma mancatogli il protettore, e succedutogli nella signoria Alboino, ignaro dell'arte non insegnata che dalla natura, e a pochissimi, di beneficare gli uomini alteri e non obbligarli ad essere ingrati, e, di più, rinata in Dante la speranza di rientrare in patria per l'intervento del cardinale da Prato, abbandona lo Scaligero e si riaccosta ai fuorusciti. Nel Convito [I, 3] com. posto indubbiamente in esitio prima del 1305 in Verona, presso lo Scaligero, si ha una riprova dei sentimenti del poeta. VI. Lo stato politico e morale d'Italia in principio del secolo XIV, secondo la mente di Dante Alighieri. Il procedere calmo che risulta nella Vita Nuova, nella Monarchia, nei primi tre libri del Convito, confrontato colle invettive che qua e là interrompono l'autore nel quarto di quel trattato, nel primo della Eloquenza volgare, nelle Lettere politiche, nella Commedia, rispecchia tutta l'anima di quell'uomo che dalla solitudine della sua cameretta di studio sente il frastuono del mondan rumore che si agita di dì in dì, rendendolo sempre più eccitato. Il cardinale Orsini, dopo aver tentato in tutti i modi di indurre i neri di Firenze alla pace co' fuorusciti, nel 1307 tornava ad Avignone, dove la sedia di Pietro erasi trasferita. Intanto le divisioni e le guerre civili si estendevano anche in Lombardia, in Liguria, in Romagna e Dante, forse disperato e cruccioso di tutto ciò, si recava allo studio di Parigi, dove rimase, probabilmente, finchè non ebbe speranza di eventi megliori. Forse di là egli irruppe nella sublime apostrofe all'Italia, di dolore ostello: che dalle parole ivi rivolte ad Alberto tedesco, come ad un vivo, si potrebbe congetturare scritta prima del 1308. In questa apostrofe, spirante tutta l'amarezza che può provare un sincero amatore della pace, campeggia l'idea dell'impero: ma anche qui ciò che più sta a cuore al poeta, non è l' impero per sè, ma il fine di esso. [Cfr. Monarchia, III, 15]. Riflettendo che il sarcasmo dantesco tocca il colmo quando parla di Firenze, parrebbe, a prima giunta, ragionevole la sentenza del Balbo che contro di essa egli sia portato dalla bile ghibellina. Ma Dante, come tutti gli uomini, sente meno intensamente il bene che il male presente, e va in cerca di un bene ideale che ritrova nel passato, abbellito dalla fantasia de' poeti, e nel futuro, sempre acconcio a foggiarsi ad imagini liete. E che è la Commedia, se non un contrasto del passato col presente, da cui deve nascere una vita nuova ripiena di speranze, un mondo idealmente perfetto? Inoltre si deve osservare che nei rimproveri che l'Alighieri muove alla città sua, non è la grandezza materiale di Firenze, ma il suo decadimento morale che egli deplora: e quello che disse Dante [Parad., XV, 97-133], dissero tutti coloro che non erano uomini volgari a quel tempo, e lo scrisse nella sua Cronica [HI, 46] Dino Compagni, un dei pochissimi che, superiori ad ogni privato benessere, si adoperassero pel bene della città, e colui forse che più si assomiglia a Dante per ischiettezza d'animo e per nobiltà di sentimenti. Nè Dante si ferma a rimproverare a Firenze il suo decadimento morale: ma a tutta Italia, e più alle città vicine che forse meglio conosceva, egli muove le sue aspre censure [Inf., XXI, 41; XXXIII, 79-80, 151-152; Purg, XIV, 19 e segg, 41 e segg.; XVI, 115-127; Parad., IX, 25 e segg.] per le sanguinose guerre civili delle quali furon teatro. E se fosse vero, come vor rebbe il Foscolo, che Dante giudicava degli altrui falli da uomo di parte, da poeta che visse, quella di Dante potrebbe ancora sembrare, piuttosto, la megliore delle utopie, il più Legnani Enrico. Il papa secondo la teologia e la storia: catechismo. Trento, tip. edit. Artigianelli d. f. d. M., 1893, in 16o, di pagg. 384. Vi si parla, fra altro, del dominio temporale, del potere dei papi nel medio evo, delle ww sc omuniche e delle guerre indi sorte, delle accuse fatte contro i pontefici, della inquisizione, Lesson Michele. Gli animali nella divina Commedia. [Recens. in Nuova Antologia. An. XXIX, terza serie, vol. L, fasc. 5°]. Prendendo le mosse dai notevoli studi del conte Cipolla e di G. B. Zoppi, Michele Lessona ha scritto sull' Inferno una prima serie di note [Torino, Un. tip. editr., 1894] dalle quali non si ricaverà forse molto utile per la interpretazione del poema, ma i lettori avranno molto diletto. Seguendo, a mano a mano, le menzioni degli animali che si trovano nei canti dell' Inferno, il senatore Lessona dichiara, ciò che non è sempre agevole, di che bestia intende Dante parlarci, quale sua costumanza rammentarci: e così viene a meglio lumeggiare l'arte del poeta, e talvolta a mostrare come fossero superiori le cognizioni dell' Alighieri a quelle del tempo suo. Nel qual proposito anzi l'autore giunge fino a porre innanzi l'ipotesi che Dante avesse un tal quale presentimento della dottrina che oggi diciamo dell'evoluzione. Certo è che da questi riscontri d'uno zoologo moderno appare sempre più mirabile il dono che Dante ebbe duplice, di osservare la vita con occhio rapido e sicuro, e di rappresentarne i fenomeni con parola efficace. Cfr. no. 89. (272 Levi Eugenia. - Dante... di giorno in giorno. [Recensione nella Nuova Antologia. An. XXIX, terza serie, vol. XLIX, fasc. 3]. Il libro della Levi merita di essere lodato per l'ordinata scelta delle citazioni dantesche fatta con ottimo criterio, ma ancora per l'ingegnosa novità di mettere a riscontro di ognuna di quelle la meglior traduzione francese, tedesca e inglese: lavoro questo che richiede acume e gusto artistico non meno che singolare pazienza. Le indicazioni bibliografiche che la compilatrice pone in calce al volume mostrano com'essa abbia fatto un diligente studio della materia che aveva tra mano. Infatti ha procurato sempre di scegliere, fra tutte, la traduzione che meglio rendesse il luogo citato. e laddove non ne ha trovata alcuna che la sodisfacesse, l'ha rifatta di suo. Per taluni dei passi tratti dalle opere latine, il volgarizzamento è stato fatto a bella posta da Isidoro Del Lungo. Nelle citazioni poi è conservato l'ordine cronologico, certo o presunto, degli scritti di Dante e le ricerche sono agevolate da in dici ben fatti. (273 Lippert von Granberg Josefine. Duino [Dante-Fels]. [In Ausonia. Lyrische Blüthen, von J. Lippert von Granberg. Wien, Gerold und Comp., 1892, in 8o, di pagg. [2], 352). Canta lo scoglio di Duino nelle Alpi Giulie, detto lo scoglio di Dante. (274 Le XIII siècle artistique. Lille, Soc. st. Augustin, 1893, in 8o, (275 Lombroso C. La nevrosi in Dante e Michelangelo. [In Gazzetta letteraria. An. XVII, no. 47]. Scrive Durand Fardel [Cfr. Giornale dantesco, I, 6, pag. 280] che Dante « è probabilmente morto di esaurimento o di malattia nervosa; e certo in vita dovette soffrire accessi epilettici seguiti da incoscienza, come provano le frequenti descrizioni di cadute con assenze psichiche e con incoscienza che si trovano nel poema ». Questa nota del Fardel incoraggiò l'autore a Giornale dantesco 8 ricercare entro al libro sacro ad ogni italiano, la divina Commedia: e con buon frutto; perchè vi trovò, infatti, frequenti accessi epilettici [?] che per altro degradano e si fan più rari e meno intensi man mano che si passa dall'Inferno al Purgatorio e al Paradiso. Le prove si trovano ai seguenti luoghi del poema: Inferno: III, 130-136; V, 139-142; VI, 1-3; Purgatorio: IV, 1; XV, 85-86; 120-123; XVII, 13-15; XIX, 7; XXVII, 91-93; XXXI, 88-91 ; XXXII, 1; 3; 64-65; 68; Paradiso: XXI, 140-142; XXIII, 43-45, 49-51. Nel Purgatorio questi accessi assumono più le forme di sogni, di sonnambulismo, e nel Paradiso di estasi. Differenziare se siano di natura isterica o epilettica è impossibile, ma fa inclinare per l'epilessia la superbia, l'erotismo di cui il poeta stesso si accusa nella Commedia, e l'irascibilità fiera di cui la leggenda ha raccolte tante prove; e di cui esistono tanti documenti nel suo poema, anche nel Paradiso, in cui pure, per la sua maturità e per l'argomento [sic] la sua musa s'era fatta misurata. (276 Lupattelli Angelo. La chiesa di san Francesco e gli affreschi del secolo XIV nella cappella Paradisi: il dipinto ad olio del Piazza nella parete della sagrestìa di san Martino in Terni: discorso. Terni, tipo-lit. M. Ceccarelli, 1892, in 8o, di pagg. 20. Parla della necessità di ristaurare e conservare i freschi della cappella Paradisi in san Francesco di Terni e il grandioso dipinto ad olio rappresentante il giudizio finale rimasto nella parete della sagrestia della diruta chiesuola di san Martino. Questo dipinto, condotto nel 1616, ha l'impronta di una grande scuola che volge al tramonto: ma i freschi della cap. pella Paradisi ci riportano agli albori dell' arte pittorica, alla metà del trecento. Nel 1333 il ternano Paolo di Pietro di Giovanni Paradisi fu podestà di Firenze e vuolsi che desse la cattedra al Boccaccio per la lettura della Commedia; a questo fatto, potrebbe riferirsi l'ipotesi che l'ispirazione dei dipinti eseguiti nella cappella di san Francesco fosse suggerita all'incognito maestro da qualche discendente, o dal figlio stesso di Giovanni, il dottissimo Angelo, doctor legum, ricordato in un istromento rogato nel 1354 da Pietro Giovanni Leonardo, notaro della Camera, in occasione della decapitazione del frate di Monreale d' Albano, ordinata da Cola di Rienzi. Lasciando di parlare dei dipinti nel fascione interno dell'arco che dà ingresso alla cappella, il Lupattelli comincia la sua rapida rivista dalla parete interna a sinistra. Di questa, l'intiera superficie offre in alto, dentro una cornice circolare, l'emblema della santissima Trinità, pittura monocroma, espressa con tre facce giovanili. Nello spazio centrale, ai lati della finestra, si scorgono due quadri; nel primo, verso l'ingresso, è riprodotta la liberazione delle anime purganti: alcuni angeli tendono le braccia per alzare gli spi riti fatti degni del paradiso, mentre altri li sollevano dalle fiamme ed altri, più in alto, li aiutano ad ascendere alla beatitudine eterna. Nel secondo quadro, verso la parete centrale, è raffigurata la discesa di Cristo al limbo. Il Redentore, in atto di muovere da sinistra a destra sopra una nube, ha dappresso, in alto, due angeli: uno dei quali, genuflesso, invita i patriarchi a seguire le orme del Salvatore. Ai lati e sotto sei figure rappresentanti il primo parente, Abel suo figlio e Noè, Moisè legista, Abram patriarca e David re [Inf., IV, 54-57]. Nel quadro dello spazio inferiore il pittore ha compendiato in sei distinte cave i castighi del purgatorio, riassumendovi, a così dire, alcuni canti della seconda cantica. Della prima cava restano solo tre frammenti di figure immerse nell' acqua, una delle quali è invitata da un angelo a salire. Al disopra è la seconda cava, ove leggesi: Accidia, e che comprende dieci sofferenti coperti, fino a mezzo, dall' acqua; le lor movenze sono in atto di preghiera e in alto, a destra, è un angelo che li consola. Nel centro della parete ci si offre la maggior cava; ivi è scritto: Vanagloria; e quivi otto figure incamminansi verso il loro angelo a destra tor mentate da fiamme che scaturiscono dal terreno. Sono tutte meste e preganti. Presso questa è la cava dell' Avaritia: ove sette martoriati in movenze meno fiduciose, e de' quali v'ha chi |