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Nostra: Del latino, dell'italiano e del provenzale fa tutt'una lingua (Tommasèo). Pedagogo: Dante, di fronte a Virgilio, si considerava quasi fanciullo sotto maestro; e piú volte si paragona a fanciullo. (Inf., XXIII, 13-14; Purg., XXVIII, 15; Par., XXII, 1) (Tommasèo). 3 Atteso: attento.

4 Pietola. Vi nacque Virgilio.

5 Si noti qual crescendo meraviglioso di affetto e di amore, fino a raggiunger l'apice, di mano in mano che si avvicina il momento, in cui Virgilio sparisce.

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1 Fortunata ai Romani che a Zama vinsero l'eterno nemico, Annibale, e misera a Cartagine. - Gloria. Scipione scrivendo al Senato: Vinsi tutta l'Africa, non ne riportai che la gloria. Ereda: erede.

-

Chieti, 1894.

L. BETTINI.

POLEMICA

A proposito de l'accidioso fummo, la bestialitate e le nuvole d'agosto.

Chi à fatto il male dee fare la penitenza. Ed io che mi sento reo di avere fin dal primo Quaderno di questo giornale, con la recensione di un Opuscolo del Faucher, suscitato tutto il vespaio ch'è sorto a proposito delle espressioni dantesche su riportate, è naturale che subisca ora la gragnola degli articoli che mi piovono in capo e deva anche sobbarcarmi al necessario compito di ripararmene. Ma lo farò nel modo piú sbrigativo che mi sarà possibile.

Comincio da le nuvole d'agosto che in quella recensione entravano semplicemente per incidenza. Ecco qui un altro di quei luoghi (come il s'adagia del c. III, v. 111, dell'Inferno di cui ebbi testé a intrattenermi) nei quali una maggior cognizione degli scritti danteschi avrebbe forse evitato altra inutile novità, qual è il ritorno alla dimenticata lezione Nidobeatina che nel 5° Quaderno p. 226 ci ammanní il Funai leggendo:

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Per restar fedeli alla volgata sarebbe forse bastato aver letto le Postille del Monti al Biagioli, i Venticinque appunti del sottoscritto, e l'edizione dell'Àncora da me allegata nel 3o Quaderno p. 127; dove però (sembra un destino) il tipografo mi fa ancora parlare dell'Ancona; come, per lasciare altre minori inavvertenze, mi fa ne la 3a linea scrivere un la quale in luogo di e quale; piú giú, trascorse in luogo di trascorsi, e a pag. 129 linea 18, doverla invece di dover lo.

E dico che sarebbe bastato, giacché nulla mi sembra ancora potersi opporre alla interpretazione che scaturisce evidente dal verso della volgata letto con la debita interpunzione:

Nè Sol, calando, nuvole d'agosto,

e cioè, né vidi, in sul tramonto, rimanendo il Sole nascosto dietro le nuvole estive, raggi di esso escire così rapidamente da strappi formatisi entro le nuvole stesse.

La lezione Nidobeatina invece, tradotta secondo sintassi e come pur fa il Funai: Io non vidi mai lampeggiamenti fendere il sereno, così rapidi sul far della notte, o sul far della sera di una giornata d'agosto, quando il Sole cala fra le dense nuvole afose, porterebbe la contraddizione che anche i lampeggiamenti, che si verificano Sol calando in nuvole d'agosto, fenderebbero il sereno. Vi si rimedierebbe, è vero, supponendo che i lampeggiamenti fossero da una parte, e le nuvole dall'altra; ma oltreché il fatto di quei lampeggiamenti mi par si verifichi piú frequente appunto nella nuvolaglia, verrebbe poi il poeta a introdurre senza vantaggio, una circostanza del tutto estranea alla similitudine; e sarebbe poi sempre singolare la enunciazione di un fenomeno svolgentesi, prima Sol calando, e poi ancora Di prima notte, senza che si veda quale speciale caratteristica i due successivi momenti aggiungano al fenomeno stesso.

Il Lombardi aveva invece cercato di riparare, facendo Sol oggetto, anziché ablativo assoluto, e sottointendendo, né Sol d'agosto in nuvole calando fendere esse nuvole; ma come dicono i veneziani, xe pezo el tacon ch'el buso. Resta però che dalla sua interpretazione prende pure le mosse quella che, salvo la variante del testo e della sintassi dovrebbe, a mio avviso, essere co

munemente accettata; e per cui la intera similitudine, nella prima parte riferirebbe agli aeroliti (che anche altrove Dante descrive trascorrenti per li seren tranquilli e puri), e per l'altra, ai raggi di Sole sfuggenti di tra le nuvole del tramonto; e avrebbe anche il vantaggio di potersi con maggiore esattezza applicare al fatto dei due messaggi, i quali per tornare alla loro comitiva si dirigevano in suso, appunto come talvolta vediamo e aeroliti e raggi solari tendere verso l'alto. Son quindi lieto che vi si accosti, benchè in linea subordinata, (riproducendo quasi un suo Studio pubblicato nell'87 a Matelića da Tonnarelli), Valerio Scaetta nell'o. e 12o Quaderno a p. 559; il quale però non avrebbe che a fare un passo per accostarvisi del tutto, ove rifletta che la versione da lui proposta in linea principale, per cui, se ho ben compreso, tratterebbesi del Sole che dissipando le nuvole le fa fendere il sereno, ci darebbe fenomeno di una durata troppo più grande e indeterminata, che non abbia l'altro gemello, dei vapori accesi.

Argomento cattivo in causa buona mi pare poi anche il suo, contro Sol calando, preso come ablativo assoluto, che di questo Dante non abbia che un es. al 46o,109: Noi volgend' ivi le nostre persone. In ogni caso, anche uno basterebbe. Ma il fatto è che sono invece parecchi : cito quelli che mi vengono a mente:

170 III Gridando il padre a lui

320 105 Latrando lui

47° 114 Già discendendo l'arco

94° 20 chè, dicendio.

Ben vero che qui il soggetto non è preposto al verbo, come in Sol calando; ma che ciò sia per Dante indifferente, lo prova anche altro es. analogo, al 61o 40 Così, la mia durezza fatta solla. Nè è ciò del resto di che par preoccuparsi lo Scaetta: il quale non vedo neppur bene che forza annetta a quel che soggiunge, non trovarsi in Dante altro ablativo assoluto nel senso di Sol tramontando. Stando alla lettera, sarebbe piuttosto a meravigliare che vi si trovasse.

E neppure mi persuade il mettere ch'ei fa alla rinfusa esempi di gerundi riferiti al soggetto e all'oggetto (e potea aggiungere anche, al complemento), in quanto che, dei primi la costruzione è ovvia e tuttora usitata, degli ultimi no, e a giustificarla devesi, come il Direttore m'insegna a p. 565, prendere il gerundio come un participio presente. Così al

18o 64 Così parlando il percosse un dimonio, vale quanto, sic loquentem.

19o 53 Questi m'apparve ritornando in quella, mihi redeunti.

31° 14 Che contra sé la sua via seguitando Dirizzò gli occhi miei tutti ad un loco, contra eum viam eius prosecutos

45° 7 Lo monte che salendo altrui dismala, hominem ascendentem

85° 47 Com'occhio segue suo falcon volando, in una comitiva di caccia, l'occhio di ciascuno segue il suo falcone che vola

87° 81 Tempo aspettar tacendo non patio, non soffrí ch'io aspettassi tacendo, me non tulit expectare tacentem: ov'è anche possibile però che si l'aspettar che il tacendo siano detti del dubbiar (al modo che il suo di falcon vedemmo testé riferirsi non a l'occhio ma a quello cui l'occhio appartiene), o che l'aspettar si riferisca al dubbiar e il tacendo ad io sottinteso (con che si avrebbe un ablativo piú assoluto ancora di quelli sopra schierati); come ad io sottinteso anziché a guance precedente, potrebbe egualmente riferirsi il lagrimando al 64° 54 Che lagrimando

non tornasser adre.

Ma l'episodio è già troppo lungo; ed è tempo oramai di uscire da questo spinaio grammaticale e tornare alla seconda parte del nostro argomento.

Nel 6o Quaderno, a p. 252, in una splendida rassegna delle colpe e pene infernali dello Zingarelli, e di nuovo poi in un lungo articolo del chiarissimo professore Giorgio Trenta (p. 513 a 551 dell' 11-12 Quaderno), vedo prender di mira la variazione da me ed altri difesa al VII, 123, Inferno di accidioso in invidioso fummo (V. il Giornale A. I. p. 33 e 125). A dire il vero, io non tenni troppo alla proposta sostituzione, dacché rilevai dal Betti (il luogo ora piú non rammento, ma egü lo conferma poi ne le sue Postille), che su quel d'Ancona e Urbino accidioso sta per fega

toso, bilioso, atrabiliare; e ne allega anche un testo di lingua non citato dalla Crusca che dice, colla faccia turbolenta e accidiosa: e me lo confermerebbe anche il Giordani, il quale, quando era a Ferrara nel 1803 Segretario Generale del Dipartimento del Basso Po (e da Ferrara, si ricordi, venivano pure gli antenati materni di Dante) si sentí accusare di essere accidioso coi subalterni (Opere edite dal Gussalli, t. 13° p. 312). Si tratterebbe in conclusione, come bene avvertí lo stesso Trenta a p. 545, di due diversi accidioso che vi sarebbero nella lingua; l'uno, dialettale, e deriverebbe da àcido (onde lo scriverei con un c solo); l'altro, scolastico, e deriverebbe dal gr. xxix che vale noncuranza; una cosa, come si vede, non troppo lontana dalla indolenza e pusillanimità relegate nel vestibolo infernale.

Ed è per ciò che quello in ogni modo a cui credo logico di dovermi tuttavia attenere si è, che quell'accidioso fummo deva pure in ultima analisi riferirsi, non agli accidiosi propriamente detti, che, volta e rivolta, e ad onta dei fiumi d'inchiostro versativi sopra, mi sembra pur sempre siano unà sbiadita ripetizione degli ignavi, e che lor male si attagli la qualifica d'incontinenti, che val quanto, passionali; non a un sottordine degli irosi, che sarebbe al tutto arbitrario; bensì agli invidiosi semplicemente incontinenti, a quelli cioè cui il mal germe d'invidia non portò fino ad operare il male del prossimo, come fecero gli altri che sparsamente vedonsi puniti dentro de la città roggia, ma che si limitarono a guastarsi il sangue alla vista del bene altrui, ai misantropi, ai rabbiosi impotenti, a tutta insomma quella caterva di malcontenti, rancurati e fastidiosi, alla quale i romagnoli avrebbero dato, o darebbero forse ancora, l'epiteto di acidiosa. E la ragione principale la trovo anche in questo che se dovesse riferirsi ai veri accidiosi, Dante verrebbe a presentarci questi, meno gravi (come desumesi dalla loro collocazione in Purgatorio in maggior prossimità del cielo), dopo degli irosi, più gravi, contrariamente a l'ordine da lui costantemente tenuto in Inferno di procedere sempre da colpe più lievi a maggiori.

E qui per incidenza mi si passi qualche rilievo occorsomi alla lettura dell'articolo del Trenta A p. 517 non mi apparve la opportunità, a proposito degli indifferenti, di tirare in ballo il buon Dino Compagni. O se anche è vero che questi amava la pace, e Dante invece la guerra, può venire in mente a nessuno di collocarlo per questo tra gli indifferenti, quando egli per la pace appunto tanto ebbe ad adoperarsi? O non è lecito al contrario immaginare che al buon Dino dovesse pensare lo stesso Dante quando trovossi al punto che l'una parte e l'altra ebbe fame di lui (15° 71), ma a lui fu bello Aversi fatta parte per sé stesso (84° 69)? A p. 521 non gli è sovvenuta una buona ragione per escludere che i mosconi e le vespe dei cattivi possano essere, come suppose il Bartoli, diavoli trasformati; e sarebbe quella, che i diavoli lí ci son già, e bene appropriati al luogo, mischiati cioè a l'altre ombre, senza autorità su loro, da vili ch'ei furono, e sono per lo appunto quel cattivo coro Degli angeli, che non furon ribelli, Nè fur fedeli a Dio ma per sé foro. A p. 528 non vedrei bisogno di arzigogolare da capo sulla nudità degli sciaurati, dal momento che, come già avvertii a pag. 126 del Giornale, tranne quelli in cui l'abito è pena, e tranne i sospesi del Limbo che come i beati, della luce di gloria celeste, son rivestiti delle insegne della gloria loro terrestre, tutti son nudi gli spiriti, in Inferno come in Purgatorio.

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Un'altra cosa sulla quale non posso a meno di mantenere la mia opinione si è nel dare alla bestialità del v. 82, XI, Inf., Incontinenza, Malizia, e la matta Bestialitate, il significato di violenza. Lo Zingarelli, d'accordo in ciò (non peró ne l'invidïoso) col Faucher, vorrebbe a p. 261 intendere il tradimento; e alla p. successiva ne farebbe un tutt'uno colla superbia, assegnando alla invidia i violenti e fraudolenti. Ma senza ripetere le ragioni da me già svolte a p. 34; senza far caso di talune inesattezze in cui l'autore è caduto, come dove fa provenire da malizia ogni ingiuria (mentre Dante fa all'opposto provenire da ingiuria ogni malizia), o dove proclama più colpevole chi usa la frode in chi non si fida che in chi si fida; è agevole il vedere lo scompiglio che quel voler fare un tutt'uno dei superbi coi traditori, e degli invidiosi coi violenti e fraudolenti in un fascio, produce in tutta la macchina dantesca.

Né mi pare sia una obiezione convincente quella desunta dal precedente v. 22: D'ogni malizia ch'odio in celo acquista Ingiuria è il fine, quasiché dicendosi qui malizia in senso comprensivo di violenza e di frode, non potesse poi la Malizia del v. 82 prendersi nel solo di frode (ch'è

il mezzo appunto col quale, nel mio sistema, si riesce a far sì che in quella enumerazione dei v. 82, 83 sien comprese e corrispondano tutte le colpe dello Inferno dantesco, e così, alla protys, • feritas, o bestialità, di Aristotile, non rimanga possibile che il solo significato della violenza). Ma, oltrechè sono comunissimi gli esempi di voci a due sensi, uno più largo e l'altro più ristretto, e alla voce, malizia, quei due sensi possono benissimo attagliarsi anche oggidí; a uno eguale inconveniente non isfuggirebbe del resto neanche la interpretazione avversaria, in quantochè nel 1o luogo malizia comprenderebbe anche il tradimento, nel 2° invece lo escluderebbe.

E nemmeno posso consentire nella opinione dell'autore, che nei v. del III, Inf., 46: Questi non anno speranza di morte E la lor ceca vita è tanto bassa Che invidiosi son d'ogni altra sorte, Dante intendeva della condizione degli ignavi non solamente in quel luogo ma anche in vita (p. 256. Ma alla seguente dirà invece che qui si parla di ciò che soglion fare queste persone nel mondo, non di ciò che fanno e pensano nell'Inferno). Se mi dirà che la condizione dei dannati nell'Inferno possa valere talvolta quale allusione alla loro condizione nel mondo, lo ammetterò ben volentieri; ma che a una espressione unica, come questa, invidiosi son d'ogni altra sorte, devano corrispondere contemporaneamente due concetti al tutto diversi, l'uno, furono invidiosi d'ogni altra sorte in vita, l'altro, suno invidiosi d'ogni altra sorte quaggiù in Inferno; o peggio, che a son devasi in tutto sostituire mentalmente il significato di furono, escludendo quello di sono, è ciò che non arriva in alcun modo a persuadermi.

Ma riesciranno poi a persuadere i lettori, queste mie sconnesse considerazioni? O non otterranno un effetto che io sono ben lontano dal desiderare, confermare cioè in molti la persuasione, essere Dante un autore troppo oscuro, dal momento che à bisogno di tanti comentaril? Riflettano però costoro, che non è Dante il più spesso che à bisogno di comentari, ma è che di niun autore come di lui si sentí il bisogno di penetrare nel midollo, di scrutare ogni più riposta significazione; e che il 50 ° dei comenti si riduce a una gratuita, superflua sostituzione dei concetti del comentatore a quelli dell'autore. In questo caso spero mi valga a difesa l'aver cercato di cavare da Dante unicamente i mezzi d'interpetrarlo; e che alla insistenza ne' miei pensamenti mi sia scusa il desiderio che solo mi anima, che almeno nei punti piccoli, ove l'analisi riesce circoscritta e quindi più facile, i disaccordi fra dantisti possano via via ridursi alla minima espressione.

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per la cagion ch'a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali.
Ond' io che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio,
se non col cuore, alla paterna festa.

Cosi Dante nel Paradiso al c. XV, v. 73-85.

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