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Se sono in ogni modo poco soddisfacenti, o semplici parafrasi in luogo di vere chiose, quelle stesse del Daniello, di Guiniforto e del Da Buti, i soli che, oltre al Lana ed al Boccaccio, di tutti gli antichi spositori a noi noti, offrirono quivi alcuna dichiarazione, possiamo venturatamente attingere autorità alla nostra lezione dall'opera esegetica di maggior valore che sul poema sacro ci abbia tramandato il secolo. decimoquarto. Benvenuto da Imola, adunque, da noi serbato a bello studio per ultimo, offre quivi la chiosa perspicua e chiara fra tutte le antiche, la sola anzi che, di tutte quante furono mai escogitate, sciolga la difficoltà d'interpretazione che ci veggono tuttodí i critici del poema anche meglio disposti a lasciarsi persuadere dal complesso delle altre convincenti ragioni. Ed ecco qui la chiosa del Rambaldi (1379): "El tuo comandamento tanto m'aggrada, idest tantum est mihi gra"tum. che l'ubidir m'è tardi, se già fosse, idest quod omnis celeritas " videtur mihi tarditas in obediendo tibi; et ideo, piú non t'è uopo ch'aprir lo tuo talento, idest non oportet quod aliud facias, nisi quod aperias mihi tnam voluntatem, quod est dicere: tu habes solum praecipere mihi, facias sic, sine aliqua persuasione. Hoc autem morali"ter figurat quod ratio naturalis debet se subiicere scientiae divinae, et non quaerere rationem 99.

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Non è senza un intimo compiacimento che, nell'edizione dell'illustre mecenate inglese, io lessi questa chiosa, la quale risponde perfettamente a quella ch'io già pubblicai e che oggi ho più ampiamente esaminata. Nella frase di Benvenuto: "tu habes solum praecipere mihi: facias sic, sine aliqua persuasione„, si allude appunto alla cortesia squisita di chi affermi che, per ottener un favore da lui, altri non ha maggior bisogno che di domandarlo, senza blandimento, lusinghe di veruna specie (sine aliqua persuasione) per conseguirlo. Non vuol essere dimenticata a ogni modo la grande autorità che è meritamente e universalmente attribuita o riconosciuta a Benvenuto de' Rambaldi fra tutti gli antichi e moderni spositori del divino poema. De' quali adunque si rimarrebbe forse il solo Boccaccio ad avvalorare la lezione uopo aprirmi, ossia quella lezione che fu sempre e ch'è tuttora accolta, ciò non ostante, dalla comune, dall'universale anzi, delle edizioni!

Or sarebb' egli vero che, dalla fine del trecento, si fosse dovuti venire fino allo scorcio di quest'ottocento, dal commento di Benvenuto cioè fino a questi miei soliloqui, senza che, nel mezzo millennio d'intervallo, a nessuno mai balenasse la soluzione della controversia qui riferita? No, la cosa sarebbe troppo per me lusinghiera, ma anche piú, per la causa che prendo a difendere, pericolosa. Non foss'altri adunque, nel cinquecento almeno, il Castelvetro aggiungeva al luogo qui, fin da principio del nostro esame riferito, questa considerazione: "Egli "è vero che simile lettura [uo' ch'aprirmi], si potrebbe sostenere e ricevere, se noi dicessimo che Virgilio intendesse per quelle parole di

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แ dire che bastasse solamente a Beatrice di scoprire la sua intenzione, senza addurre altra ragione o priego o premio, perché egli s'inducesse a mandarla ad esecuzione; ma perché questo sentimento è alquanto oscuro e uo' non si truova usato né da Dante altrove, né dagli altri, crediamo che Dante in questo luogo non l'abbia usato „. Qui adunque il Castelvetro avrebbe solo per alquanto oscuro, secondo la nostra lezione, quel sentimento stesso che poche righe prima egli aveva detto ne uscirebbe fieramente guastato.

Ora, quant'all'uo', che non pare più leggiadro a me che agli altri, e' si dovesse pur ricorrere all' &лağ leyóuevov, dopo quanto siam venuti esponendo bisogna far tacere il gusto e il criterio individuale per inchinarci al maggior fattore della nostra lingua. Rispetto poi al sentimento alquanto oscuro, ammesso che sia pur tale, e' non potrebbe se non contribuire, insieme con quella forma grammaticale, che riconosciam unica e non soltanto rara, a farci ritenere come veramente genuina la nostra lezione, che presenta adunque e novità di forma e oscurità di con

tenuto.

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Virgilio insomma, anche a giudizio del Castelvetro viene a dire a Beatrice: "basta solamente che tu scopra la tua intenzione; perch' io m'induca a mandarla ad effetto, non fa uopo a te addurmene ra"gioni rivolgermi preghiere o prometter premi,; ed è quel di Benvenuto: "tu habes solum praecipere mihi facias, sine aliqua persuasio"ne ! Sarebbe adunque oscuro questo sentimento?

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Io penso che al Castelvetro repugnasse per l'una parte darla vinta al Bembo e metter in evidenza l'eletto pregio della espressione di Dante (al quale non meno che al Bembo, egli s'industriò sempre di contraddire) e per l'altra parte credo gli dolesse apparir di tanto inferiore alle difficoltà che via via e' si doveva creare ne' testi da lui presi in esame. Credo altresí che il Castelvetro non si lasciasse indurre a confessare d'aver veduto in alcun libro la nostra lezione senz'aver meditato l'effetto e il valore di questa confessione, senz'aver anzi più volte e assai ben a dentro meditato il sentimento ch'essa potesse contenere, poiché molti libri concordemente la riferivano; e credo, per ultimo, ch'egli conoscesse il commento di Benvenuto a questo luogo dantesco.

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Il Muratori infatti scriveva nella pregevole sua vita del Castelvetro (Opere critiche, Lione, 1727, p. 74): "Trattò egli inoltre co i Giunti, stampatori rinomati di quel tempo, consigliandoli di voler dare alla “luce il vasto commento latino di Benvenuto da Imola sopra la Commedia di Dante, che n'avea trovato un buono antico testo presso i "Canonici di Reggio di Lombardia

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Che piú? Se al Castelvetro anzi non avesse fatto velo il maltalento ond'e' imprese a dettar le Giunte al Bembo, io credo che, nel luogo riferito almeno, noi leggeremmo un ben diverso giudizio. Vero è che

dove, nelle sue Prose critiche, ragionò spassionatamente sulla origine delle voci ave ed avete, sostenendo ch'essa va cercata nel latino avere per desiderare affettuosamente, egli scrisse (p. 127): "le predette due voci... l'usano i minori verso i suoi maggiori; quando, presentandosi " loro davanti, s'offeriscono presti ad ogni loro comandamento e desi"derio, dicono: ave desidera e avete desiderate, che io son presto, o "noi siam presti a mandare ad esecuzione i tuoi o i vostri desiderj, "siccome Eolo a Giunone appo Virgilio:

แ Tuus, o regina, quod (sic) optas explorare labor: mihi jussa capessere fas est.

"E Virgilio a Beatrice:

"Tanto m'aggrada il tuo comandamento,

"che l'ubbidir, se già fosse, m'è tardi;

แ piú non t'è uo' (cosi) ch'aprirmi il tuo talento "1.

E poiché l'error tipografico non raggiunge sciaguratamente mai questo limite e poiché il valore dell'esempio sta qui unicamente nella variante nostra, è proprio vero che il Castelvetro scrisse cosí, benché sia un ver ch'ha faccia di menzogna!,

Or dunque ov'è il nostro formidabile avversario? e qual è il Castelvetro che dettò queste filologiche osservazioni? Gli è chiaro: non piú il pedante inquisitore delle Giunte al Bembo e della Sposizione di Dante, per la quale bisogna ricordare ch'ei seguí senz'altro il testo aldino; egli è bensí il sereno e dotto maestro di retorica, il filologo ed artista spassionato che quando non si lascia vincere a' preconcetti fa dimenticare e dimentica sé stesso. A me preme di metter in evidenza poi che chi ragiona ora è altresí l'erudito il quale, non sodisfatto delle stampe, ha avuto ricorso ai manoscritti, e confessa adunque esser questi assai piú e assai meglio di quell'alcun libro che soltanto egli affermava offrire la nostra lezione; e fra le superbe edizioni che la respingono insomma e i codici modesti che l'offrono, il censore è vinto dal poeta.

CONCLUSIONE.

Qui debbo anzi tutto a me stesso una giustificazione: dico a me stesso, poiché, sebbene io abbia usato di frequente il plurale maiestatico (e il faccio sempre per accomunarmi, non già per impormi, altrui), vero è ch'io non ispero lettori al mio soliloquio; né se pur lo degneranno d'uno sguardo, mi lusingo che gli editori ed interpreti avvenire del poema dantesco vorranno convincersi del dirizzone quivi preso dagl' interpreti e editori passati e trapassati: tanto l'abitudine di veder a un modo le

cose e di seguir la corrente comune, alla lunga diventa in noi una seconda imperiosa natura. Debbo quindi a me solo una giustificazione e mi chiedo: perché mai cosí lungo discorso, s'è vero che, rispetto agli effetti,

Senza speranza vivemo in disio?

Non ho che una risposta: dinanzi all'universale de' valentuomini d'ogni tempo che poser mano alla maggior diffusione del poema sacro e che alla miglior interpretazione di esso poser gl'ingegni, non potevo persuadermi d'esser nel vero io solo; m'industriai adunque e soltanto di convincer meglio me stesso che tutte le prove interne ed esterne concorrevano a giustificare la scelta della variante e la dichiarazione del testo altra volta da me offerte e difese (Op. cit., 1. c.). Riassumiamo, ora infine, e chiudiamo.

Quelle lodi che Beatrice rivolge in una mirabile apostrofe a Virgilio, appena apparsagli e che gli promette anche maggiori presso Dio, esigono dalla modestia del poeta latino un cenno di risposta; gareggiando questi adunque di cortesia con la donna beata e bella, all'esordio di lei risponde con un altro ispirato a non minor ammirazione e, dettosi cosí disposto all'obbedienza da sembrargli averla già ritardata, dichiara quindi tosto soverchia la lusinghiera perorazione di Beatrice, dichiara cioè che, per un servigio da lui, essa non ha maggior bisogno ch'esprimerne, senza blandimento veruno, il desiderio. All'accenno di Virgilio a Marzia (Purg., I, 83):

Grazie riporterò di te a lei,

Catone risponderà con più che romana rigidezza:

non c'è mestier lusinghe;

bàstiti ben che per lei [Beatrice] mi richegge:

non guari diversamente, alla lusinghiera frase di Beatrice:

Di te mi loderò sovente a lui [Dio],

Virgilio risponde col gentile:

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

e viene quasi a dire anch'egli: Bastiti ben che.... per te mi richegge. A ogni modo quanto freddamente e oziosamente chiude la terzina dan

tesca il

Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento

della lezione comune, altrettanto aggiunge di calore e d'efficacia quel

vero crescendo finale ch'è la lezione reietta

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento!

L'ostracismo però non fu inflitto alla nostra variante, perchè essa sembrasse priva di un significato, ma perché i critici e gli editori del poema credettero riferirla a quel che segue, dove, naturalmente, non è più traccia veruna del talento di Beatrice; e' dovevano adunque, come in quel d'Eolo a Giunone (Eneide, I, 80) da loro citato, e come in quel di Catone a Virgilio (Purg., I, 87), e' dovevano riferirla a quello che precede. Non bisognava a ogni modo dimenticare che, forse dal solo Boccaccio infuori, l'avevano accolta se non sempre chiaramente intesa, tutti gl'interpreti antichi oggi conosciuti; che anzi l'aveva accolta e dichiarata con perspicua chiosa fra tutti Benvenuto da Imola, il quale basterebbe da solo a darle oggi irrefutabile autorità: che per ultimo e Benvenuto e (a non tener conto pure del Daniello) il Lana e il Buti e il Bargigi, i quali precedettero di tanto le edizioni del poema, ebbero a dettar i commenti loro di sui codici fra' quali scelsero certamente i migliori. Si aggiunga che nella proporzione del settanta su cento i codici offrono la variante qui esaminata, non ostante ch'essa presenti una forma rarissima (se non anche un aлağ λɛyóμevov) ed una non ovvia interpretazione; s'aggiunga anzi ἅπαξ λεγόμενον) che in quel maggior numero di codici pare certo si debbano annoverar sempre, come vedemmo, i piú autorevoli per l'età e l'originaria purezza del testo, e si converrà con noi nell'atto di suprema meraviglia per l'ostracismo imposto sempre dalle edizioni tutte della divina Commedia alla lezione

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.

Ed ora oserei chiudere consigliando a chi, in Italia e fuori, medita sul vagheggiato testo unico del poema di Dante d'accogliere fra' tant'altri e sapienti canoni di critica già escogitati, anche quest'uno: La lezione che, pur presentando rarità di forma e difficoltà d'interpretazione, ricorra nel più e meglio de' codici ed interpreti antichi, ove non apparisca evidentemente errata, in aspettandone l'Edipo, s'accetti intanto ad occhi chiusi !

Bergamo, nel luglio del '94.

A. FIAMMAZZO.

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