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già son tutte ritratte (v. 106)? Che se Dante al v. 116 ripete Gìttansi di quel lito ad una ad una, ciò non fa che per compiere la similitudine delle foglie, la quale riguarda una sola delle operazioni che si compiono simultaneamente, da una parte le anime che via via si stac. cano dalla riva, dall' altra Caronte che si affanna a tutte collocarle nella sua barca. Giacchè io non trovo niente affatto curioso che proprio si raccogliessero a ogni viaggio di Caronte quante anime bastano per far piena la sua barca: sembrami piuttosto ben naturale, che Caronte non voglia traghettare se non ha la barca più colma che sia possibile.

Ma sentiamo quello che ne disse anche il prof. Nottola. Esso a pag. 460 di questo Giornale [corroborato anche dall' egregio Direttore a pag. 469,] per sostenere il significato delle anime che s'indugiano [o si posano] per non entrar nella barca, vuole che questa riluttanza non sia che momentanea, e motivata dallo spavento alle terribili parole di Caronte. Era un pensiero che pressapoco avevo in origine espresso io pure; ma rileggendo tutto il passo mi persuado sempre più non essere troppo ammissibile. Vcde Dante da lungi molta gente alla riva d'un gran fiume, che hanno tutta l'apparenza di essere fortemente desiderose di trapassarlo. Non potendo egli supporre in dannati tanta impazienza di affrontare il tormento, ne chiede conto a Virgilio; il quale gli risponde che saprà il tutto quando saranno alla riva. Giuntivi, ecco infatti una nave che approda, guidata da Caronte, alla quale naturalmente tutte quelle anime si affollano. Ma Caronte le sgrida, quasi dica: Avete tanta furia? Non dubitate che passerete tutti. Ma non crediate già ch'io vi meni in luogo di delizie: Io vegno per menarvi a l'altra riva, Ne le tenebre eterne, in caldo e in gelo. E detta la sua anche a Dante, anima viva, al che risponde Virgilio, quel brontolone si queta. Ma le anime a quelle minacce Cangiar colore e dibattero i denti, intonando poi una solfa di bestemmie d'ogni generazione. Non per questo però si allontanano dalla riva, anzi vi si traggono tutte quante insieme; onde la necessità che Caronte, per non far confusione, le chiami ad una ad una Per cenni, si che abbiano a imbarcarsi una per volta. Taluna, appena imbarcatasi, per la stanchezza e l'abbattimento, fa atto di adagiarsi; ma il feroce nocchiero non vuole tante delicatezze; bruscamente la tocca col remo, che già tiene impugnato, e la obbliga a rizzarsi e così far posto a delle altre che soppraggiungono. Colma la barca, finalmente s' avviano; e prima che siano giunte a l'altra riva, già su quella ove i poeti si trovano, un altra folla si è formata, che pure attende di essere traghettata. E qui Virgilio dà al discepolo la spiegazione che gli ha promesso: Quelle anime sono i dannati all'inferno; e si affrettano così al passaggio, perchè ve li sprona la divina giustizia. — Virgilio dunque dice in generale che si affrettano: o come distinguere tra l'affrettarsi prima e il non affrettarsi più dopo la sgridata dì Caronte? Egli dice in genere che è la divina giustizia che li sprona: o che c'entrano dunque le battiture di Caronte?

si fa a

Erano a questo punto le mie considerazioni, quando mi venne sott'occhio il pregevole opuscolo del Luotto; e può quindi ben credersi se fui lieto di trovarmi con esso d'accordo e nella conclusione e in molti particolari. Solo che, 52 pagine in 80 gr., corpo 10, mi par. vero a bella prima un po' troppo per un verso solo; e sia pure di Dante! E infatti è a temere che la prolissità, benchè non mai scompagnata da molta chiarezza e proprietà di discorso, abbia in qualche parte nociuto alla efficacia del libro. Per esempio, tutta quella lunga dissertazione teologica rivolta a dimostrare che le anime separate dal corpo si affrettano per legge al loro destino, qualunque esso sia, potea benissimo essere accorciata; e così non le sarebbe probabilmente capitato di cadere nel provar troppo, come a pag. 30 ove accenna ai Centauri che saettano: Quale anima si svelle Del sangue più che sua colpa sortille; ai Malebranche i quali roncigliano i barattieri che cercano ristoro fuor della pece; ai sodomiti che arrestando l'eterna lor corsa sotto il fuoco, hanno per pena il giacere cent'anni senza sventolarsi, Uno infatti potrebbe saltar su e dire: Vedete dunque che ci sono dannati che si ribellano alla

legge della pena; che di strano, se alcuno si ribelli anche a quella del tragitto? Non dimentichiamo che Dante è bensì teologo, ma prima di tutto è poeta.

Ed è per questo che io mi schierai tra coloro che a quel battere qualunque s'adagia cercarono un motivo, o dirò meglio un aggiunta di motivo, alquanto verista, l'ingombro cioè che quelle anime così adagiate avrebbero recato; nè me ne pento, sebbene l'autore a pag. 48 li qualifichi bravamente d'ignoranti, e il Fiammazzo, a pag. 131 del Bullettino della Società dantesca, di ridicoli. O allora, se Caronte batte le anime solo perchè demonio, com'egli dice alla stessa pagina, non avrebbe ragione anche il Dorè di fare quello che alla pagina precedente esso pur gli rimprovera, di dipingerlo cioè menare il remo nel folto di quelle misere ombre? o che c'è bisogno che un demonio stia proprio tanto attaccato alla giustizia distributiva?

Sorvolo su altre lievi inesattezze; come a pag. 48, l'attribuire a Flegias d'impaurare i dannati con le sue grida, cosa che in Dante affatto non appare: a pag. 43, volere che tra i dannati sia guerra continua, dimenticando i barattieri legati fra loro in dimestichezza di piacevoli conversari, non che in società mutua contro i Malebranche: a pag. 46, fare che Caronte chiami le anime con solo un cenno degli occhi, mentre assai più naturale parrebbe un cenno o della mano o del viso: a pag. 47, trovare che interpretando il raccoglie, alla riva, non si capirebbe più la similitudine delle foglie e il Così sen vanno su per l'onda bruna, ciò che mi pare uno spingere allo eccesso il preconcetto e lo amore della propria tesi, fino a non vedere che il gittansi che vien dopo rappresenta appunto la stessa operazione del rac· coglie che sta prima. E anche il volere a pag. 46 appoggiare il significato del raccoglie sul consimile fui ricolto del Purgatorio II, v. 102 è un' arma a doppio taglio; che due versi dopo abbiamo pure un si raccoglie, e questo tanto può stare in un senso che nell'altro, anzi piuttosto in quello di riunirsi alla riva [contrapposto al calare verso Acheronte] che di affluire nella barca. In conclusione, l'autore non seppe resistere alla tentazione che prende molti di accumulare sulla tesi preferita ragioni forti e ragioni deboli, nella lusinga che queste, per la unione fra loro e con le prime, divengano forti ancor esse; e accade invece più sovente che intorbidano e ingarbugliano anche le altre.

Così a pag. 10 trovo che l'autore insiste troppo per dimostrare che il verso di Purg, XXV, 28, è favorevole alla sua tesi. Già innanzi tutto non si nega nè da una parte nè dal l'altra che in lingua e parlata e scritta s' adagia tanto possa valere s'indugia, come si riposa. Ma se proprio si volea trovare anche in Dante esempio di quest'ultimo significato; che desso suoni meglio, figuratamente ben inteso, nel verso Ma perchè dentro a tuo voler t'adage, a me pare abbastanza evidente, e senza nemmen bisogno di scegliere fra le due interpretazioni possibili, ti adagi dentro, a tua posta, o ti adagi entro la cosa da te voluta. È giustissimo quello che a sostegno di quest'ultima si adduce, che voler può avere il medesimo significato obiettivo che ha dimando al IV, 18 Purgatorio, e aggiungo disio al XXIV, 3, ivi, e infinite altre voci: è anche vero, aggiungo ancora, non essere di gran valore l'obiezione dell' Antognoni [cfr. p. 13] che Dante non aveva ..... volontà alcuna ma solo desiderio di spiegare una contraddizione naturalissima, giacchè, come dissi altrove, in Dante volontà e desiderio spessissimo sono sinonimi: ma non cessa per questo di essere assai più spontanea la interpretazione prima; e, dopo tutto, come dissi, sia l'una sia l'altra, in nulla, credo, possano favorire il significato del s'indugia, se non dando troppo arbitrariamente al t' adage funzione di verbo di moto.

A pag. 17, fra le imagini tratte dal Caronte virgiliano e che Dante riserba a completare altrove, avrei posto anche quelle cui dà luogo la figura di Flegias, e fra esse singolarmente la discesa di Dante nella sua barca, ove dice [Inf., VIII, 27] E sol quand' io fui dentro parve carca che è tutto il gemuit sub pondere cimba, con quel che segue, de l'En., VI, 413. Ma

viceversa a pag. 19 non porrei come argomento a sostegno, che Dante contraddirebbe a Vir. gilio se facesse che pur una delle anime non provi il desiderio di passare, giacchè tale perfetta conformità è tutt'altro che provata necessaria: altra anzi è la legge pagana che fa affrettare le anime, altra la cristiana: in Virgilio vediamo Caronte respingere gl' insepolti, il Caronte di Dante invece non respinge nessuno, ma è in cambio il celeste nocchiero che leva quando e cui gli piace (Purg, II, 951

Per dire qualche cosa anche della edizione, che è pure un buon coeficiente per far leg. gere un libro volentieri, soggiungerò che la stampa è assai elegante, e che di errori non cor. retti ne trovai ben pochi: a pag. 21 in cielo e paradiso, invece di è; a pag. 30, de' violenti contro natura che possono sostenere il tormento del fuoco correndo, invece di devono; a pagina 47, non pensa e non vuole che pensi, per che si pensi; a pag. 50, che le divide in luogo di che li divide: prótnnmos, di próthumos.

In complesso, concluderò che ci troviamo innanzi a un lavoro serio, coscienzioso e insieme piacevole, e che dovrà certo essere consultato da tutti coloro che vorranno prendere notizia dell'argomento. Forse volendo mostrare che l'amore all'assunto non mi facea velo al giudizio, io avrò spinto l'analisi troppo oltre: ma mi ci indusse anche il desiderio che un opuscolo che dovrebbe dire l'ultima parola su una questione assai dibattuta si presentasse in modo da non dare appiglio a discussioni ulteriori.

F. RONCHETTI.

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A. Mazzoleni. Chi parea fioco: chiosa dantesca, Acireale, tip. Donzuso, 1893, in 8o., di pagg. [13]. [Estratto degli Atti dell'Accademia di Acireale, vol. V, pag. 145 a 157].

Abbiamo letto quest'opuscolo con la speranza di trovarvi una interpretazione migliore di quella da noi altrove accennata, di uno che per appartenere ai regni del lungo silenzio appariva esile come ombra, ma la nostra speranza non fu soddisfatta. Il Mazzoleni intende per silenzio il rodimento che dovea produrre in Virgilio la pena della privazione di Dio alla quale era condannato: ma quando mai silenzio ebbe questo significato? e come potea Dante immaginarselo? Si dirà essere una anticipazione, che cioè quando Dante scrisse, sapeva che quello che gli era apparso così fioco era Virgilio, e che però avendo veduto la pena alla quale egli era condannato, già aveva nella sua mente associato quella pena con quella cascaggine. E sia: ma ve li figurate voi Omero, Cesare, Aristotile disfatti, affraliti, cascanti? La riproduzione estetica di quelle gloriose grandezze ove se ne va a finire? Erra poi l'autore quando a pag. 154 parla di sospiri; chè questi son propri bensì degli abitanti del limbo, ma esclusion fatta di quelli del nobile castello, ove l'aura non trema come ai versi 27 e 15 [IV] ma è queta.

Piacemi bensì che nel senso allegorico l'autore si appigli alla interpretazione di Benvenuto, che l' umana ragione è poco in uso e di rado parla fra gli uomini, interpretazione che può volgersi anche al significato politico, tutt' uno in Dante col morale. Non però che occorra ripudiare al tutto quella del Boccaccio, per non essere in uso lo suo parlare poetico e ornato a' moderni. Non c'insegna lo stesso Dante nel Conv., II, 1, potere nelle scritture, oltre il senso letterale, trovarsi anche l' allegorico e il morale e l'anagogico? Cosi qui, Virgilio nel senso morale sarebbe la ragione umana insonnolita; nell' allegorico, il suo silenzio, sarebbe la oscurità in cui pei secoli barbari il suo poema sarebbe giaciuto : o come volle il prof. Mancini nell' Opinione letteraria del maggio 1882, per non avere alcuno dopo di lui e prima di

Dante, cantato dell'impero universale. La ragione che il Mazzoleni oppone: Come mai i contemporanei avrebbero tributato onore all' Alighieri, imitatore e cultore di Virgilio, se essi tenevano in nessun pregio il modello? non ha troppa importanza: avean forse i contemporanei bisogno di sapere che Dante aveva imitato Virgilio per ammirarlo? e non potevano i più gustare il poeta italiano, e non capire un iota il latino del mantovano? Ma dicasi piuttosto che in questo affare delle allegorie è sempre meglio stare molto alla larga, per non correre il pericolo di sostituire alle immaginazioni di Dante le creazioni del proprio cervello; tanto più che le allegorie non sono poi sempre indispensabili nè per la comprensione nè per la degustazione, direi, del divino poema, per le quali basta, tutto al più, aver presente il fine che il poeta si è proposto, e le allusioni alle quali, con la sua mente ricca di concetti e di erudizione singolarmente biblica, egli si abbandona qua e là, senza che però occorra fra di loro quel nesso organico che solo costituirebbe una vera, continua allegoria.

F. RONCHETTI.

T. Sandonnini.

Dante e gli estensi. Modena, tip. Vincenzi, 1893, di pagg. 47.[ Estratto dagli Atti e memorie della r. Deputazione di storia patria per le provincie modenesi].

Dante menziona più volte [o vi fa non oscure allusioni] nel suo poema i marchesi da Este, la nota famiglia di signori saliti a grande potenza sulla rovina dei comuni verso la fine del secolo XIII. Esaminati i relativi passi, alcuni critici asserirono che il sommo poeta si mostrò ingiusto, partigiano, o, almeno, troppo severo contro que' signori, perchè avevano validamente favoreggiata la parte guelfa; altri negarono il fondamento delle accuse loro mosse, o ne sminuirono la gravità. La questione si è così trasformata in una disputa essenzialmente storica, tantochè l'egregio autore del presente scritto ha creduto, con ragione, di offrire agli studiosi, in brevi tratti, una completa dissertazione sull'argomento.

Nei gironi infernali, fra i violenti in altrui, l'Alighieri ci fa trovare dinanzi ad un estense:

quell'altro, che è biondo

è Obizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro su nel mondo.

Gli antichi commentatori, comunemente seguìti anche dai posteriori, interpretarono che il figlio Azzo avesse ucciso il padre Obizzo: figliastro sarebbe, così, detto in puro senso spregiativo. Molti ritennero, al contrario, trattarsi di semplice dicerìa o malignità, esclusivamente fondata sopra un passo della Cronaca di Ferrara del Riccobaldo, e si accinsero, come L. A. Muratori, o a mettere in dubbio il fatto per mancanza di prove, o a discolparne e assolverne Azzo.

L'autore, constatata e deplorata anzitutto una lacuna nelle storie del Prisciano, prende in esame il passo del Riccobaldo, rimasto unico accusatore, e additato dai panegiristi estensi quale scrittore inattendibile perchè partigiano, essendo stato di contraria fazione e perciò bandito dai dominatori di Ferrara. Con argomenti e prove d'indubbio valore il Sandonnini giunge alla conclusione che l'affermazione di Riccobaldo è storicamente esatta, risultando, in effetti, che Obizzo rimase soffocato per opera di figli crudeli e ambiziosi. Troppo lungo sarebbe seguire l'autore nella minuta disamina: basti dire ch'egli viene tessendo l'origine e l'aggravarsi delle discordie tra Obizzo e i suoi due figli, primo e secondo-geniti, Azzo e Aldobrandino,

per dimostrata predilezione a favore del terzo-genito Francesco; che prova non essere più solo il Riccobaldo, giacchè anche il cronista mcdenese Giovanni da Bazzano, degno di fede e quasi contemporaneo († nel 1363], registra, sotto l'anno 1293 essere corsa voce che Obizzo sia stato soffocato; e che il Memoriale inviato dai bolognesi al doge di Venezia dichiara essere stato Obizzo tolto di mezzo per opera divina od umana, avvalorando per tal guisa la voce corsa e i dubbi. Il per vero di Dante sarebbe, inoltre, nuova conferma del fatto, espressa. mente detto per infirmare il dubbio di altri.

L'autore scende poi a confutare coloro che male interpretarono il figliastro dantesco, alcuni avendo sostenuto trattarsi non di Azzo primogenito, ma di uno de' parecchi figli naturali di Obizzo, altri avendo congetturato che Azzo fosse veramente figlio naturale e illegittimo di Obizzo. Il Sandonnini, perciò, tesse la storia di questo marchese nelle sue relazioni domestiche, si per rispetto alle due sue mogli, sì per rispetto ai figli avuti; e, confutati parecchi errori storici o leggerezze di commenti, sostiene l'interpretazione di figliastro nel senso di figlio snaturato e infame, perchè parricida, o per lo meno esclude che Dante abbia voluto mettere in forse la legittimità dei natali di Azzo.

L'autore si chiede poscia se e quali ragioni ebbe Dante di relegare Obizzo fra i violenti in altrui, il Muratori avendo affermato che non si sa per quali demeriti, altri avendo tessuto l'elogio del marchese, come di uno fra i migliori o meno spregevoli principi del tempo. Indi, per logica connessione, ampiamente illustra l'altro passo dantesco (Inferno, XVIII) che accenna al fatto della Ghisola bella infamemente condotta dal fratello a far le voglie di Obizzo da Este. E viene a conchiudere che questo tiranno non fu peggiore degli altri dell'età sua, che non potè essere collocato nella fossa dei violenti in altrui per ferocia d'animo, ma che, per avarizia e per avidità di danaro, e per commessi attentati, se non alla vita, agli averi dei cittadini, bene meritò di essere punito fra i violenti contro la roba altrui.

Ad inasprire l'animo del poeta contro Obizzo e Azzo VIII da Este può, e deve, secondo l'autore, avere contribuito il tradimento contro Aldighiero Fontana, che aveva tanto operato a pro' di Obizzo, e che l'aveva creato marchese, essendone poi stato fatto avvelenare nel 1270, e le successive persecuzioni e dispersione della famiglia Fontana, dalla quale Dante Alighieri vanta di avere tratto l'origine materna. Opportunamente l'autore commenta, a questo proposito, e in relazione con questi avvenimenli, i versi del canto XV del Paradiso:

Mia donna venne a me di val di Pado,

e quindi il soprannome tuo si feo;

e gli altri che parlano degli antenati di Dante:

Basti de' miei maggiori udirne questo;

chi ei si furo, ed onde venner quivi,
più è tacer, che ragionare onesto.

Nel canto V del Purgatorio Dante rimprovera ad Azzo VIII l'uccisione di Iacopo del Cassaro da Fano, suo personale nemico e denigratore, podestà e strenuo difensore di Bologna, che il tiranno voleva conquistare. Con la narrazione del Prisciano l'autore constata la verità del commesso assassinio, ma opina che Dante non inveì oltre misura per questo fatto contro Azzo, avendo forse ritenuto che al fanese spettasse la propria parte di torto.

L'autore vuole anche rammentare il passo del De Vulgari Eloquentia: «la lodevole discrezione del marchese d'Este e la pronta sua magnificenza lo fa a tutti esser caro » per togliere valore alla asserzione che Dante mai non nomini i signori da Este se non a titolo

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