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né ora, cioè, né in avvenire mai, per un servigio da me, fa maggior uopo a te che espormi semplicemente la tua volontà (senza i fregi di che l'hai testé intessuta).

Attribuendo al nostro verso questo significato, il più non vi si troverà a disagio come, riferito all'avvenire, dovette sembrar nella nostra lezione al Moore (seems almost unmeaning); esso va infatti riferito al passato ed assume cosí tal valore al cui confronto il più della lezion comune apparisce anche meglio ozioso o volgare: non altrimenti appunto che apparisca e volgare ed ozioso l'intero

Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento;

il quale, dopo quel Tacette (Beatrice) allora, ha l'apparenza d'una zeppa o d'una glossa! No, non basta sceglier fra due varianti quella che almeno si capisce; bisogna esaminare anche se un tale significato non sia vano o ignobile o, in una parola, indegno dell'autore; or che figura ci fa cotesto personaggio al quale attribuite il merito poco peregrino di capire che quando Beatrice tacque aveva finito di esprimere il proprio talento, e pur gli fate soggiungerle: "e' non bisogna che tu "me ne dica piú oltre?, No, ripeto, la terzina principiata co' due versi, che fecero dire al Biagioli: "Nulla espressione di desiderio potrebbesi agguagliare a questa,,, deve chiudersi con un crescendo finale, non già con una frase oziosa; e fra il comune non ti bisogna dirmene di piú e il reietto a te non bisogna più oltre ch'esprimermi, come facesti, il voler tuo, senz'allettamento veruno, io lascio scegliere altrui.

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Veniam ora all'ultima, che per noi è la seconda, delle cinque obbiezioni messe innanzi dal Moore. Questi scrive adunque: " un'altra " osservazione in fine (e basterebbe da sé a tagliar di netto la que"stione): la sillaba di piú aggiunta quivi col che rendere impossibile "il verso, ove non si creda di poter accettare quella tronca uo' che ri"corre in alcuni manoscritti La difficoltà stessa avvertivo già anch'io (Op. cit., 1. c.), e soggiungevo che leggendo quivi, col codice Florio, col Roscoe e con altri, t'è opo, non s'avrebbe un'elisione rara e, benché fra due vocali toniche, inusata nella poesia italiana: a non addurre esempi del Petrarca, fra' quali avremmo:

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E s'ho alcun dolce, è dopo tanti amari,...
Per cui ho invidia di quel vecchio stanco,

basterebbe, non foss'altro, quell' uno dell'Alighieri stesso (Canzoniere):

Ma stan sommersi, e lor virtù è nel fango.

Sí ostico riuscirebbe però, anche al men educato degli orecchi, questo

Piú non t'è opo ch'aprirmi il tuo talento,

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che non io vorrò soffermarmi ad esso: credo infatti che Dante non abbia usato qui né uopo né opo, ma bensí uo'; e lo credo pur sapendo che questa forma tronca, o, s'altri dica, questo mozzicone " spaventa "moltissimi, ai quali non riesce poi affatto strano do' per dove, me' per meglio, ca' per casa, fi' per figlio, u' per ove [ubi], o altrettale " scorciamento, e il Ferranti poteva qui almeno ricordare anche il co' per capo. Senza però attingere a' moderni o interrogare l'odierno progresso della filologia romanza, per ispiegare cotesta forma, io credo basti riflettere che la propose forse per l'edizione aldina, nella nostra lezione, il Bembo, e che, a ogni modo e senza verun dubbio il Bembo stesso la recò innanzi nelle sue Prose: non pure, cioè, nel testo della Commedia, ma l'avrebbe voluta e l'addusse, ripetiam col Foscolo, "a "farne esempio di grammatica,,; nel qual senso non pare che né meno il Foscolo l'avesse per sí ostica cosa. (Non credo inutile aggiungere che il codice italiano, n. 73 della Biblioteca Nazionale di Parigi legge: uuo (uvo') ch'aprirmi: debbo la notizia alla gentilezza del signor Auvray).

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Mi spiace ricordare anche una volta i giudizi che sull'Alighieri non si peritò di dettare in pubblico e susurrar in privato quell'idolatra del Petrarca che fu il Bembo; e a me basterebbe limitarli pure a "la forma "di alcuni versi e vocaboli e modi di dire del poeta fiorentino a quel tanto, insomma, cui li vorrebbe pietosamente ridurre, nel maggior suo saggio sul Bembo, il valoroso nostro Vittorio Cian (p. 87 seg.). Ma come dimenticare che, secondo lui, Dante usò nel verso "molto spesso ora le latine voci, ora le straniere, che non sono state dalla Toscana "ricevute, ora le vecchie del tutto e tralasciate, ora le non usate e rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime ? Questo ed altro assai, come mostra il citato lavoro del Barbi, scrisse messer Pietro Bembo verso la fine del secondo libro di Prose della volgare lingua; e gli è pur quel Bembo istesso che in una metà almeno d'Italia e per almeno due secoli fu considerato dittatore della lingua nostra. Or questi è appunto l'unico autore che, per quanto fin qui ne sappiamo, nel corso di ben cinque secoli recasse innanzi, a esempio di bella proprietà dell'italico idioma, cotesta forma tronca o monca che oggi ap parisca o dir si voglia il nostro “uo' col valore di uopo.

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Del resto né il Castelvetro poi, né il Blanc, né il Moore istesso anzi, si ribellarono per sola questa forma, per sola questa reliquia d'uopo, alla nostra lezione. Al quale proposito io chiederei qui licenza di dolermi perché nel citato Textual Criticism of the D. C. non appariscono i due gruppi diversi dei codici che leggono uo' ed huo' semplicemente, oppure integralmente uopo. Que' primi infatti son meglio. che i pochi (same) cui accenna il Moore nel luogo qui a dietro riferito: e che questi non facesse quivi una tal distinzione (rinnuovo le scuse per l'appunto) appar chiaro chi solo ricordi, per esempio, che

l'antichissima correzione dell'uopo aprirmi dà nel cod. Trivigiano uo' c'aprirmi, o, meglio, chi soltanto raffronti le varianti citate nel testo dell'intero Inferno che ci dà il Moore (p. 13) con quelle dell'esame particolare di lui a questa nostra lezione (p. 273). Ce ne duole perché, oggettivi sempre, e in quest'argomento meglio che mai, noi non terremmo in conto veruno quanto siam venuti fin qui ragionando esclusivamente sorretto da criterio soggettivo e individuale codici non confortassero dell'autorità loro la nostra opinione: il che è appunto quel che vogliam ora esaminare.

come

ove i

II.

I CODICI.

Nel testo del 1595 (Firenze, Manzani) gli Accademici, come ho riferito dall'edizione postuma del cavalier Campi (Torino, 1888) citarono la variante al nostro verso, affermando d'averla riscontrata in cinque soli codici. A questo proposito il Witte, là dove accennava agli adoratori del testo di Bastiano de' Rossi e piú specialmente al Perazzini, osservò già nei Prolegomeni all'edizione di Berlino (p. XXII): “ Vi diranno, per esempio: la tavola del Manzani cita cinque codici che " hanno (Inf., II, 81):

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Piú non t' è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

" dunque tutti gli altri 95 [circa cento furono i consultati per quell'edi"zione della Crusca] sono in favore del Più non l'è uopo, ecc.: argomen"tazione che non potrebbe essere piú erronea, e che sta in contrad"dizione colle stesse parole del Rossi, dove egli chiama una milensaggine il mentovare le lezioni da lui credute frivole o scipite od " infra sé troppo discordanti,, (Cfr. però il Barbi, p. 122 seg. e 127 nota).

Non sarà infatti mai a bastanza ripetuto il criterio onde gli Accademici procedettero nell'ammannirci le loro due edizioni (Firenze, 1595 e 1837): "In due lezioni [cosí lo riassunse Fruttuoso Becchi] delle "quali una è chiara e l'altra no, son d'opinione che sia lodevole in"tendimento quello di dare alla prima anzi che alla seconda una pre"ferenza,, (edizione del 1837, p. 15). A cotesto principio il Witte, com'è noto, contrappose l'altro suo: Difficilior lectio potior, con raro acume di critica esaminato poi dal Moore; il quale osservò, fra altro, che un tal principio è " di molto valore se rettamente inteso, ma fa"cile ad essere frainteso ed abusato, (Op. cit., Prolegomena, p. xxxvi); fra i casi però nei quali andrebbe rettamente applicato egli annoverò anche questo: quando cioè si vegga sostituita una forma ed eziandio

una parola o espressione semplice, ovvia e familiare ad un'altra arcaica strana e non usata o poco familiare. Or bene e non sarà questo il

caso nostro, di cotest'uo' che l'uso lasciò cadere ?

Torniamo al Witte. Non è qui inopportuno ricordare il singolar bivio in che venne a trovarsi co' suoi quattro "autorevoli testi a penna, il dantista alemanno: di contro cioè al Santa Croce e al berlinese che gli offrivano la comune lezione uopo aprirmi, il vaticano e il Caetani (almeno per quant'egli allora ne sapeva) riferivano la variante nostra uo' ch' aprirmi. Chi escogitò il principio Difficilior lectio potior non avrebbe dovuto trovar crudele un simile bivio; non v'è alcuno infatti che non abbia per più facile quella tra le due che, per ciò appunto, divenne la comune, anzi la universal lezione: or questa è invece proprio quella stessa che anche il Witte accolse nel suo testo! Vero è che, com'egli seppe da poi, il codice Caetani legge (?) quivi non t'è duo' aprirmi (il De Romanis però, che l'ebbe sott'occhio per la propria edizione, scriveva a questo proposito: " sembra sia stato cassato rità avanti l'aprirmi „), e il Witte sarebbe quindi rimasto con l'auto"il ch d'un sol codice, il vaticano; ma è pur vero che con l'autorità d'uno soltanto de' quattro suoi (ch'è quasi sempre il Santa Croce) egli introdusse nel suo testo moltissime lezioni, ben centocinquantacinque delle quali sono di non lieve valore e, fra queste, io ne riscontrai proprio undici sorrette dall'autorità del solo codice vaticano. Duplice ragione poi egli avrebbe avuto accettando l'uo' ch'aprirmi: anzitutto quella difficoltà d'interpretazione, o meglio inopportunità per il concetto quivi espresso, che vedemmo riscontrarvi i commentatori e critici recenti tutti, non escluso lo stesso Zani de' Ferranti; in secondo luogo quella forma tronca uo' che dovette sembrare un arcaismo al Witte non meno che agli amanuensi. I quali tuttavia (ed è per noi degno di singolare osservazione), se vollero toglierle il carattere antiquato, la mutarono quasi sempre in uopo o, meglio, ne fecero semplicemente una voce piana (per dar posto alla quale, nel verso, si sacrificò il che); ciò prova adunque che di que' tempi codesta forma, oggi tant'ostica, non era quasi mai frantesa: rari sono infatti i codici ne' quali (e parrà all'età nostra assai meno inesplicabile, anzi assai più naturale) quell'uo' o vo' divenne un voglio o vol o anche vorria. Coteste forme del verbo volere appaiono in cinque soli de' 233 codici ricordati dal Moore; ed a que' cinque io posso oggi aggiungere il codice bergamasco (Grumelli) in cui anche il tuo del nostro verso s'è mutato in mio (e non senza ragione, appresso al voglio, poiché non possa uno voler lui stesso aprire o spiegare l'altrui talento), cosí che n'è venuta la lezione, rara quanto poco invidiabile :

Piú non ti voglio aprir lo mio talento!

Ed ora passiamo a vedere quali codici offrono la lezione dell'esa

minato verso da noi difesa: dico quali a bello studio, poiché nei casi in cui la concordanza non sia presso che universale, si dovrà sempre stare all'autorità de' codici migliori e non del piú fra essi tutti.

Benché dal Foscolo al Witte e dallo Scartazzini al Moore, questa osservazione sia stata soventi volte ripetuta io non credo qui inutile soggiungervi un corollario, ch'è frutto de' recentissimi studi su' testi a penna. Se delle due centinaia di quelli che il Moore cita, della trentina di riccardiani consultati già dal Morpurgo per la Società dantesca italiana (Bullettino, n. 13 e 14, giugno 1893) e della ventina di codici veneti a quest'uopo stesso finora da me esaminati, se, dico, di questi dugentocinquanta codici il maggior numero legge, per esempio (Purg., XIII, 3):

Lo nome (monte) che salendo altrui dismala

[Riccardiani 16 su 26], o altrove (ivi, XXII, 105):

Ch' ha sempre le mitrie (nutrici) nostre seco

[Riccardiani 16 su 26; Veneti 10 su 19], od anche (ivi, XVIII, 83):

Pietola piú che nulla (villa) mantovana

[Moore, 102 su 203; Riccardiani 19 su 27; Veneti 11 su 19], o in fine (Inf., XXXIII, 26):

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[Moore 128 su 247; Riccardiani 16 su 31; Veneti 10 su 20 e cfr. BARLOW, Contrib. to the study, ecc., 75 su 147]; se possiam anzi ri. tenere che tali proporzioni non guari in meglio si muteranno quando tutti i cinquecento manoscritti della Commedia siano quivi esplorati, chi vorrà credere che, non pure un testo critico, ma la piú dozzinale tra le edizioni avvenire del poema accoglierà una sola di coteste lezioni?

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Torniam ora a noi. Il Moore prende cosí a ragionare della nostra variante nella sua Collazione e discussione di passi scelti: "Io sono "inclinato a dare un'assoluta preferenza alla lezione t'è uopo aprirmi (omettendo il che), sebbene essa non sia quella del piú tra' mano"scritti esaminati Un solo terzo infatti tra questi la offre settantasette codici leggono cioè l'è uopo aprirmi (o aprire) e centoquaranta t'è uopo ch'aprirmi (o ch'aprire). Ora, se a queste cifre aggiungiamo dall'una e dall'altra parte que' codici che presso il Moore stesso presentano alcun'altra varietà di lezione, ma che all'una o all'altra delle riferite possono ridursi; se vi aggiungiamo quelli che lo Scarabelli consultò per l'edizione del Lambertino, detraendo pure dal suo novero i già citati in quello del Moore; se quest'ultimo novero poi si corregga per quanto riguarda i testi citativi sulla fede altrui (del Sicca e del Viviani, cioè, che il Vivarini, della p. 685 è un error tipografico); se

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