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quivi l'uopo leggesi introdotto co' suoi due puntini nel testo. Questa è, a mio giudizio, una appunto delle varianti fra' due testi a penna dal Barbi dette "piuttosto guasti che correzioni giudiziose, (La fortuna di Dante nel secolo XVI, p. 110): quant'all'altre, ancora mal note, io àuguro ai due codici un erudito lavoro quale s'ebbero dal Mestica, l'anno passato, il 3197 istesso e il prezioso autografo del Petrarca (vaticano 3195) per rispetto al Canzoniere (Giornale storico, ecc., anno XI, fasc. 62-63).

In ogni modo il Foscolo

ritornando all'argomento nostro ebbe ragione: per l'aldina del 1502 il Bembo, allora giovine, lesse qui diverso da quel che per le Prose nel 1525, quand'era cioè nel maggior fiore dell'attività intellettuale e della sua gloria letteraria (V. CIAN, Un decennio della vita di P. Bembo, p. VII): ben sapeva egli che il Manuzio e i consiglieri suoi non avrebbero accolto la rara lezione! Il Foscolo stesso però ebbe qui il torto di non vederci che un capriccio; benché non reputasse il Bembo "di ingegno sí stupido ch'ei senza avvedersene "gli [a Dante] guastasse la poesia; né sí malnato che s'industriasse di sfigurarla. Ben ei leggevala alcune volte, e la intendeva a sua posta a farne esempi di grammatica; onde fino da' primi canti:

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"Piú non t'è huo' ch' aprirmi il tuo talento

Che non fosse capriccio l'abbiam veduto dal codice del Boccaccio (vaticano 3199), riprodotto anche qui integralmente, se si prescinda dall'ortografia, nell'edizione del Fantoni (Roveta, 1820: huo' ch'aprirmi); l'abbiamo veduto anzi nelle Giunte del Castelvetro, il quale, avendo appena osservato: "io non veggo come voglia il Bembo che Dante abbia usato uo' in luogo di uopo „, si contraddisse soggiungendo: "il che "io non niego aver veduto scritto in alcun libro

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demici,

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Ancora: un quarto di secolo fa il Campi (ediz. di Torino, 1888) osservava: "Non può dirsi un capriccio, sendo lettera di molti testi "della quale quel Monsignore [il Bemboj non avvertí l'assurdità.......... Io tengo per sincera aggiungeva il Campi la lezione degli accae l'ho rispettata, e la sentenza è questa: Ti ho inteso, basta cosí, non mi occorre altra spiegazione, né altro eccitamento. Ma sul margine della loro edizione citarono l'altra Piú non t'è uo' ch'aprirmi "il tuo talento, da essi riscontrata in cinque dei loro testi [vedremo piú innanzi quanto c'è di vero in questa loro asserzione] e verrebbe a dire: Non ti rimane che a palesarmi il tuo volere; ma Beatrice glielo aveva già manifestato, quindi assurda è questa lettera del Bembo ,. Come possa conciliarsi il sendo lettera di molti testi, con questo lettera del Bembo, altri vegga: anche il Campi adunque cadde nella contraddizione del Castelvetro!

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Meglio ancora che il Bembo, il Castelvetro, il Blanc e il Campi, su questa lezione dissertò il dottore Edoardo Moore di S. Edmund Hall

(Oxford) nelle sue Contributions to the Textual Criticism of the D. C. (Cambridge, 1889, p. 273 e 274). Pure accogliendo la lezione comune, ei riconobbe cioè quivi nell' " inserzione del che.... un significato " indubbiamente assai naturale e logico in generale,,; e si richiamò alla terzina del Purgatorio (XXXIII, 130-132):

Com' anima gentil che non fa scusa,

ma fa sua voglia della voglia altrui,
tosto ch'ell'è per segno fuor dischiusa

e riferí, come già il Blanc, la nota risposta di Eolo a Giunone, ch'è nel primo dell'Eneide (anche qui richiamandosi opportunamente al c. 25° della Vita Nuova, dove Dante ne tocca):

Tuus, o regina, quid optes

explorare labor: mihi jussa capessere fas est.

Tuttavia, dunque, dette la preferenza pur lui, il Moore, alla lezione comune (uopo aprirmi), non sembrandogli che l'altra rispondesse alle esigenze della narrazione dantesca. Ben cinque ragioni allegò poi contro la rifiutata; le quali però possono ridursi a due, l'una, cioè, di senso e l'altra di metro. Le relative al senso infatti non tendono che a ribadir tutte questo concetto: Beatrice aveva appena espressa la propria volontà a Virgilio, senza lasciar supporre d'aver null'altro ad aggiungere, e Virgilio aveva appena risposto che si disponeva ad ubbidire; considerando quindi come già esaurita da quest'aspetto la questione, egli rivolgeva l'animo e il pensiero ad altro: Ma dimmi la cagion ché non ti guardi, ecc. né Beatrice poi accennò piú in verun modo a quella maggior esplicazione del proprio desiderio che sarebbe richiesta dalla lezione: Piú non l'è uopo che aprirmi il tuo talento.

"

Fermiamoci, per ora, qui. L'errore del Moore, di tutti anzi quelli che "fieramente furo avversi a questa lezione, trae origine dall'aver qui male interpretato il pensiero del poeta nostro. Di que' diciassette versi infatti che spende Beatrice per movere Virgilio al soccorso di Dante, ben dodici ne rivolge a spiegare la ragione della preghiera e gli altri dedica ad ingraziarsi l'animo del poeta latino. Dopo di tutto ciò e dopo anche la risposta di Virgilio ch'è a' citati versi 79 e 80, ozioso, se non anche ridicolo, è il soggiungere: Tu non hai che a dirmi ora quel che l'abbisogna. Hanno ben ragione dunque i difensori della lezion comune, poiché né Beatrice alluse per entro al discorso, già chiuso, a lacune da riempire poi, né accennò in sul finire ad aver dell'altro ad aggiungere; anzi,

Tacette allora; e poi cominciai io,

continuando, fa dire a Virgilio il poeta nostro; il quale spende cosí un intero verso a significare quel lungo silenzio ch'è qui effetto dell'esta

tica ammirazione di Virgilio, come altrove nel poema, protratto, a dir cosí, per ben cinque versi (Inf., V, 108-112), varrà ad esprimere efficacemente l'intenso dolore di Dante

Dinanzi alla pietà de' duo cognati.

Ma

Hanno ben ragione adunque i difensori della lezion comune. come non compresero essi che quest'argomento può venir contro loro ritorto? Se dall'una parte infatti Beatrice poteva osservare: E che vuo' ch' io ti esprima più oltre il mio talento se ci ho già speso intorno tante parole?; dall'altra poteva pensare, ché non sarebbe stata cortesia il dirlo: Or ti credesti tu dunque ch'io avessi dell'altro a dire?.... Perché tanto delira lo ingegno tuo?... Insomma, dopo quanto Beatrice ha già detto e dopo quel "Tacette allora,,, il far soggiungere a Virgilio: Non c'è bisogno che tu me ne dica di più,

Piú non t' è uopo aprirmi il tuo talento,

è ozioso o ingenuo almeno da quanto il Non altro ti bisogna ora che dirmi quello che desideri,

Piú non t' è uo' ch' aprirmi il tuo talento,

da quanto cioè la nostra lezione, se accompagnata da cotesta errata interpretazione.

Or qual è dunque l'interpretazione esatta?

Io potrei qui semplicemente richiamarmi a quanto ne scrissi, circa sett'anni sono, esaminando alcune lezioni del codice bartoliniano (I codici friulani della Divina Commedia, Cividale, 1887, p. XXXIV); anziché ripetermi però, credo opportuno riprender in nuovo esame la variante e accompagnarla di quella maggior illustrazione che è qui piú specialmente richiesta.

Ma ora, poiché abbiam udito le ragioni universalmente addotte contro la lezione nostra, udiamo pur quelle de' due soli che, per quant' io mi sappia, con qualche ragionamento la difesero (de' commentatori antichi non è qui a far parola, poiché questi chiosarono, qual ch'essa fosse, la lezione che avevano sott'occhio, senza sospetto quivi cioè di varianti e per ciò senza discussione). De' due soli, che presero a difendere la lezione nostra, l'uno soltanto anzi, lo Zani de' Ferranti (Di varie lezioni da sostituirsi nell'Inferno,,, Bologna, 1855), è ricordato dal Blanc e dal Campi; io principierò adunque dal riferire tosto la chiosa dell'altro, che è lo Scarabelli. Strenuo propugnatore dell'uo' ch'aprirmi nel testo del poema, ebbe questi il torto di non vedervi altra interpretazione che la oppugnata a buon dritto dal Moore: "Quelli che respingono il che [scriss'egli nell'edizione del Lambertino] dovrebbero acแ corgersi dell' inutilità in rimare il verso [?]. Se in quella vece il che resta, viene ad esprimere: Se altro hai a dire, pur che di qualunque

"

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66 cosa ti talenti, io volo a servirti No, adunque, no: non almeno di coteste patenti contraddizioni. E leggiam ora la chiosa di Marcaurelio Zani de' Ferranti, il quale fu tenuto dal Witte, dal Barlow e dal Blanc in maggior conto ch'altri non abbia creduto farne (FERRAZZI, Manuale dantesco, II, 564). Dopo avere osservato che "la Volgare e l'Edizioni tutte quante leggono „,... uopo aprirmi.... e "il Vellutello chiosa: -- Più non t'è di bisogno dichiararmi il tuo desiderio il Ferranti, con innocente arguzia soggiunge: "Ed io credo anzi che un po' piú di dichiarazione non faccia male; e infatti si vede che Beatrice la dà,; ricorda quindi i codici da lui veduti che leggono opo od uopo ch'aprir, e, per ultimo, l' huo' ch' aprirmi dei codici vaticano e Caetani; a proposito della qual ultima lezione continua: "e il Bembo leggeva a questo modo: e, salvo il debito rispetto, io non credo col "celebre Foscolo che sia questa una di quelle tante prepostere emenda"zioni de' filologi del secolo XIV, né che il Bembo leggesse stranamente. "Anzi, a me sembra la migliore e sola vera lezione, perché qui non " si tratta di filologia, ma sí di logica; e in vero, seguitiamo il filo " del discorso. Virgilio dice che è pronto ad ubbidire sol che Beatrice gli apra il suo desiderio. E poi crede di poter egli pure far la sua piccola domanda; e chiede infatti a Beatrice perché non tema di vi66 sitar l'uscio dei morti. Allora che cos'accade? Beatrice gentilissima "soddisfa in prima alla curiosità di Virgilio, poi si fa a tessergli tutta “la storia della sua discesa, e finalmente gli dice che si fida del suo parlare onesto, per salvar Dante dal pericolo nel quale si trova. Ora

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qual è la buona lezione, e qual sarà la vera chiosa? Quella di Gui"niforte, che ha quattro secoli: A te altro non bisogna che aprirmi " il tuo talento 99.

Ecco qui: la chiosa di Guiniforte può esser la vera, ma soltanto se non vada intesa in cotesto modo; quando in fatti Beatrice tacette, aveva già chiarito o aperto tutto il suo talento, e quel che essa disse appresso per soddisfare in prima alla curiosità di Virgilio e tessergli poi tutta la storia della sua discesa, tutto questo, dico, risponde proprio ed esclusivamente alla piccola domanda che pur Virgilio credette di poter fare. Se questi infatti avesse chiesto col nostro verso alcuna nuova o piú ampia dichiarazione, avrebbe continuato: Dimmi inoltre, oppure Dimmi anche, o almeno E dimmi la cagion, ecc.: l'avversativo Ma dimmi esclude invece ogni relazione di quel che precede con quel che segue e prova, cioè, che del talento di Beatrice non si richiede né si aspetta verun'altra dichiarazione. Né la risposta di Beatrice consta di parti distinte come vorrebbe il Ferranti, ma è tutta e soltanto rivolta a soddisfare la speciale curiosità di Virgilio; senz'essa, cioè, Beatrice non avrebbe piú guari parlato, come si può con sicurezza arguire, anzi tutto dal Tacette allora che abbiam notato, e quindi, e meglio assai, dal tòno che dà Beatrice al principio della sua risposta. Bisogna ricordare infatti ch'essa aveva

proprio allora accennato all'imminente pericolo di Dante, affrettando il chiesto soccorso con le parole:

E temo che non sia già sí smarrito,

ch'io mi sia tardi al soccorso levata;

non parrà dunque inopportuno al solo Castelvetro che Virgilio, qui, "fuori "di tempo, e senza necessità niuna le faccia una domanda e la tenga a "parole, come, per rassomigliare le persone plebee, s'usa di fare nelle "comedie quando ci è maggior fretta,, (Sposizione, p. 42). E Beatrice ha certo più che un lieve accenno a cotesta inopportunità [o non anche importunità?] del poeta latino quando si fa a rispondergli principiando:

Dacché tu vuoi saper cotanto addentro

dirotti brevemente...

No, adunque: il nostro verso non vuol essere inteso né meno al modo del Ferranti, che è poi, a un di presso, il modo degli altri.

Ed ora, scusatomi per avere sí ampiamente, pur non senza ragione, esaminato le chiose altrui, torno, come dissi, alla mia di sett'anni sono.

Virgilio mostra di gradire siffattamente la preferenza concessa a lui, fra tutti gli spiriti magni, da Beatrice, che ha la costei preghiera in luogo di un comando: ei risponde quindi ad essa non altrimenti che, nella Gerusalemme liberata, Aladino alla preghiera di Clorinda (II, 48):

Sovra i nostri guerrieri a te concedo

lo scettro, e legge sia quel che comandi;

non altrimenti che Armida (ivi, alla dichiarazione di Rinaldo, XX, 136):

Ecco l'ancilla tua; d'essa a tuo senno
dispon', gli disse, e le fia legge il cenno;

e, non altrimenti, nella Resurrezione del Manzoni, i fedeli diranno alla Vergine:

Egli prescrisse

che sia legge il tuo pregar

(cfr. pure VIRGILIO cit. e OMERO, Iliade, XIV, 196). Il poeta latino vorrebbe anzi non aver posto tempo in mezzo fra l'espressione dell'ordine e l'esecuzione di esso:

Tanto m'aggrada il tuo comandamento

che l'ubbidir, se già fosse, m'è tardi;

quindi, non che breve, per sommo di cortesia, e' vuol significare che cotesta espressione della volontà di Beatrice fu soverchiamente lunga:

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