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Il qual luogo si completa, dirò così, con quell'altro del IV:

Così parlar conviensi al vostro ingegno
perocchè solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d'intelletto degno.

L'intelligenza umana è legata all'esperienza, al senso: e però l'uomo, incapace d'intendere gli alti misteri, ha bisogno di simboli sensibili per intuire ciò che è sovrasensibile. È un' incapacità che doveva esser dura all'anima credente e assetata di soprannaturale dell'Alighieri. Né solo il pensiero, ma pur la parola, che non è che un simbolo, una delle tante forme di espressione, per la loro comune origine sensibile, si trova in questa insufficienza. — E, come la mente non può assurgere agli alti misteri dell'essere se non per mezzo del senso, cosí la parola è incapace ad esprimere compiutamente ciò che l'animo sente. Ah! Le debolezze, le infelicità delle anime grandi! Sì, poiché se il poeta attribuisce a tutti i mortali ciò che egli sente, non è poi vero che ogni mortale senta in egual misura questa incapacità. Certo, nel caso, per esempio, del canto XV in cui Dante parla del sentimento di gioia provato alla vista del suo trisavolo, il poeta descrive un fatto universale. Qual voce, qual suono renderanno degnamente il sentimento di un'anima rapita dalla gioia o dall'entusiasmo?

E a tal difetto infatti suppliscono altre più eloquenti espressioni, per esempio il bacio e l'abbraccio, oppure altri simboli esteriori. Ma ad altro, come già fu osservato, certo alluse anche il poeta. La parola, cioè, si troverebbe in difetto rispetto al pensiero, sarebbe, ad esso sproporzionata. Vediamo il valore di questa sentenza.

Un'incapacità descrittiva rappresentano, senz'alcun dubbio, la metafora e l'immagine. Se l'uomo possedesse nella parola una maggior virtù descrittiva, non ricorrerebbe a questi spedienti per ritrarre ciò che è nella sua mente. E qui vengono di nuovo a capello i versi di Dante, che l'umano ingegno

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La parola, cioè, in origine non esprime se non ciò che è sensibile e, siccome essa è per tre quarti lavoro di popolo, anche il pensatore deve ricorrere per forza all'istromento che il popolo gli offre, e adopera vocaboli che esprimono cose sensibili per descrivere le immagini della sua mente.

La sproporzione tra il pensiero e la parola è dovuta, in gran parte, al fatto dell'infinita varietà che ha il pensiero degli uomini, fatto che è insieme causa ed effetto dell'evoluzione della parola. L'uomo superiore manipola il materiale linguistico offertogli dalle masse in vario modo per servirsene ai suoi fini. E cosí talora sente il bisogno di far rivivere un vocabolo di una lingua morta, per supplire al difetto in cui si sente. Da tali varie funzioni della parola, essa acquista quell' indeterminatezza che è, alla sua volta, causa

della sua continua evoluzione ideale'. In questo senso, nel senso, cioè, dell'incontentabilità che ogni uomo d'ingegno sente di fronte al materiale linguistico di cui dispone, incontentabilità che, è, del resto, come sempre, causa di progresso, parmi vadano soprattutto intese le parole di Dante.

Ma la questione si presterebbe a maggiori riflessioni; e però, per non andar troppo per le lunghe, faccio punto.

Aosta, 7 di giugno 1894.

LEONE LUZZATTO.

Ancora a proposito del verso "Batte col remo qualunque s'adagia,

Il museo civico di Padova, erede della ricca biblioteca del dottore Agostino Palesa, ammirevole figura di raccoglitore e di erudito, che io mi propongo, quando che sia, di illustrare il meglio possibile, ne conserva anche le carte manoscritte delle quali sto ora esaminando minutamente quelle che si riferiscono a Dante.

Fra esse sono 319 fogli volanti che l'ordinatore dei manoscritti raccolse sotto il titolo: “La divina Commedia di Dante Alighieri: Commenti filologici tratti da diversi autori per Agostino dottor Palesa.

E di fatto la maggior parte delle note alla Commedia sono tratte da questo o da quel commentatore, non dirò per ora se sempre con finezza di criterio, o, più volte, per studio di novità, non sempre felice nella scelta. Del Palesa come bibliofilo e come erudito scriverò, ripeto, altra volta.

Fra i commenti altrui ce ne sono però parecchi anche dell'autore, contrassegnati con l'iniziale P. E appunto tra questi trovai una nota forse alquanto importante per la storia delle interpretazioni, e che riguarda appunto il

Batte col remo qualunque s'adagia;

L'indeterminatezza di significato nelle parole ci risulta anche se osserviamo a quale diversa funzione è adoperata una stessa parola nei vari dialetti. Qui si manifesta il fatto di una continua, dirò cosí, ripercussione esercitata dalla parola sul pensiero, di un continuo mutuo rapporto che passa tra essi, per cui l'essere, per esempio, in un dato dialetto adoperata una stessa frase a due diversi significati ottunde, nella mente di chi l'adopera, la differenza esistente tra i due significati, mentre altrove invece, essendo maggiore la distinzione data dall'uso, si affina anche nella mente la distinzione del significato. Questo si osserva specialmente paragonando l'uso di regioni dove il senso della parola è squisito, p. es. la Toscana, con altre dove è meno squisito, p. es. l'alta Italia. In Piemonte, p. es., dove chiamare (ciamé) significa tanto chiamare quanto chiedere, domandare, volgarmente è attenuata molto, se non scomparsa, la differenza fra i due diversi significati, e per molti è uno sforzo capire dove va adoperato in italiano chiamare e dove chiedere. Ciò valga anche per l'uso del passato prossimo e del passato rimoto, distinzione propria alla Toscana e all'Italia centrale, mentre l'alta Italia non conosce che il passato prossiIl che, del resto, dimostra, una volta di più, come per i vocaboli che non hanno propriamente un significato concreto, la differenziazione di significato sia molto elastica e incerta piú che non paia, il che è, alla sua volta, causa dell'evoluzione ideale delle parole.

mo.

del quale, dopo gli studi dell'Antognoni, ebbero ad occuparsi in questo pregevole periodico il Maruffi, G. Senes e il Nottola.1

Il sig. Senes, che si dice un dilettante in fatto di coltura e di studi danteschi, proponeva, con una franchezza che confinava con l'audacia, non tanto per il fatto in sé, quanto per il modo nel quale egli tratta i poveri chiosatori del poema, che il verso in questione si interpungesse così:

Batte col remo, qualunque s'adagia;

spiegando (son sue parole): " Caron dimonio.... batte col remo (le onde); 66 qualunque (ognuna di esse) si adagia (si pone a sedere)

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A lui rispose convenientemente il Nottola, mostrando l'assurdità della lezione, e il conte Passerini, direttore del Giornale dantesco, in una sua noterella. Il curioso però si è che dessa lezione non è neanche del Senes ma molto più vecchia: quanto, non so, certamente molto più. Ecco infatti la nota del Palesa che trascriverò tutta.

"Il Bargigi spiega l'adagiarsi per tarda al montare ed ottimamente. "Ci fu chi volle l'interpunzione così:

"Batte col remo qualunque s'adagia:

"e spiegò: dà del remo in acqua, ogni anima si accomoda, si colloca nella "barca, come se fossero donzellette mosse a partita di piacere.

"Io vorrei più tosto leggere l'ultimo verso così;

แ e intenderei

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"Batte col remo quale unqua s'adagia :

percuote col remo le ombre se taluna per avventura è tarda " al montare, ciocchè parmi più confacente all'altro passo:

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Lascio di discutere la lezione proposta dal Palesa: quale unqua; in fatto di emendamenti jure cervellottico se ne possono proporre moltissimi, ma solo i codici risolvono la quistione; né so che codici di Dante possono in tal caso concedere un simile diritto a licenza. Né saprei neanche chi sia quel commentatore dal quale il Palesa tolse il verso con l'interpunzione e la chiosa sopra accennate; forse nel corso de' miei studi, spero di giungere a scoprirlo. Questo basti fermare che nella proposta del sig. Senes nulla c'era di nuovo, chè anzi a più vecchi di lui essa era apparsa inaccettabile.

Padova, nell'aprile del 1894.

GILDO VALEGGIA.

1

Giornale dantesco, anno I, quaderni III, V, VII e X.

VARIETA'

DANTE ISTERICO.

Sempre caro Passerini,

Eccomi a Lei, di nuovo. Su la Gazzetta letteraria di Torino, 1893, n. 47, ho letto l'articolo del Lombroso su La nevrosi in Dante e Michelangelo. Al discepolo or sottentra il maestro, ed io torno con piacere su tale argomento, perchè mi ci diverto.

Il Lombroso, facendo studî speciali su l'origine e quindi su « la patologia del genio » (Homme de Génie, come dicono i francesi), si è naturalmente soffermato su Dante, ed ha notato che nell'Inferno sono frequenti le cadute, com'è proprio degli epilettici; nel Purgatorio predomina la forma delle visioni, com'è proprio de' sonnamboli; e nel Paradiso l'estasi, com'è proprio degli allucinati. Quale si è la conclusione? Il Lombroso ne deduce lo stato nevrotico o patologico, ch'è quanto dire epilettico o convulsivo, e sempre psichico di Dante.

Il Lombroso ne parla come se il divino poeta realmente fosse stato all'altro mondo in anima e corpo. Per tal mo', turbando l'ordine delle cose, egli scambia un lavoro d'arte o di fantasia con la realtà della vita. È vero che 'l poeta, in un lavoro anche fantastico, riproduce tutto sé stesso; ma è sempre un lavoro di arte, in cui le facoltà dello spirito sono perfettamente equilibrate, onde poi la bellezza e l'armonia. Se disquilibrio mentale vi fosse stato, invece di attenuarsi, avrebbe dovuto crescere a dismisura, come l'anima del poeta, su le ali della fantasia, piú s'adergeva ne' cieli. Invece, il Lombroso medesimo osserva che «nel Paradiso, sia per la maturità, sia per l'argomento, la sua musa s'era fatta misurata. »

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Sopra lor

<< Trattando l'ombre come cosa salda» (Purg., XXI, 136), e però camminando vanità, che par persona» (Inf., VI, 36), mi pareva che 'l famoso frenologo avesse le vertigini; sicché, nel silenzio della solitudine, mi son domandato: Ma, di grazia, il nevrotico o l'epilettico chi mai sarà: Dante forse, o il Lombroso? ei che scorge la festuca nella pupilla altrui, e non vede la trave negli occhi suoi? La risposta a chi legge.

Né so comprendere come il Lombroso, che dà del mattoide a tutti (né solamente poeti, ma anche scienziati e naturalisti di fama mondiale, come, ad esempio, il Darwin), non abbia notato un'altra cosa, essenzialissima in Dante, e che gli sarebbe valso l'onore d'una scoverta. Dante, di fatto, qualche volta dorme o riposa, ma non mangia, né beve mai. Eppure la sua peregrinazione pe' tre regni della eternità cristiana, durò dieci giorni: come, dunque, fece senza toccar mai cibo? Con la sua psichiatria avrebbe dovuto spiegare quest'altro fenomeno psichico, tranne che una nuova Ebe non gli avesse apprestato un po' di nettare degli Dei; ed allora, ci avrebbe additato in Dante il precursore di Succi!

Ma, se tutto questo è strano, non meno cervellotico è quant'altro segue.

Il Balbo (sull'autorità e del Villani e del Sansovino e del Pelli) così narra la morte di Dante: «Dice il Villani, ch'ei fu mandato da' signori da Polenta in ambasceria a Venezia. Era ufficio più conforme a quelli già esercitati da lui, che non la giudicatura datagli dallo Scaligero; né parmi da dubitare di tal fatto, accettato da tutti i biografi. Ma di una lettera di Dante stampata dal Doni come scritta da Venezia a Guido Novello, nel marzo 1313, sarebbe certo a corregger la data, mutandola in 1320 o 1321; essendo improbabile che Dante fosse in Ravenna nel 1313, e certo, poi, non signoreggiandovi allora Guido Novello. Ma la lettera tutta è tenuta giustamente per ispuria; non tanto perchè troppo severa a' Veneziani, ché ciò sarebbe anzi ne' modi di Dante;

ma perché, oltre a que' caratteri di falsità, ella non fu trovata mai in niun codice, e fu pubblicata dal Doni, che ha mal nome in fatto di sincerità. Men sospetta è un'altra notizia dell'ambasceria di Dante a Venezia. Diconsi fatti allora da lui e posti sotto un'immagine della santa Vergine in un Paradiso, i quattro versi seguenti:

L'amor che mosse già l'eterno Padre

per figli aver di sua deità Trina,

costei, che fu del suo figliuol poi madre,

de l'universo qui fu la regina.

Vedevansi i versi ancora al tempo del Sansovino sopra il seggio del Doge nel salone dei Dieci. Finalmente aggiungono altri di questa ambasceria, che, non avendovi Dante ottenuto ciò che desiderava pel suo signore, egli tornando, del dispiacere infermò e morì». (Vita di Dante, P. 421 e 422).

Dante, dunque, morí dal dispiacere di aver fallito la sua ambasciata presso la repubblica veneta; e 'l dolore l'uccise. «Parrà difficile (ripiglia il Balbo) a credersi d'un uomo provato da tante sventure: tuttavia, è varia non solamente tra gli uomini diversi, ma nello stesso uomo ne' diversi tempi la forza del resistere; e chi resse a sventure maggiori, può, estenuato da esse, soccombere ad una minima. » (Ivi) - Ciò avveniva a' 14 settembre 1321: giorno in cui la Chiesa celebra la esaltazione della Croce.

Viene, ora, il Lombroso, e, revocando tutto in dubbio, dopo oltre a cinque secoli, afferma che Dante, invece, morì di « malattia nervosa; e certo in vita dovette soffrire accessi epilettici seguiti da inconscienza come provano le frequenti descrizioni di cadute con assenze psichiche e con inconscienza che si trovano nel suo poema. » E ciò perché? Solo perché gli è caduto sott'occhio un recente studio su Dante di Durand Fardel, in cui si dava per fermo la stessa ipotesi, il Lombroso si attenta dar di frego alla storia, sostituendovi una sua opinione, non saprei dire se più cervellotica o frenologica; e, quindi, di nuovo, io mi domando: Il nevrotico o l'isterico chi è: Dante ch'è morto o il Lombroso ch'è vivo? Come l'isterico vede tutto giallo, così il Lombroso non vede che matti. Avea, dunque, ragione colui, che, pel primo, scrisse: «< Una gabbia di matti è il mondo intero, » che perciò si converte in un manicomio, di cui sol ei tiene le chiavi, «Serrando e disserrando, sì soavi» (Inf., XIII, 60).

E qui, per una certa deferenza al celebre medico, vorrei far punto; ma mi stringe una più grave cura; ed io, che non son << timido amico» del vero (Parad., XVII, 118), parlerò franco e chiaro, dovesse pur saper « di forte agrume » quel ch'io dico (Ivi, 117).

Il Lombroso taccia Dante di superbia, d'irascibilità, di fierezza ed anche di erotismo, che sono, secondo lui, tutti i caratteri di « natura isterica o epilettica ». Cosicchè, secondo lui, il povero Dante, a poco a poco, diventa una donna, piena di convulsioni epilettiche ed isteriche! Ma lasciamo la celia, e veniamo al sodo.

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Il Lombroso confonde la superbia con l'umana dignità e con la coscienza umana. « L'uomo (diceva Napoleone I) tanto vale, quanto crede di essere. » Una certa stima di sé, bisogna che l'abbia ognuno; se no, l'uomo « Cade nel fango, e sé brutta e la soma » (Purg., XVI, 129). E niuno, più di Dante, sentí l'altezza di questo sentimento.

Richiamato in patria a condizioni ignominiose, così rispondeva a quel reverendo che si era interposto mediatore:

Non est haec via redeundi ad patriam, pater mi; «Non è questa la via di tornare alla patria, o padre mio:» sed, si alia per vos aut deinde per alios invenietur, quae famae Dantis atque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo, «ma, se un'altra da voi o da altri se ne troverà, che la fama e l'onore di Dante non isfregi, io per quella mi metterò non a lenti passi. Quod, si per nullam talem Florentiam introitur, nunquam Florentiam introibo. Che, se a Fiorenza per via onorata non s'entra, io non entrerovvi giammai. » (Epist., X, 4).

Né vi entrò; e le sue ossa riposano tuttora a Ravenna!

Questa, illustre signor Lombroso, voi chiamaste superbia; e, per me, è carattere, è dignità, è grandezza morale.

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