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sima intelligenza, di fervida e ricca immaginativa, alla vasta dottrina, alla potenza e leggiadria del dire in rima, che tanta maggior virtù ha di commuovere quanto più esce spontanea toccando, non di rado, il sublime, egli accoppiava l'animo disposto alla più copio sa liberalità; e sotto l'usbergo di una coscienza (Inf., XXVIII, 117) che si sentiva pura, ben poteva, senza timore di rimprovero, come senza iattanza, affacciarsi alla gente per tentare di rimuoverla, mediante pratico insegnamento, quale doveva riuscire la sua Commedia, dallo stato di miseria e condurla allo stato di felicità (Epist. a Can Grande, §. 15).

Egli s'era fatta parte per sè stesso della scienza, che è l'ultim a perfezione dell' anima; ma perchè coloro che sanno devono porgere della loro buona ricchezza alli veri poveri (Conv., tratt. primo, cap. primo) sperava rifrigerarne la natural sete coll'acqua vivificante del suo fonte. Gli orrori del suo inferno faranno riflettere il malvagio sul proprio avvenire, e lo ritrarranno dalla via dell'iniquità; conforterà il debole colla speranza della suprema misericordia; accerterà il buono del premio che la Grazia gli ha riserbato ne' cieli. E se il soggetto dell' allegorica selva, come l'ho designato ora, mi è sembrato potersi ritenere probabile e naturale, dovranno ritenersi così attendibili le considerazioni ora svolte, perchè consone agli intendimenti e fedeli alla lettera dell' autore. Ecco perchè a trentacinque anni, nel colmo della gioventù, Dante, mosso dal desiderio di indurre gli uomini a scienza ed a virtù, imprende l'ideato pellegrinaggio, di cui, narrando poi gli accidenti e le cose vedute e udite e dette, mostrerà loro, con spiccati esempli, le conseguenze tristi o liete del presente vivere.

In quell'ambiente impuro adunque, dominando le faccende civili, la cura del benessere materiale, i dilitti della carne e via dicendo, la diritta via, la via verace che mena l'anima al suo fine ultimo, era smarrita. Onde il poeta esclama:

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

questa selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura! tanta e amara, che poco è più morte:

scoprendo così in sull' esordire della narrazione alcuni segni caratteristici del luogo di cui dovrò trattare in seguito.

Fra le differenti lezioni dei quattro versi citati, ho preferito quella che porge Ugo Foscolo, avvegnacchè mi sia sembrata la più linda e giusta, e meglio, dell' altre, comportabile una diversa costruzione che più ne chiarisca il senso; mentre per essa, parafrasando, si può agevolmente leggere: Ahi quanto è penoso a dire qual era questa selva selvaggia e aspra e forte, perchè il parlare della sua condizione rinnova nel pensiero tanta e amara la paura avuta quando mi vi trovai, che poco più è morte; cioè, che il parlarne, rinnovando nel pensiero quella tal paura, è cagione di poco meno che di morte.

Ora, se il dire solo di quel luogo, rinnova nel pensiero cotanto grave effetto quale Dante lo esprime, quanto maggiormente gli sarà stato penoso allora che vi era intrigato? E se il rammemorare qual era la selva produca in lui quasi la morte, molto più funesta ancora esser dovette la condizione sua quando si trovava in mezzo ad essa, e per conseguenza, da chiamarsi veramente

morto.

Tale conclusione, che deriva piana dalla breve analisi di quei versi, non rechi maraviglia se a prima fronte, rivestendo il carattere del paradosso, ricorrerà alla mente quale cosa strana e inverosimile, anche sotto la forma allegorica nella quale appunto io la considero. Si persuada il lettore, e fu già detto altrove, che non è facile di sollevare pure in parte il velame delli versi strani, talvolta fitto assai. La mente vi si applica le più volte invano, e l'immaginazione ha corte l'ali per seguire l'aquila nei suoi àlti voli; ma se non ci è dato di saziare la nostra brama alla mensa dell' intiero concetto dantesco, rassegniamoci a far tesoro delle briciole che cadono qua e là, finchè giunga il tempo e ritrovi chi, vagliando quelle tutte raccolte dai più, sappia comporre il pane orzato, del quale si satolleranno le migliaia.

Si è toccato dell' ufficio morale che Dante intendeva di assumere pel mezzo della sua Commedia verso coloro che hanno smarrita la diritta via, e con quali propositi vi fosse preparato.

Cotesto intendimento, che è la pietra angolare dell' edifizio dantesco, non deve mai essere perduto di vista, poichè se quello non si cura, riesce impossibile una ragionevole interpretazione. È il filo di Arianna che il poeta ci porge, onde con esso esciamo dal labirinto delle incertezze, contraddizioni, oscurità ed errori, che tuttora regnano intorno alla selva ed alle altre forme allegoriche. Ma a tale veduta generale, intrecciandosi la particolarità sua, vale a dire sè stesso e la propria azione, conviene ora sciogliere questa da quella per concordarla distintamente all' ordine della illustrazione, e, che più monta, alla economia del poema, che è mia special e cura di non alterare mai.

Si è adunque la conclusione dedotta dalla parafrasi costruita sopra i quattro citati versi che ora deve occuparci; cioè, di vedere se Dante ha veramente inteso di figurarsi morto nella selva, e quello che abbia voluto significare con questa morte. La cosa invero merita di essere esaminata con qualche diligenza, siccome punto essenziale dell' allegoria che riguarda il poeta, e condizione determinante la sua uscita da quel luogo di cui ho accennato appena, e che delineerò in appresso con maggior precisione.

Se riandi, lettore, col pensiero ai due amori, che l'adolescente Alighieri descrive nella Vita nuova, vivente Beatrice, ed agli ultimi paragrafi di quel libello, ove, dopo che fu morto, narra le lotte del suo cuore contro alla costanza della ragione per la vista di un'altra donna. Se lo trasporti alla scena dell' Eden per udirvi gli amari rimproveri che la Beatrice, salita a spirito, rivolge a Dante giovane, perchè non fu costante a seguirla nella sua seconda età, dandosi invece altrui, e volgendo i passi suoi per via non vera; se quindi ricorri al Convito, dove si distingue quando l'uomo debba dirsi valente oppur vile o vilissimo, cioè morto; vi troverai come secondo Aristotile, vivere non sia sempre la medesima cosa per le varie categorie di organismi. « E perciocchè vivere è per molti modi, siccome nelle piante vegetare, negli animali vegetare e >> sentire e muovere, negli uomini, vegetare, sentire, muovere e ragionare ovvero intendere, e le cose si devono denominare » dalla più nobile parte, manifesto è, che vivere negli animali è

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>> sentire, animali dico bruti, vivere nell'uomo è ragione usare. » Dunque egli soggiunge, se vivere è l'essere dell' uomo e così da » quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E » non si parte dall' uso della ragione, chi non ragiona il fine della >> sua vita? E non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona >> il cammino che far dee? Certo si parte. E ciò si manifesta mas>> simamente in còlui che ha le vestigie innanzi, e non le mira ». » E considera in ultimo, o lettore, che Dante si mette proprio nello stesso caso, poichè, avendo le vestigie di colei, che alcun tempo il sostenne col suo volto e lo condusse in diretta parte, pur non fu costante in mirarle, e quando si facevano più profonde per maggior bellezza e virtù della sua donna le abbandonò,

Immagini di ben seguendo false,

che nulla promission rendono intera.

Così che ordinando insieme queste cose, agevolmente potrai farti l'idea, che il poeta abbia voluto figurarsi partito dall'uso della ragione, cioè morto nella selva ove la diritta via era smarrita, e dalla quale esce per rivivere, tornando in sull' orma del vero cammino che la Beatrice aveagli innanzi segnata. Egli si scuote come Abramo alla voce della Sapienza; abbandona ciò che lo avvilisce, rompe gli esteriori legami delle terrene cose, e vuole arrivare alla sovranità di sè medesimo, innalzandosi con uno sforzo di separazione al di sopra e al di là del suo posto di quaggiù. Egli esce. adunque dalla selva, ma per usare liberalmente in suo prò della pienezza della propria vita. Ne esce, ma non l'abbandona, che anzi vuol giovarla coll' esempio di savia risoluzione, perchè la sua parola abbia poi virtù di sollecitare i viventi, e dar la vita ai morti.

Se mi sono bene apposto intorno al valore significativo di quei versi, potrà farsene miglior giudizio in seguito; mentre per ora mi pare abbastanza fissata l'idea di quella morte fondata sulla lettera dell'autore; che ad assegnarne lo spirito, converrebbe ricorrere ad altri luoghi, ed in ispecie alle minori sue rime, nelle quali è spesso adoperato il vocabolo morte, per ismarrimento, ces

sazione, non uso, e talvolta trasumanazione della intellettiva, sia propria dell' uomo, come di un qualsiasi ente di ragione perso

nificato.

Dante, lo ripeto, vuol ammaestrare il popolo per trarlo dallo stato di miseria e condurlo allo stato di felicità. La sua uscita dalla selva oscura è come un ripudio della comunanza con essa. Egli si è fatto parte per sè stesso. Ma perchè ciascun uomo a ciascun uomo è naturalmente amico, e ciascun uomo (scrive nel Convito), si duole del difetto di colui che egli ama; egli, che è fuggito dalla pastura del volgo, vuol farsi intermedio fra coloro che seggono alla beata mensa ove il pane degli angeli si mangia, e quelli che dietro s' ha lasciati in misera vita, verso i quali misericordevolmente mosso, non sè dimenticando, alcun utile ha riservato della dolcezza che sente in ciò che a poco a poco ha ricolto.

Or questo ricogliere della mensa angelica, e il premuroso sentimento pei miseri che colle pecore hanno comune il cibo (di che ragiona nel tratt. primo al cap. 1 del Convito), non è anche espresso analogamente nella risposta alla inchiesta del Barone per cui si visita Galizia, sulla virtù che qui bene innamora?....

Il poeta la definisce, e dichiarando come le venisse da molti speranti, fra' quali primo Davide la distillò nel suo cuore, aggiunge:

Tu mi stillasti con lo stillar suo

nella pistola poi, sì ch'io son pieno
ed in altrui vostra pioggia ripluo.

Ecco il pensiero che appare costante nell' Alighieri: ricevere dall'alto per dare o distribuire in basso; apprendere per usare pronta liberalità verso di quelli che in bestiale pastura erba e ghiande vanno mangiando. E se nel Convito gli torna bene di speculare, con sottile ammaestramento, a intendere l' altrui scritture, procede invece nel poema per operazione morale, conciossiacchè dice, nella Epistola a Cane Grande, che non alla speculazione, ma alla pratica quell'opera sia stata intrapresa.

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