Slike stranica
PDF
ePub

e tale è rispetto alla disposizione dell'animo di lui all'obbedienza; e' vuol significare che soverchio a ogni modo ne fu il laudativo esordio;

O anima cortese mantovana,

di cui la fama ancor nel mondo dura,

e durerà quanto il mondo lontana,..

e soverchia la lusinghiera perorazione:

Quando sarò dinanzi al Signor mio,

di te mi loderò sovente a lui.

Non molto diversamente, o diversamente soltanto perché non in gara di cortesie come Virgilio qui, Catone avrà altrove per soverchio il gentile accenno a Marzia rivoltogli, pure a mo' di perorazione, dal poeta latino (Purg., I, 83):

Grazie riporterò di te a lei,

se d'esser mentovato laggiú degni;

e come trova quindi ragione la frase dell' uticense che suona rimprovero (ivi, 92):

non c'è mestier lusinghe;

bastiti ben che per lei mi richegge;

cosí l'allusione al soverchio ch'è nelle parole di Beatrice appare nel

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento

soggiuntole da Virgilio. Il quale viene dunque a dire: Sappi che a te non d'altro è uopo ch'esprimermi la tua volontà, come già facesti; superfluo è tutt' il resto e specialmente superflua la preghiera nel nome altrui: anche qui in una parola si ripete il

non c'è mestier lusinghe;

bastiti ben che per te mi richegge.

Insisto su questa corrispondenza, fra la risposta di Virgilio a Beatrice e quella di Catone a Virgilio, senza temere di cader quivi nelle esagerazioni altrui a questo riguardo e senza dimenticare le sagge osservazioni del Moore sulla "consistenza o inconsistenza delle varianti le"zioni con sentimenti altrove espressi dal medesimo autore,, (Textual Criticism, p. xxxvii).

Se Catone dichiara esplicitamente vano l'elogio di lui a Marzia promessogli da Virgilio, questi non ha per men vana la lode che presso Dio gli promette Beatrice; l'uno risponde: ben ti basti richiedermi in nome di lei che scese a te dal cielo, l'altro: a te scesa dal cielo basta bene richiedermi in nome tuo soltanto, o esprimermi cioè semplicemente il tuo talento, com'hai già fatto.

Nel nostro verso adunque v'ha solo un lieve accenno a quel concetto che ricorrerà, con maggior o minor evidenza esplicato, frequentemente per tutto il poema, dalla fine cioè del canto stesso:

Or va che un sol voler è d'ambedue,

fino all'ultimo canto del Paradiso:

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al domandar precorre:

concetto anzi che nel Convivio (I, 8) è fatto argomento di dissertazione, e vi sarebbe stato più ampiamente esaminato se l'opera non rimaneva imperfetta.

"Bastiti

E pur sempre a proposito della frase di Catone a Virgilio: "ben che per lei [Beatrice] mi richegge, perché i critici non cercano la richiesta quivi accennata, ciò insomma che Virgilio richiede, in quel che segue, ma riferiscono tutti il richegge a quel che precede? o non è il caso del nostro Piú non l'è uo' ch'aprirmi il tuo talento? Nell'un caso la richiesta s'era già fatta, e bastava bene; nell'altro il talento s'era già espresso, e accompagnato anzi da tale esuberanza di frasi cortesi che, al cor del poeta disposto all'obbedire, parve superfluo lenocinio d'arte.

E il Blanc, inoltre, e il Moore, che ricordano opportunamente il luogo virgiliano, qui a dietro riferito, perché non cercano pur quivi ne' versi che seguono quel labor di che parla Eolo a Giunone? Perché la costei volontà era pur quivi già stata espressa, cosí che Eolo, soggiunta appena cotesta sua risposta, corse ad obbedire, senz'altro indugio, agli ordini ricevuti. Anche il Monti, imitando Virgilio, nella Feroniade, fa dire all'Ufente (I, 678):

A te l'esaminar conviensi, o diva,
il tuo desire, e l'adempirlo a noi;

e fa che poi tosto l'oratore e gli altri fiumi corrano ad affrettare la distruzione del regno di Feronia invocata da Giunone. Or non è pur simile a questi il caso nostro? Virgilio, è vero, intrattiene o tiene a parole Beatrice ancor un tratto; ma sempre, come, pur con l'usata asprezza, nota il Castelvetro, come anzi, dallo Zani de' Ferranti infuori, intendono tutti, per ragioni affatto estranee al talento di Beatrice e solo riguardanti la curiosità del poeta latino.

Non guari dissimile da quel di Eolo e dell'Ufente a Giunone ed in tutto rispondente a quel di Catone a Virgilio, è dunque il concetto che questi, come le circostanze esigono, accenna, meglio che chiaramente esprima, a Beatrice col verso:

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento;

né ora, cioè, né in avvenire mai, per un servigio da me, fa maggior uopo a te che espormi semplicemente la tua volontà (senza i fregi di che l'hai testé intessuta).

Attribuendo al nostro verso questo significato, il più non vi si troverà a disagio come, riferito all'avvenire, dovette sembrar nella nostra lezione al Moore (seems almost unmeaning); esso va infatti riferito al passato ed assume cosí tal valore al cui confronto il più della lezion comune apparisce anche meglio ozioso o volgare: non altrimenti appunto che apparisca e volgare ed ozioso l'intero

Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento;

il quale, dopo quel Tacette (Beatrice) allora, ha l'apparenza d'una zeppa o d'una glossa! No, non basta sceglier fra due varianti quella che almeno si capisce; bisogna esaminare anche se un tale significato non sia vano o ignobile o, in una parola, indegno dell'autore; or che figura ci fa cotesto personaggio al quale attribuite il merito poco peregrino di capire che quando Beatrice tacque aveva finito di esprimere il proprio talento, e pur gli fate soggiungerle: " e' non bisogna che tu "me ne dica piú oltre?, No, ripeto, la terzina principiata co' due versi, che fecero dire al Biagioli: "Nulla espressione di desiderio potrebbesi " agguagliare a questa „,, deve chiudersi con un crescendo finale, non già con una frase oziosa; e fra il comune non ti bisogna dirmene di più e il reietto a te non bisogna più oltre ch'esprimermi, come facesti, il voler tuo, senz'allettamento veruno, io lascio scegliere altrui.

66

Veniam ora all'ultima, che per noi è la seconda, delle cinque obbiezioni messe innanzi dal Moore. Questi scrive adunque: " un'altra "osservazione in fine (e basterebbe da sé a tagliar di netto la questione): la sillaba di piú aggiunta quivi col che rendere impossibile "il verso, ove non si creda di poter accettare quella tronca uo' che ri"corre in alcuni manoscritti La difficoltà stessa avvertivo già anch'io (Op. cit., 1. c.), e soggiungevo che leggendo quivi, col codice Florio, col Roscoe e con altri, t'è opo, non s'avrebbe un'elisione rara e, benché fra due vocali toniche, inusata nella poesia italiana: a non addurre esempi del Petrarca, fra' quali avremmo:

E s'ho alcun dolce, è dopo tanti amari,...
Per cui ho invidia di quel vecchio stanco,

basterebbe, non foss'altro, quell' uno dell'Alighieri stesso (Canzoniere):

Ma stan sommersi, e lor virtù è nel fango.

Sí ostico riuscirebbe però, anche al men educato degli orecchi, questo

Piú non t'è opo ch'aprirmi il tuo talento,

[ocr errors]

che non io vorrò soffermarmi ad esso: credo infatti che Dante non abbia usato qui né uopo né opo, ma bensí uo'; e lo credo pur sapendo che questa forma tronca, o, s'altri dica, questo mozzicone " spaventa "moltissimi, ai quali non riesce poi affatto strano do' per dove, me' per meglio, ca' per casa, fi' per figlio, u' per ove [ubi], o altrettale scorciamento, e il Ferranti poteva qui almeno ricordare anche il co' per capo. Senza però attingere a' moderni o interrogare l'odierno progresso della filologia romanza, per ispiegare cotesta forma, io credo basti riflettere che la propose forse per l'edizione aldina, nella nostra lezione, il Bembo, e che, a ogni modo e senza verun dubbio il Bembo stesso la recò innanzi nelle sue Prose: non pure, cioè, nel testo della Commedia, ma l'avrebbe voluta e l'addusse, ripetiam col Foscolo, "a "farne esempio di grammatica „,; nel qual senso non pare che né meno il Foscolo l'avesse per sí ostica cosa. (Non credo inutile aggiungere che il codice italiano, n. 73 della Biblioteca Nazionale di Parigi legge: uuo (uvo') ch'aprirmi: debbo la notizia alla gentilezza del signor Auvray).

[ocr errors]

Mi spiace ricordare anche una volta i giudizi che sull'Alighieri non si peritò di dettare in pubblico e susurrar in privato quell'idolatra del Petrarca che fu il Bembo; e a me basterebbe limitarli pure a "la forma " di alcuni versi e vocaboli e modi di dire del poeta fiorentino, a quel tanto, insomma, cui li vorrebbe pietosamente ridurre, nel maggior suo saggio sul Bembo, il valoroso nostro Vittorio Cian (p. 87 seg.). Ma come dimenticare che, secondo lui, Dante usò nel verso "molto spesso ora le latine voci, ora le straniere, che non sono state dalla Toscana "ricevute, ora le vecchie del tutto e tralasciate, ora le non usate e "rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime? Questo ed altro assai, come mostra il citato lavoro del Barbi, scrisse messer Pietro Bembo verso la fine del secondo libro di Prose della volgare lingua; e gli è pur quel Bembo istesso che in una metà almeno d'Italia e per almeno due secoli fu considerato dittatore della lingua nostra. Or questi è appunto l'unico autore che, per quanto fin qui ne sappiamo, nel corso di ben cinque secoli recasse innanzi, a esempio di bella proprietà dell'italico idioma, cotesta forma tronca o monca che oggi ap parisca o dir si voglia il nostro "uo' col valore di uopo.

[ocr errors]
[ocr errors]

Del resto né il Castelvetro poi, né il Blanc, né il Moore istesso anzi, si ribellarono per sola questa forma, per sola questa reliquia d'uopo, alla nostra lezione. Al quale proposito io chiederei qui licenza di dolermi perché nel citato Textual Criticism of the D. C. non appariscono i due gruppi diversi dei codici che leggono uo' ed huo' semplicemente, oppure integralmente nopo. Que' primi infatti son meglio che i pochi (same) cui accenna il Moore nel luogo qui a dietro riferito e che questi non facesse quivi una tal distinzione (rinnuovo le scuse per l'appunto) appar chiaro chi solo ricordi, per esempio, che

l'antichissima correzione dell'uopo aprirmi dà nel cod. Trivigiano uo' c'aprirmi, o, meglio, chi soltanto raffronti le varianti citate nel testo dell'intero Inferno che ci dà il Moore (p. 13) con quelle dell'esame particolare di lui a questa nostra lezione (p. 273). 273). Ce ne duole perché, oggettivi sempre, e in quest'argomento meglio che mai, noi non terremmo in conto veruno quanto siam venuti fin qui ragionando esclusivamente sorretto da criterio soggettivo e individuale codici non confortassero dell'autorità loro la nostra opinione: il che è appunto quel che vogliam ora esaminare.

come

ove i

II.

I CODICI.

Nel testo del 1595 (Firenze, Manzani) gli Accademici, come ho riferito dall'edizione postuma del cavalier Campi (Torino, 1888) citarono la variante al nostro verso, affermando d'averla riscontrata in cinque soli codici. A questo proposito il Witte, là dove accennava agli adoratori del testo di Bastiano de' Rossi e piú specialmente al Perazzini, osservò già nei Prolegomeni all'edizione di Berlino (p. XXII): “ Vi "diranno, per esempio: la tavola del Manzani cita cinque codici che " hanno (Inf., II, 81):

Piú non t' è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

“ dunque tutti gli altri 95 [circa cento furono i consultati per quell'edi"zione della Crusca] sono in favore del Più non l'è uopo, ecc.: argomen"tazione che non potrebbe essere piú erronea, e che sta in contrad"dizione colle stesse parole del Rossi, dove egli chiama una milensaggine il mentovare le lezioni da lui credute frivole o scipite od "infra sé troppo discordanti,, (Cfr. però il Barbi, p. 122 seg. e 127 nota).

[ocr errors]

Non sarà infatti mai a bastanza ripetuto il criterio onde gli Accademici procedettero nell'ammannirci le loro due edizioni (Firenze, 1595 e 1837): "In due lezioni [cosí lo riassunse Fruttuoso Becchi] delle quali una è chiara e l'altra no, son d'opinione che sia lodevole in"tendimento quello di dare alla prima anzi che alla seconda una pre"ferenza,, (edizione del 1837, p. 15). A cotesto principio il Witte, com'è noto, contrappose l'altro suo: Difficilior lectio potior, con raro acume di critica esaminato poi dal Moore; il quale osservò, fra altro, che un tal principio è "di molto valore se rettamente inteso, ma fa"cile ad essere frainteso ed abusato, (Op. cit., Prolegomena, p. xxxvi); fra i casi però nei quali andrebbe rettamente applicato egli annoverò anche questo: quando cioè si vegga sostituita una forma ed eziandio

« PrethodnaNastavi »