Slike stranica
PDF
ePub

sulta dalla libera emissione delle note più discordi.... Lucrezio e santa Teresa, Aristofane e Socrate, Voltaire e Francesco d'Assisi hanno ugualmente ragione di essere; e l'Umanità sarebbe da meno che non è, se un solo degli elementi che la compongono, le mancasse ». Apostoli, introduzione, in fine).

(Gli

Ma, se la contraddizione è segno manifesto d'una mente non sana, anche il povero Chiara v'è caduto, dappoichè, dopo aver tentato di rovesciare la statua di Dante, così la ri solleva e se ne gloria: «Per conto mio confesso che, quali che siano i responsi della scienza sul poeta, l'opera di lui avrà sempre un' efficacia salutare sul mio spirito e sul mio cuore. Per me, la divina Commedia

[blocks in formation]

Sole della nostra letteratura, essa non si spegnerà finchè la nazione italiana non sia spenta ». Ah! sì, lasciamoci pure illuminare da questo benefico Sole « Che mena dritto altrui per ogni calle» (Inf., I, 18), e non falliremo a glorioso porto (Inf., XV, 56).

Oneglia, aprile 1894.

G. DE LEONARDIS.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Bullettino della Società dantesca italiana: rassegna critica degli studi danteschi. Firenze, tip. di S. Landi, 1894, in 8°, vol. I, fasc. 5 e 6 [febr. e marzo].

Molto interessante è riescito il Bullettino di febraio, pel contributo che reca alla più chiara intelligenza di diversi luoghi della divina Commedia. Diciamo qualche cosa dei principali.

Nelle due terzine del Paradiso [XX, 73] Quale allodetta, ecc., ci si propongono dal prof. Fornaciari tre nuovi significati: Quale lodoletta che, stando in aria, distendesi nel canto..... tale mi sembrò l'aquila, simbolo della impronta di Dio, cioè della giustizia, per il desiderio della quale giustizia, ciascuna cosa diventa simile ad essa, cioè giusta. E sebbene a me il passo non si presenti di quelli che necessitino un allontanamento dalla interpretazione comune, e mi sembri una vera bellezza perduta quella dell'allodola che battendo le ali sospesa

in aria getta l'ultimo trillo, nè trovi rettamente applicabile a cose il concetto della giustizia quale può da l'aquila essere rappresentato, cioè umana, e non mi paia poi legittima la ripugnanza di attribuire alla divinità il disìo [dimenticando che in Dante desiderio e volontà sono spesso sinonimi, e come, anche conservandogli il senso naturale, non sia privo di efficacia quel far essere le cose come elle sono, e così qui, quell'atteggiarsi i beati in figura di aquila, semplicemente per una divina aspirazione], tutto sommato però, tanto lo apprezzamento della Nuova costruzione del Ghignoni, che dette origine alla recensione, quanto le ragioni della interpretazione contrappostavi, hanno garbo e sapore, da recare al palato dei dantisti un vero godimento.

Di qui noi passiamo col Fiammazzo a gustare altra imbandigione, fornitaci dai valenti Bertana e Posocco, sulla migliore intelligenza del combattuto verso d'Inferno, (I, 63): Chi per lungo silenzio parea fioco. Il Fiammazzo lascia il luogo fra i dubbi; a me piace accostarmi al Bertana, memore che fin dall' "82 [ero allora al mio primo periodo giornalistico, quello della cestinatura], in una lettera alla Opinione letteraria io mi accostavo moltissimo alla sua versione, esponendo la seguente: mi si presentò uno che pareva esile, come persona appartenente ai regni del lungo silenzio [che ricorderebbe la invocazione virgiliana del VI, 264 dell' En.: Dii quibus imperium est animarum, umbreque silentes, Et Chaos, et Phlege ton, loca nocte tacentia late]. Non nego che stiracchiata lo sia pur essa, ma sempre meno di tante altre; e per risolutamente escluderla, dovrebbesi sostenere che in Dante, specie come qui, ove la lettera dee servire anche all'allegoria, non vi sia proprio mai nulla di stiracchiato. Il Bertana dà veramente al silenzio il significato di oscurità; nè credo che il Fiammazzo ben vi opponga che Virgilio abitava in luogo rischiarato: giacchè trattasi sempre di una luce fioca in confronto a quella del cielo, tanto è vero ch'essa non impedì a Virgilio al VII, 28 di Purgatorio, di qualificarsi per abitatore di un Luogo.... laggiù non tristo da martìri Ma di tenebre solo. In ogni modo, sia tenebra, sia squallore, si avrebbe qui un cenno generico ai luoghi bui, al regno de la morta gente, dai quali, col suo aspetto, palesavasi uscire l'ombra che così inopinatamente porgevasi a Dante.

Altro luogo di minore importanza, ma abbastanza tormentato esso pure, è quello di Paradiso. XII, 115: La sua famiglia (di san Francesco) che si mosse dritta Co' piedi a le sue orme è tanto volta Che quel dinanzi a quel di retro gitta. Il prof. Filomusi-Guelfi propose intendere: che rivolge il davanti al luogo ove prima era rivolto il di retro. Ma anche a me, come al Flamini, quel gitta per rivolge non finisce di persuadere. E meno ancora mi persuade che quel di retro possa mentalmente supplirsi con tutto quell'inciso così lungo; oltrechè si perderebbe la corrispondenza, tra quel dinanzi, che è il davanti della persona, e quel di retro, che non sarebbe più, come parrebbe dover essere, il di dietro della persona, bensì il luogo a cui il di dietro della persona è rivolto. L'Andreoli traduceva invece: ch'ella pone il piè dinanzi dove san Francesco [più letteralmente forse, essa famiglia dapprima] poneva quello di dietro. Ma si può egli dire degli uomini, che abbiano un piè dinanzi e uno di dietro, come diciamo dei cavalli, che hanno i piè di dietro e quelli davanti? Vi si accosta tuttavia, ma non par troppo chiaro neanche lui, il Moschetti, intendendo, che camminano a ritroso, avvicinando il piede che all'atto del camminare sta dinanzi, a quello che sta di dietro, e cacciandolo anzi più in là. Egli poi giustifica il gittare un piede nel senso di moverlo con forza, perchè così appunto bisogna per andare a ritroso. A me veramente pare l'opposto, che, cioè, andando ritroso il piede si mova guardingo. Tutto considerato, io non sentirei il bisogno di scostarmi dal vecchio Landino e dal Lombardi, e continuerei quindi a spiegare, che la famiglia di san Francesco mette, ne l'orma di questo, la punta del piede dove prima metteva

il calcagno, segue, cioè, quelle cose temporali che prima sfuggiva. O se volesse cambiarsi, si potrebbe, accettando in parte le idee del Filomusi, proporre quest'altra: porta il dinanzi della persona dove prima portava il di dietro. L'unica difficoltà è dell' intendere a nel senso di al luogo di; ma credo che frugando nei trecentisti non ne mancherebbero esempi. E non tratterebbesi infine che di una maggiore accentuazione dello stesso modo: Che si mosse dritta Co' piedi a le sue orme, col quale sarebbe quindi bene serbargli corrispondenza.

In conclusione, siamo tutti d'accordo nel concetto che, in fondo, il poeta voleva esprimere, che, cioè, i francescani d'oggi camminano al rovescio dei francescani di ieri: ma alcuni intendono del camminare per innanzi, altri del camminare per indietro, come gl'indovini. Se per quest'ultimi però il camminare per indietro ha una ragione, pei francescani non ne vedrei affatto. Ma ammesso che sia, è certo che la versione del Moschetti sarebbe assai più ragionevole di quella del Biagioli; che è: pone la parte anteriore del piede al luogo ove san Domenico [recte, i primi francescani] pose la parte posteriore: giacchè si può benissimo camminare a ritroso, e porre precisamente il piede a combaciare nell'orma di chi ci precedette in senso opposto; come, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe, per esempio, fatto Caco con le vacche di Ercole da esso rubate.

Accettando però la versione del Filomusi, non ci sentiamo di seguirlo nella sua spiegazione letterale; tanto ci pare naturale quella del Landino, per la quale chi fa un cammino in senso contrario di un altro, se deve porre il piede nelle vestigie di questo, è obbligato per lo appunto a far corrispondere la impressione delle proprie dita, al luogo dove il primo camminatore impresse invece il suo calcagno. E chi sa che gitta non potesse anche farsi equi valere a corrisponde?

Una cosa nella quale non mi pare che tanto il Filomusi quanto il Moschetti si appongano è nel ritenere che nei versi che precedono: La sua famiglia, che si mosse dritta Co' piedi a le sue orme è tanto volta, ecc. co' piedi sia un di più. Ma Dante non dice: si mosse co' piedi, a le sue orme, bensì, si mosse, mettendo i piedi nelle sue orme; che è un precisare, un rinforzare il concetto del camminare su l'orme di alcuno, Dietro a le poste delle care piante, come disse anche al XXIII, 148 d' Inferno.

Quante non se ne dissero anche del noto verso d'Inferno, X, 82: E se tu mai nel dolce mondo regge? Eppure anche qui convengo col Fiammazzo sia tuttora da stare coi vecchi, spiegando il regge per rieda. La nuova chiosa del Posocco: E se tu per avventura lassù sei uno dei rettori della pubblica cosa; non avrà il difetto di quella del Vellutello [con la quale a torto credo il Fiammazzo la accomuni, mentre questa fa regge congiuntivo col se deprecativo, la nuova invece regge, indicativo col se condizionale], difetto evidente, di far augurare da un ghibellino autentico, come Farinata, che salga al potere un guelfo bianco e, per di più, appartenente a famiglia a' suoi tanto avversa, com'era Dante; ma ha però sempre quello, avvertito pur dal Fiammazzo, che non c'era bisogno davvero di essere uno dei rettori per sapere le cause della animosità dei fiorentini contro gli Uberti.

Il Posocco aveva anche avvertito che, spiegando ritorni, c'era contraddizione tra l'au gurio del tornare sulla terra, e la predizione che fa poi a Dante, che l'arte di tornare in patria sarebbe a lui pure apparsa difficile. Ma contraddizione non c'è, prendendo l'augurio come un semplice atto di cortesia, o come indicazione quasi di un correspettivo pel quale a Dante, in compenso della gioia del ritorno che lo aspetta, non dovesse tornar grave il soddisfare a un modesto desiderio di lui Farinata, relegato in inferno [onde trapela pure la brama di questo di poter fare altrettanto].

Ciò per altro è diverso dal contrasto che il Fiammazzo stesso, nella Biblioteca delle scuole classiche italiane del 15 marzo, osservò tra il Se tanto lavoro in bene assommi da

Stazio rivolto a Dante nel Purg., XXI, 112 e il Ben vedrai che co' buon convien che regni del precedente verso 24: giacchè questo è detto da Virgilio a Stazio, e non esprime poi una certezza assoluta; onde anzi l'adito naturale all'augurio che questi rivolge.

E non può nemmeno, il detto di sopra, lasciar luogo a l'altro suppesto del Fiammazzo, che nel dolce mondo possa alludere a Firenze, giacchè sarebbe troppo curioso che gli augurasse il ritorno in patria, prima ancora di avergli predetto l'esiglio.

Segue nel Bullettino della Società dantesca, una seconda breve recensione del Fornaciari su un altro di quei luoghi, ove il diavoletto della novità tenta qualche novo peregrino di Dante, e dove io son lieto di trovarmi con lui pienamente d'accordo: vo' dire del Purgatorio I, 19, ove il dr. Bassi volle rivolgere al sole anzichè a Venere l'attribuzione Lo bel pianeta che ad amar conforta. Sono, ripeto, pienamente d'accordo col Fornaciari quanto alla sostanza: mi permetto solo una piccola riserva là dov' egli mostra dubitare che ponendo Dante nel Conv. II, 14, l'apparenza di Venere or da mane or da sera, e all'apparir da mane assegnando il dinanzi, all'apparir da sera il retro, segua l'opinione popolare anzichè la scientifica. Nessun divario invece fra le due opinioni, le quali concordemente ammettono che Venere ora compaia da mane quando è innanzi al sole, e lo vagheggia da ciglio (Parad., VIII, 12), ora da sera quando vi è retro e lo vagheggia da coppa: divario esiste soltanto con coloro che poco famigliari forse con le osservazioni del cielo si danno a credere che quella alterna apparenza si verifichi nel corso di un giorno, mentre si verifica nel decorso dell'anno; ovvero con quelli degli antichi astronomi che vedendo quella stella comparire, secondo stagione, or di mattina, or di sera, ne avevano fatto due stelle differenti.

Anche il fascicolo di marzo è meritevole di studio. Esso contiene, oltre gli annunzi di recenti pubblicazioni [fra cui specialmente importanti un articolo del Persico su la supposta invidia del Petrarca a Dante, e due studi del Toynbee e del Ferrers Howell recanti buon contributo a rincalzo della lezione re giovane anzichè re Giovanni]; una attraente e dili gentissima recensione di Vittorio Rossi sullo scritto di Antonio Rossi I viaggi danteschi ol☛r' alpe; un'altra, del prof. Fornaciari favorevole alla interpretazione del Gizzi sul Penetra e risplende, pubblicata nel nostro Giornale; e un giudizio di N. Zingarelli, pure su alcune proposte di varianti di che il Giornale stesso si è occupato.

Nella prima recensione, a pag. 108, osservo che si presenta come argomento a ritenere che Dante per recarsi oltr' alpe abbia seguìto anzichè la strada delle Alpi quella della Provenza il fatto che nessuna delle grandiose scene del paesaggio alpino avrebbe lasciato traccia di sè nel poema. Ben a ragione però l'argomento è presentato in via dubitativa; in quanto che, se da una parte grandiose scene di paesaggio in Dante non credo si trovino nemmeno di altra natura; dato anche ve ne fossero di alpine, riescirebbe poi difficile determinare se alle Alpi o agli Apennini dovessero ascriversi, come e alle prime e ai secondi possono ugual. mente spettare le descrizioni ch' ei fa della neve cadente o liquefacentesi, e della nebbia, nei canti XIV d'Inferno, XXX e XVII di Purgatorio, e perfino de l'ombra smorta Qual sotto foglie verdi e rami nigri Sopra suoi freddi rivi l'alpe porta al XXXIII, 109 e segg. di Purgatorio. A pag. 111 vedo segnato il verso di Dante al canto XXI, 106 di Paradiso, tra' due lati d'Italia; ma essendomi ignota una simile variante, credo si tratti di un semplice errore di stampa per liti.

Non troppo esatta, e forse assoluta oltre il bisogno, mi è parsa ia recensione dello Zin. garelli. Della minore esattezza cito solo l'avermi attribuito di cercare in appoggio a la emen. dazione invidioso fummo, la compagnia di chi al V, 39 di Purgatorio, lesse Nè solca lampo nuvole d'agosto, quando io al contrario mi affaticai a dimostrare che di quest'ultima variazione

[merged small][ocr errors]

non vi era proprio nessunissimo bisogno. E troppo assoluto mi pare il non creder quasi possibile che la famosa descrizione dell'ora della sera, quando la squilla da lontano pare il giorno pianger che si more, si riferisca a giorno diverso da quello in cui navigante e viandante lasciarono la patria. Eppure par naturale il pensare che nel giorno della partenza la distanza dal luogo lasciato essendo minore, e l'animo ancor tutto pieno delle agitazioni del commiato, l'adito alla malinconìa vi è minore, che non quando tra il passato e il presente si è frapposto un certo intervallo e di tempo e di spazio, il quale getta sul sentimento come un velo di nebbia che crea appunto la disposizione più acconcia per la malinconia. D'accordo però con lui che non sia da perder tempo e farlo perdere agli altri occupandosi di tutte le varianti che possono capitare tra i piedi.

Concludendo, ci piace di congratularci con la Società dantesca, che così bene intenda il suo ufficio di elevare il livello della preparazione in coloro che si accingono sì allo studio, sì alla discussione di Dante, e che per organo delle sue manifestazioni possegga ora un periodico ben atto ad accrescerle le simpatie del pubblico, e ad estendere sempre più il culto del gran poeta, e i proficui affiatamenti tra i molteplici suoi cultori.

F. RONCHETTI.

Paolo Luotto.

Una parola di Dante Alighieri. Torino, tipografia degli Artigianelli, 1894, in 16,° di pag. 52.

A proposito del s' adagia del verso 3, Inf., III, nel 3° e 5° quaderno di questo Giornale [pag. 132 e 217] furono recate due nuove interpretazioni: la prima, del prof. Antognoni, il quale per mantenere al s' adagia il significato di s'indugia, dà al pronte del v. 74 il signi ficato di preparate: l'altra del prof. Maruffi, che preferendo dare al s'adagia il suo significato naturale di si siede, non lo intende però nella barca, bensì sulla riva. Ma e dell' una e dell' altra credo non sarebbesi sentito il bisogno, sol che si fosse letto quanto in argomento scrissero, e l' laconianni, nel suo Caronte [Firenze, tip. dell'arte della stampa, 1888, a pag. 30], l'Andreoli nel suo comento manuale [il migliore forse di tutti], e il sottoscritto ne' suoi Venticinque appunti, ecc. [Roma, libr. Manzoni, 1878]. Al pronte per preparate si oppone troppo direttamente lo stesso Dante quando al v. 124, fa dire a Virgilio E pronti sono al trapassar del rio Chè la divina giustizia li sprona Sì che la téma si volge in disìo. A l'adagiarsi su la riva poi, il riflesso che anche ciò contraddirebbe alla sollecitudine delle anime di essere passate per le prime, sollecitudine, il cui esemplare proviene pure, come tante altre immagini dell' Inferno di Dante, dal Tartaro di Virgilio in quei versi dell' Eneide, VI, 305 e seg.: Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat... Stabant orantes primi transmittere cursum, Tende bantque manus ripae ulterioris amore; Navita sed tristis nunc hos, nunc accipit illos; e richiederebbe d'altra parte che Caronte uscisse dalla barca, cosa della quale Dante non dà il menomo cenno. L'adagiarsi invece delle anime nella barca [anzi il tentar di adagiarsi; ch'è altra delle funzioni di cui il presente dei verbi è suscettibile] è cosa che ha una naturalissima spiegazione nel chiamarle che fece Dante, anime lasse; come il non poterlo esse fare ag giunge bel contrapposto agli altri che si riscontrano, tra la barca di Caronte, e quella che tragitta gli eletti nel Purgatorio, e della quale è detto ivi, II, v. 5: E più di cento spirti entro sediero. Ma vi oppone l'Antognoni, che Dante, quando scrisse il suo s'adagia, ancora non ha visto le anime gittarsi di quel lito nella barca. —- Come, non ha visto, se ha detto che tutte le raccoglie, e ciò non può appunto essere che nella barca, giacchè sulla riva

[ocr errors]
« PrethodnaNastavi »