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Occorre qualche altro esempio, anche più luminoso ed eloquente?

Gratia Dei, sum id quod sum; << Per la grazia di Dio, son quello che sono; » et zelus domus ejus me comedit (Davide, Ps. LXVIII, 10) « e lo zelo della casa di Dio m'infiamma.» His habeo persuasum quod audeo. «E quanto dir oso, l'ho per autorizzato da questi fatti. » (Epist. IX, 5). Qui solus aeternus est, mentem Deo dignam viri prophetici per Spiritum sanctum sua jussione impressit. «Quegli che solo è eterno, la mente di un uomo profetico volle far condivina per mezzo del santo Spirito.» (Ivi, 1).

Questa, per voi, signor Lombroso, è anomalia; per me, invece, è coscienza, è apostolato, è missione: senza di che, la vita non ha valore. El grand'uomo, ah! sí, ha piena coscienza di sé, delle sue forze, del suo destino e, direi quasi, della sua predestinazione quaggiú. «Non si è ancora fusa la palla, che mi dovrà uccidere >> diceva Napoleone: ed aggiungeva: « Io non sono che un bastone di ferro, nelle mani dell'Onnipotente, per abbattere i tiranni e rinnovare, di soffio, la vecchia Europa. Quando la mia missione sarà adempiuta, il bastone diverrà di vetro e si frantumerà nelle mie mani. Allora, il mio nome diventerà un tema da collegio. Tale e non altra sarà la sorte serbata a Napoleone il Grande ! » E cosí fu.

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Ma io già vedo il Lombroso che ride. Scusi signor professore; ma io, povero profano, avea già dimenticato che anche Napoleone è un mattoide. Però,

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disse la buon' anima di Beppe Giusti; ed a questa sentenza io volontieri mi sottoscrivo.

E Lei, gentilissimo signor Passerini, che ne dice? Scusi la lunga cicalata: e mi creda: Oneglia, 28 di aprile 1894.

devotissimo suo

G. DE LEONARDIS.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Bonci Francesco

Antonio Cesari, precursore degli irredentisti. Pesaro, Tipografia Federici, 1893, in-16 picc., di p. 84.

Parlare d'irredentisti nel nostro stato attuale di civile scadimento parrà a molti un anacronismo; ma non sarà certo opera inutile avere rivendicato a quello schietto e operoso valentuomo del Cesari anche il merito di aver sentito l'amor patrio sotto quella forma più intensa e diffusiva. Ed è ciò cui riesce l'autore in una serie di dimostrazioni, le quali ce lo presentano, prima tuonare in tre Orazioni contro gli stranieri, quindi preoccuparsi che avessimo una lingua pura e fissa, quale egli non credette poter basare ne l'uso corrente, bensì negli scritti dei migliori secoli, sempre però attinti alla fonte toscana; poscia cercare di preferenza verso il confine orientale la diffusione delle sue idee letterarie, e onorare la memoria del ragusano Tommaso Chersa; ma sopratutto immedesimarsi ne l'amore di quel Dante Alighieri, che consacrava insieme la lingua di Italia e il suo confine al Quarnaro,

Non mancano nell'opuscolo talune inesattezze, come a p. 19 chiamare tirolese Antonio Rosmini che fu roveretano, a pag. 31 l'addurre a prova che il Cesari parteggiasse per la parlata toscana le lodi ch'egli imparte ai Promessi Sposi del Manzoni in una sua lettera del 28, di molto anteriore alla famosa risciacquatura nell'Arno; ma né queste inesattezze, né l'uso di una lingua troppo improntata a quella del suo maestro, né il mostrarsi restio a comprendere la profondità del Desanctis come critico (p. 60), tolgono all'autore il merito d'aver risuscitato la simpatica figura di Antonio Cesari, nel quale, ad onta di tutti i suoi difetti, i dantisti devono tuttavia riconoscere un critico, linguista ed estetico dei più insigni, e far voti che le sue Bellezze vengano, sotto forma più comoda, e completate dei risultati dei posteriori studî, ripresentate ai cultori del divino poeta. Sarebbe il miglior modo di onorare la memoria di quel bravo e buon veronese. Roma, 10 maggio 1894.

FERD. RONCHETTI.

Leynardi Luigi, La psicologia dell'arte nella divina Commedia. Torino, Loescher, 1984, in-8° di p. 510.

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Disse bene Ruggero Bonghi: Il sistema nel quale si coordinò l'estetica classica è ormai abbandonato; il pensiero ond'esso mosse, per grande che fosse la mente in cui brillò da prima, è sfumato, come tanti altri che l'avevano preceduto; e l'uomo e la natura e la scienza l'hanno oltrepassato. >> L'hanno oltrepassato per effetto specialmente delle discipline sperimentali: in tanto rinnovarsi d'ogni forma del pensiero, l'estetica non poteva non sentire l'influsso della fisiologia e della psicologia positiva, non poteva non sbrogliarsi o almeno tentare di sbrogliarsi da ogni fisima metafisica, da ogni preconcetto ideale. Pure un sistema organico di teorie, resistenti alla prova rigida de' fatti, perché da' fatti solo dedotte, rispondenti in tutto all'indirizzo trionfale dell'odierno pensiero scentifico, non mi pare che noi ancora possediamo: il Leynardi per parte sua sarebbe tentato di vederlo nell'opere, per molti rispetti del resto cosí notevoli, del Gallo, del Benzoni e del Gizzi.

Nella lunga scala degli stati affettivi, nella quale dal più grossolanamente e brutalmente voluttuoso, si va al piú schiettamente e umanamente ingenuo, dalla soddisfazione ignobile prodotta dalla più bassa delle funzioni fisiologiche a quella sublime dell'evidenza nella funzione piú elevata dall'apprensione astratta, stanno in mezzo gli stati estetici della bellezza. La bellezza che è dunque l'anello di congiunzione tra l'evidenza o il vero da una parte e la voluttà o il buono o piacevole dall'altra; che non è una sola, ma sono molte forme di bellezze diverse. Questa la sentenza di Roberto Ardigò, che dell'estetica gettò il concetto fondamentale nella Morale dei positivisti, e che forse oggi è il solo in Italia capace di dare una teoria compiutamente scentifica della Filosofia positiva dell'arte.

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Ma far tesoro di quanto la scienza è venuta sino ad ora assodando, reintegrare le idee altrui con le esperienze e le idee proprie e alla luce di esse studiare l'arte del poeta più grande e piú umano che forse sia mai stato, e nell'opera sua piú alta, è officio di critica elevata e nobilissima, ben degno che un valoroso, come il Leynardi è certo, ci si mettesse. Con quali intenti e con che metodo vedremo ora brevemente.

Osservò bene il Macaulay: per bizzarra che sia, ogni invenzione in Dante ha sempre in sé un senso intimo, un aspetto pieno di vivente realità, che tutta la pervade. E al viaggio fittizio del poeta il lettore si sente naturalmente portato di credere; non perché quegli gli giuri per le note della sua Commedia la verità del racconto, non perché come il Macaulay voleva l'infiori di asseveranze solenni, ma perché su da ogni piú lieve particolare balza potente la vitrea evidenza dell'arte.

1 Horae subsecivae, p. 115.

2 Opere filosofiche, v. III, 28-29.

La minutezza de' particolari, come il Leynardi vorrebbe, non basta; bisogna che ogni più piccolo accenno trovi l'espressione sua, si adagi, a dir cosí, nella plasticità di un'immagine. Ma qual'è il fondamento teorico dell'arte dantesca? Beatrice, conchiudendo il discorso onde spiegava al suo fido la ragione delle macchie lunari, diceva:

Da questa instanzia può diliberarti
esperienza, se giammai la provi,
ch'esser suol fonte a' rivi di vostr'arti.

(Par., II, 94-96).`

Il dato percettivo, il senso insomma è la base d'ogni arte: ogni fatto, che l'artista rappresenta gli vien dato dal senso, se non nella totalità sua, negli elementi almeno, ond'è costituito: ogni idea, ogni affetto, ogni rappresentazione è la somma d'un' infinita serie di minime sensazioni. E somma d'un' infinita serie di sensazioni minime è il mondo dantesco: Dante trasse la creazione sua da quanto udí e sentí, da quanto vide e lesse. La sua poesia insomma è poesia oggettiva, in questo senso almeno, che l'immagine, ch'egli suscita in noi, fu prima viva, reale, immediata in lui. E di qui la sua superiorità sull'Ariosto e sul Tasso; troppo spesso questi descrissero un mondo incolore, che non videro e non sentirono; sempre il mondo dantesco è tutta la vita del poeta che l'ha creato.

E chi guardi bene s'accorge subito d'un fatto: dove Dante descrive cose che non vide mai, passa via rapido, accenna piú che descrive. La selva ove si smarrisce, è selva allegorica e due tratti bastano a indicarla; ma il bosco ove Pier dalle Vigne è con gli altri suicidi cresciuto in pianta silvestra, vien mirabilmente rappresentato in ogni sua particolarità. La porta dell' Inferno non si poté obbiettivamente rappresentare, e Dante non la descrive, ma cerca di suscitarne, per altra via, l'impressione; quella del Purgatorio descrive, perché la può comporre con dati reali. Anzi, spingendoci anche più avanti, perché egli tace il passaggio suo dell'Acheronte, quello dal secondo al terzo cerchio e via dicendo?

Per finzione poetica sí, ma piú, forse, perché nessuna realtà d'immagini gli si poteva in tal occasione presentare al cervello, realtà d'immagini, che salvasse la verità della narrazione. Verità intellettiva, immaginativa, affettiva.

Ma quando Dante cominciò l'opera divina? A uno studio psicologico dell'arte sua, la determinazione del fatto è importante dimolto. E si badi: non quando la prima idea balenò, come meteora luminosa, alla mente sua esterrefatta ché dovette essere, mi si passi l'osservazione, un senso di tremore quel che lo colse al passar del lampo corruscante ma quando e in che circostanze e in che ambiente la compose.

Anzitutto: di che età è il Convito?

Cominciato a Firenze tra il 95 e il 300, par non si debba portare piú là dal '311 o "13. È come si vede la vecchia opinione del Fraticelli. Cacciato dalla patria, in que' primi anni dolorosi dell'esilio il poeta sperò di tornar a vedere il suo bel san Giovanni; e il Convito è il libro delle sue speranze, de' sogni suoi ardenti. Esso gli doveva procacciare la fama, che gli avrebbe schiuso le porte della nemica città, esso provare a' corrucciati concittadini, che l'uomo avea smesso ogni ira di parte per darsi tutto alla sapienza. E che strazio d'animo, che umiltà di desideri, che ardore di speranza per entro a quelle pagine di austera dottrina! Ma allora, come fu che il libro fu incominciato a Firenze? Bisognerebbe ammetter questo per lo meno: che cominciato con uno scopo puramente dottrinale, finí per assumerne uno essenzialmente politico.

sperava.

Ma intanto gli anni passavano e la pace da Firenze non veniva: Dante taceva, pregava, Ma poi un giorno quell'anima indomita, allo scherno, peggio che tutto, all'indifferenza de' concittadini, si ribella, e quando Arrigo scende in Italia, da lui solo gli par venga la luce. E allora l'humilis italus, exul immeritus getta in faccia agli scelestissimis florentinis la lettera sua, la sua vendetta. I fiorentini rispondono con la riforma di messer Baldo d'Aguglione, il 2 di settembre 1311. Non restava piú che l'imperatore, e l'imperatore moriva...; poi venne il bando di

Ranieri di Zaccaria d'Orvieto. Siamo al novembre del 1315. Tutto era perduto: memorie soavi della giovinezza, nobili ambizioni della virilità, speranze d'un bello e riposato vivere: al poeta oramai non restava che sé stesso. Allora cantò l'ultima sua opera: la memoria angosciosa del passato, la speranza affannata dell'avvenire, tutto sé stesso egli ci messe. Il Convito poteva aspettare: cambiato il motivo, bisognava cambiar la forma del lavoro intrapreso; il Convito interrotto formalmente si compieva e correggeva nel pensiero della Commedia.

Non c'è che dire: tutto ciò si presenta al primo tratto in forma seducente e si sarebbe quasi tentati di esclamare: è bello, è vero. Ma poi, a pensarci su un momento, quante difficoltà! e lasciamo le questioni cronologiche interne. Chi ci si raccapezza per entro? Bisognerebbe, anzitutto, provare questo, che Dante non corresse, non modificò, né aggiunse mai nulla a seconda degli eventi. Che quell'accenno, quell'allusione, quel fatto in quel determinato luogo fu scritto nel primo getto del poema e non aggiunto poi nel ritornare del poeta sopra l'opera sua. Ma badando solo alle ragioni psicologiche, con l'ipotesi del Leynardi, la Commedia sarebbe il frutto di un'angosciata disperazione. Ed è proprio la disperazione la fonte degli immensi capilavori? De' prodotti isterici forse, della Commedia non credo. E poi se proprio essa l'avesse prodotta, come non si sentirebbe per entro al poema? come non l'impronterebbe d'un affannato pessimismo e non vieterebbe al poeta di alzarsi cosí spesso a una serena, obbiettiva contemplazione de' fatti?

Ma poi, se si ammette, almeno nell'ultimo capo della Vita Nova, il primo accenno alla Commedia, come ammettere allora questo lungo intervallo dall'idea alla sua attuazione? Dante, come la sua figura balza fuori dalla Commedia, dové essere una natura risoluta, energica; pensare, per lui, dovette essere fare. E quando un'idea forte, che si chiama Commedia, s'impadronisce d'un cervello, che si chiama Dante, allora tutti i movimenti, le operazioni tutte di questo sono diretti da quella. Una delle due: o coraggiosamente si abbandona la vecchia opinione di vedere rella Vita Nova quel benedetto primo accenno, o si ammette di molto anteriore il cominciamento della Commedia. E allora ammettiamo anche il racconto del Boccaccio, racconto psicologicamente impossibile. Col che questo io vorrei affermare: l'accertamento cronologico della composizione della Commedia è ancora da fare. Bisogna prima alla luce della psicologia positiva, e in ispecie della psicologia del genio, studiare la personalità dell'Alighieri, cercare per tutta la Commedia quanto può aver relazione psicologica con la cronologia. Conosciuta sicuramente la psiche dantesca e l'ambiente storico nel quale essa si svolge e dal quale è determinata, si potrà anche, con relativa certezza, fissare l'età della Commedia, che dell'azione di quel tal clima su quella tal psiche è il poderoso risultato.

Ma perché Dante poneva il suo viaggio così addietro, nel 1300? Per una ragione tutta personale: il 1300 s'era certo fissato nella sua mente come data solenne del Giubileo, e ciò doveva conferire al colorito religioso dell'opera sua; ma il '300 era anche l'inizio politico delle sue sventure, che avevano toccato il colmo con l'ultima condanna del '315. Se la Commedia fu nel "15 pensata, era naturale il rapporto all'anno funesto, che d'una vita cosí disperatamente dolorosa aveva segnato l'affannoso principio. La selva dunque dove il poeta si smarrisce è la vita, le lotte politiche, l'esilio: egli rivolto agli studi filosofici aveva già prima sperato (il colle) di ristorare con essi (il Convito) i suoi mali, quando si levarono contro di lui piú acerbe l'invidia, la superbia, l'avarizia de' suoi concittadini (Le tre fiere), sí che egli sarebbe morto ignobile (il basso loco), se Virgilio, apparsogli nella rovina delle sue speranze (il gran diserto), con l'esempio della poesia, che consacra meglio di ogni altra lode il nome glorioso del poeta, non l'avesse richiamato alla speranza (il dilettoso monte). Con l'esempio di lui « abbandonata l'idea di vincere i suoi nemici per mezzo di un'opera di grave dottrina, pensò altro modo (l'« altro viaggio ») a salvarsi dall'oblio non solo, ma anche di piú dalla taccia di politica colpa, nella quale sarebbe altrimenti rimasto per il suo esilio; ed allora, sperando che un giorno pure avrebbero avuto fine i suoi mali e d'Italia per opera di qualche potente (il Veltro), si volse all'idea di narrare un viag gio fantastico attraverso i regni dei trapassati (il « loco eterno »).... Così Dante, col ministero di versi ispirati, sotto l'esplicita e ripetuta affermazione di un divino mandato, avvolto nel sacro manto del sentimento religioso, può dire al mondo, in forma solenne ed arcana, le sue lodi e i

suoi biasimi, l'odio e l'amore, la vendetta e la giustizia sua, che mostransi, invece, nella solenne parvenza del viaggio fatale, come alti decreti del divino giudizio » (p. 71-72).

Questa dunque l'umana allegoria della Commedia; allegoria ch'io non so punto accettare, ed è inutile dirne il perché. Bisognerebbe un libro per mostrare la verità di quello che invece penso io sull'argomento; e disgraziatamente su esso si è scritto anche troppo. Ma una domanda mi sia onestamente concessa: se con il Convito Dante aveva sperato di ristorare i suoi mali, come allora fu esso cominciato a Firenze, prima che essi avessero principio? Bisognerebbe piuttosto accettare la sentenza del Del Lungo e ammetterne la compilazione dopo l'esilio. E per converso: se il poeta sperava (il colle) di riparare con gli studi filosofici (il Convito) a' suoi mali, come poteva allora riportare l'azione della Commedia al '300, ed essere oramai rovinato da ogni sua speranza (il gran diserto,) se il Convito allora era appena e forse non ancora incominciato? Perché, secondo la teoria del Leynardi, il poeta, prima di cadere, ha sperato, e se il Convito è il mezzo di queste speranze, deve per forza essere scritto prima della rovina fatale. Ma la rovina avviene, secondo l'azione del poema, nel marzo del '300; sí che il Convito dovrebbe essere scritto prima di questo tempo. Il che è assurdo ed è in contraddizione con quanto il Leynardi aveva detto, che il libro cioè era stato composto per vincere le inimicizie della patria e aprirsi la via ad essa.

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Ma come Dante preparò l'opera sua immensa? L'opinione dello Scartazzini al nostro autore non pare probabile: immaginare un Dante, che dopo aver fissato nella fantasia potente l'idea grandiosa, vada per anni e anni deliberatamente cercando i materiali per compirla, pare a lui, come già s'è potuto capire, contrario a' sani precetti della moderna psicologia.

Preparazione certo ci fu, e lunga, ma incosciente. Il libro di Dante è la storia de' suoi viaggi, delle sue letture, delle sue osservazioni: questa fu la lunga, dolorosa preparazione del poema. Preparazione non voluta, come voluto non fu né l'esilio, né il bando perpetuo. L'immenso cumulo di dottrina e di esperienza diede a tempo suo il frutto dovuto: le mille sensazioni dal poeta provate si fusero, s'associarono in forme nuove nel suo cervello.... e venne la Commedia. Dante ha una tendenza meravigliosa alla rappresentazione viva, evidente, pittorica; c'è in lui una sentimentalità straordinaria, cosí che il Convito stesso assume spesso forma e colorito poetico. Basta osservare le molte, ardite metafore e immagini, onde l'opera abbonda; immagini, e metafore che a me hanno porto occasione a studiare il secentismo in Dante, come il Leynardi stesso del resto desidera si faccia.

E di qui viene che in tutta l'opera sua Dante scolpisca, anzi tutto, sé stesso, di qui che campeggi per tutta la Commedia la sua potente personalità. Con lui cessa il medioevo e comincia l'etá nova: l'uomo si trasforma nell'individuo e come tale si afferma. Questa individualità, che in Omero - e si capisce e in Virgilio invano si cercherebbe, è pure carattere del paganesimo, cosí, che in Dante c'è il tipo vero dell'umanista, che adora l'antico, ma non rinuncia né all'età né alla personalità sua.

Uomo nuovo sente bruciare nelle sue vene il desiderio della gloria, e sogna e spera che la nuova dea lo baci un giorno sulla fronte radiosa.

E da siffatta tempra di carattere ne viene anche un altro fatto: un'allusione vivente a fatti

e circostanze della vita sua in non poche parole o frasi o descrizioni della Commedia.

Ma ognuno anche vede quanto di soggettivo ci possa essere nel trovare siffatte allusioni: io per me, ad esempio, non veggo perchè Dante, per ragion della sua andata a Venezia, dovesse dire di Matelda, che scorrea

Sovr'esso l'acqua lieve come scola

piuttosto che come spola, non lo veggo fin che i piú de' manoscritti non mi dieno questa lezione; e sí che essa garberebbe di molto al mio amor proprio di veneto.

E non veggo troppo bene che nel virgiliano

Giornale dantesco

Chi m'ha negato le dolenti case

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