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ci abbia a entrare, come vorrebbe anche il Del Lungo, la personalità del poeta; come mi paiono addirittura romanzi le interpretazioni dell' Imbriani sugli amori di Dante per la cognata e su.... come dire? le simpatie troppo vive di messer Brunetto per le bellezze del giovane suo amico e alunno. Alunno, si capisce, in un certo senso. Tutto questo al Leynardi può anche sorridere, ma sorriso per sorriso, io sorrido invece alle fantasticherie del critico napoletano e penso che non è proprio ciò che serve a dare serietà scentifica alle dottrine dell'egregio nostro psicologo.

Vero è ben dirò anch'io alla dantesca che il poeta trae le sue creazioni dal fondo verace del sentimento e della percezione, e le immagini, le similitudini, le rappresentazioni sue, nella realità loro vivente, splendidamente lo mostrano.

E come n'è ricco il poeta! Già tutta la Commedia è per sé stessa una similitudine, un paragone dell'altro mondo con questo, così che dal tessuto generale spiccano, balzano, nella superba loro abbondanza, le similitudini, i paragoni particolari, ogni volta che o la chiarezza o l'efficacia artistica o altro ancora lo richieggano. Abbondanza, ch'é necessità organica d'arte e effetto dell'esuberante vitalità della mente dantesca, che tendeva a dar vita e moto ad ogni cosa, che le cadeva sotto, per astratta che fosse. E che differenza nel modo di prendere e di foggiar le similitudini sue, in Omero, in Virgilio, in Dante! quelli descrivono, pur in forma splendida, solo l'esteriorità della vita, questi va giú fondo e scandaglia e descrive anche la vita della coscienza. La nota umana vibra in lui potente, e se Virgilio, l'Ariosto, il Tasso, il Monti prendono spesso da altrui tanto per prendere, in Dante ogni cosa, pur imitata, passa attraverso il suo cervello, ne determina uno stato nuovo, sia fisiologico che psicologico, ne balza fuori col suggello eterno dell'originalità.

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Queste, a un dipresso insieme con qualche mia osservazione le cose che il Leynardi discorre nella prima parte del suo studio; discorre gravemente e con sicura dottrina, se non sempre con artistica perspicuità.

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Cosí s'entra nella trattazione più particolamente psicologica della materia, trattazione minuta, particolareggiata, che si estende per ben trecento pagine fitte. Riassumerla è impossibile; bisognerebbe rifare il cammino percorso dall'autore, addentrarsi nelle analisi istesse, in che egli pazientemente si è addentrato. Conveniva adunque studiare anzitutto i poteri dell'immaginazione del poeta, vedere come egli seppe scrutarne i modi, le attitudini, gli effetti, come da questa analisi psicologica di sé stesso derivò osservazioni nuove all'arte sua, immagini plastiche, parlanti. Ma discorrendo di questi poteri dell'immaginazione dantesca, giustamente il Leynardi prevede una obbiezione, che altri gli potrebbe fare. Sta bene che la poesia di Dante sia in gran parte «la intera vita e verace di lui, tutta la mole de' suoi fantasmi, ordinati in una portentosa unità di concezione»; ma quando non si tratti «< di rappresentazioni con fondo reale », sí di tali che non possano << essere cadute sotto i sensi suoi in modo veruno » come si fa a concederlo? L'obbiezione è speciosa anzi ché no, pur non mi pare che il Leynardi le abbia in tutto risposto. È vero che Dante dell'immaginativa sua, sciolta dal senso, dice, che la move

lume, che nel ciel s'informa
per sé, o per voler che giù lo scorge,

Purg., XVII, 17-18.

ma la spiegazione del poeta, può far dire a noi, che «questa, è un'altra sorgente da cui Dante ha derivato la materia dell'arte sua?» (p. 204). Pare a me che questo invece bisognava mostrare: che il Paradiso poiché è del Paradiso che specialmente si tratta è una totalità, risultante di atti elementari, ognun de' quali ha un fondo reale. E questo basta per sfatare l'obbiezione: che il risultato associativo de' minimi del pensiero sia qualche cosa che non esiste fuori della psiche, non prova l'irrealità sua assoluta. Certo quando e concezione ed elementi suoi trovano piena rispondenza nella realtà vivente, è più facile al poeta atteggiare il suo pensiero in forma plastica, e l'Inferno e il Purgatorio lo provano.

Ma ritornando al primo discorso, alla formazione compiuta della mente del poeta servirono anche, e di molto, i suoi viaggi, le sue letture; viaggi adunque e letture vogliono essere partamente studiate, in quanto almeno contribuiscono alla formazione del poema. Quante cose Dante non vide, prima di accingersi alla rappresentazione del mondo d'oltretomba; quante assidue, lunghe, meditate letture egli non fece! Ed è curioso notare e per gli studi psicologici confortante come il Leynardi arrivi spesso a' risultati, cui giunse da ultimo il dott. A. Rossi ne, suoi viaggi danteschi oltr'alpe; ma il Leynardi mi pare dia troppa importanza al libretto del Brentari su Dante alpinista; egli e il Rossi, troppo fissati forse in quel loro concetto dell'obbiettivazione di Dante nell'opera sua, cadono a volte in qualche esagerazione. Certo nella descrizione de' luoghi le letture non potevano dare gran vantaggio a Dante; ma e i racconti vivi, parlanti che ne avrà sentito fare da chi c'era stato? Dante, del resto, immagini, confronti, atteggiamenti di forma e di stile dedusse piuttosto dalla osservazione sua individua che dall'enciclopedia; pur questa gli giovò non poco, non foss'altro che nel guidare e nel rinfrancare l'osservazione sua. Gli giovò molto nella parte dottrinale, e quel cumulo immenso di scienza che avrebbe forse assiderato sotto il suo peso un altro meno potente di lui, a lui invece serví di base e di saldo equilibrio nelle incertezze del mare pericoloso, che primo correva.

Ma nella rappresentazione della natura, che minuto, paziente, acuto investigare! nessun'altro poeta derivò da essa tanta copia d'immagini e di colori. Ora la natura tu puoi considerare sotto due aspetti: o in sé o in rapporto al tuo sentimento; un fatto naturale insomma o può servire a chiarir un altro fenomeno esteriore, o a tradurre in un'immagine concreta, reale, un fatto della tua coscienza, del tuo sentimento. Cosí l'uomo; o tu l'osservi negli aspetti suoi fisici o in quelli della sua psiche. Un fatto esterno tu puoi rappresentare con uno esterno, uno interno con uno interno. Ma poi per que' rapporti che corrono tra il corpo e la psiche, un fenomeno di quello può bene lumeggiare uno di questa, e questa quello.

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È tutta una lunga, paziente, acuta, novissima analisi questa del Leynardi, nella quale purtroppo non m'è dato di seguirlo: solo egli mi consenta una domanda. Nella rappresentazione de' sentimenti, quanto c'è in Dante d' inconscio? D'inconscio per la naturale suggestione della lingua, che si parla, sul cervello e sulla espressione. Una quantità immensa d'espressioni di stati psichici lo scrittore trova nella lingua sua e le adopra e ne fa tesoro senza avvertirlo, per il fatto solo di sapere la lingua. Si adopera come si farebbe d'un membro del corpo per l'abitudine contratta: vero è che l'osservazione psicologica può aver servito ad aumentare il magazzino dir cosí di queste parole e frasi e modi di dire, può aver rinforzato l'abito dell'usarle. Ma qualche cosa d'inconscio rimane sempre, e chi credesse che Dante, nella composizione del suo poema, si fosse ad ogni momento domandato: perchè questo? perchè quest'altro? sbaglierebbe di grosso. Il che non toglie nulla alla grandezza psicologica del poeta; e il libro del Leynardi luminosamente lo prova. Lo proverebbe anche meglio, se più denso, piú serrato esso fosse riuscito; se allo studio spezzettato delle singole rappresentazioni affettive, egli avesse anche aggiunto qualche volta quello d'una scena, d'un episodio nella comprensione e nella totalità sua.

Piú decisamente positivista forse di quello che il Leynardi non sia, non in tutto io ho saputo e saprei per altre parti convenire con lui: e meno congetture anche di lezione avrei voluto e migliore la forma.

E poi?... In un libro di oltre cinquecento pagine, e che, indiscutibilmente, segna un momento storico negli studi danteschi, fare degli appunti è cosa molto facile; ma un fatto resta sempre: che il libro fa onore al valoroso che l'ha scritto, all'uomo illustre al quale è dedicato.

Terranegra di Padova, 18 luglio 1894.

COSMO.

I V. nel Bullettino della Società dantesca (n. 6) le assennate osservazioni del professore V. Rossi a proposito del libro di A. Rossi.

Una tremenda disgrazia ha colpito il Direttore del Giornale. La sua bambina di soli otto anni, LUCIA, un angelo di bontà e di bellezza, il 26 di agosto in Cortona, ove erasi appena recata a villeggiare, veniva rapita alla terra da subito, violento malore. Se un conforto potesse venire alla famiglia così crudelmente provata, esso verrebbe certo dal sapere che il suo dolore è diviso da ogni animo gentile, e in ispecie dai collaboratori e lettori di questo giornale, uniti col suo Direttore in un vera comunione di spiriti.

In tali condizioni il Direttore non ha potuto occuparsi di dare l'ultima mano a questo quaderno; al che, pregato, cercò supplire il sottoscritto. Ad esso tocca pure di chiedere venia del ritardo, troppo giustificato, che il quaderno stesso ha dovuto subire. Quanto poi a quello che ancora subisce il numero precedente, esso non deve attribuirsi che al non averne ancora la tipografia Visentini di Venezia ultimata la stampa, da tempo già licenziata; ma confidiamo vi sarà presto provveduto.

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Lettera aperta al gentilissimo signor dottore MICHELE BARBI Segretario della "Società dantesca italiana a Firenze.

Roma, 31 di luglio 1894.

Nulla, tranne il merito e la cortesia di Lei, noti pure a chi, come me, non ha il bene di conoscerla di persona, potrebbe scusare il mio ardimento di indirizzarle la presente. Ma bisogna che io Le confessi una cosa. Due parole che io lessi nel suo scritto su Gli studi danteschi e il loro avvenire in Italia, che cosí degnamente inaugurò il nuovo Giornale dantesco, furono occasione a cacciarmi in un tal ginepraio, dal quale la mia mente non altro che da Lei con gran disto solver s'aspetta. E le parole sue (recate in appoggio di quel grande assioma, che per non perdere tempo e fatiche importi sommamente fermare il testo critico di un autore prima di disputare della sua interpretazione) riguardano la Vita Nuova; e precisamente, eccole (pag. 9 in fine): Basta ricordare ad esempio che l'accertamento della lezione VA in luogo d'ANDAVA nel § 41 ha dato causa vinta a coloro che sostenevano essere la Vita Nuova stata composta avanti l'anno 1300. In ciò Ella trovò contradditore il Lubin (Giornale dantesco, pag. 193); ed Ella replicò brevissimamente a pag. 334: ma quello che certo non immaginerà si è che questa divergenza fra due dottissimi abbia inuzzolito un novizio come me a veder d'appianarla (la ignoranza è temeraria!): ma, com' Ella può ben credere, la cosa rimase in secco, tanti sono gli scogli che questa benedetta Vita Nuova suscita ad ogni passo, e che non furono atti a superare i navalestri piú sperimentati.

Giornale dantesco.

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Ed è circa uno di questi scogli che, per non perdermi in inutili tasteggiamenti, io desidererei, prima di proseguire la rotta, sentire l'avviso di chi si sta ora appunto accingendo alla pubblicazione del testo genuino di quella vaga ma, in certi luoghi, oscurissima operetta. Invoco la pazienza di Lei, e senz'altro incomincio.

Nei paragrafi dal 29 al 34 della Vita Nuova è narrata la morte di Beatrice, e recansi degli scritti che in quella occasione Dante diè fuori, ultimi tra i quali il sonetto Venite a intender, e la canzone, di due sole strofe, Quantunque volte, fatte di commissione del fratello della estinta.

Di qui si salta, nel § 35, a dire di un sonetto ch'egli scrive, l'anniversario di quella morte. Poi dal 36 al 40 corre l'episodio del nascere e tramontare d'una sua simpatia per la donna gentile, chiudendo col sonetto, di commiato a questa, e di ritorno a Beatrice, Lasso, per forza.

Nel 41 (che è appunto il paragrafo in disputa, e che comincia, Dopo questa tribolazione) Dante vede certi pellegrini, e meravigliando ch'essi non dieno segno alcuno di commuoversi della morte di Beatrice, scrive il sonetto che comincia Deh peregrini.

Nel 42 due gentildonne lo pregano di favorirle di suoi versi; ed egli, oltre al sonetto ultimamente composto, e a un altro (quello, può sottintendersi), che comincia, Venite a intender, ch'egli avea già fatto pel fratello di Beatrice, manda loro anche un sonetto nuovo di pianta, Oltre la spera, nel quale egli descrive il proprio spirito che va nell'empireo a rimirare la donna ch'ei piange rapitagli.

Segue l'ultimo paragrafo, quello del notissimo: Appresso a questo sonetto apparve a me una mirabil visione, nella quale vidi cose che mi fecero proporre di non dir più di questa benedetta, infino a tanto che io non potessi più degnamente trattare di lei.

Nella serie di questi avvenimenti avvi per me qualche cosa che non cammina: e precisamente quel meravigliarsi di Dante, che dei pellegrini, traversando Firenze per recarsi a venerare la Veronica di Roma, non mostrino alcuna commozione nel passare Per lo suo mezzo la città dolente, né diano segno d'accorgersi della morte di Beatrice; e ciò quando da questa iattura sarebbe già corso, oltre al primo anno, anche tutto il tempo che durò l'affezione di Dante per la donna gentile, ossia un altro anno, a dir poco (due rivolgimenti di Venere corrono, secondo il Conv., II, 2, dalla scomparsa di Beatrice alla apparizione della donna gentile). Di questo modo a me pare, che a l'effetto supremamente tragico che il sonetto Deh peregrini dovrebbe produrre, e quale surge spontaneo dal contrapposto tra un immenso dolore da cui noi siamo presi, e la olimpica indifferenza che ci addimostrano la natura e il mondo circostanti, si sostituisca un effetto supremamente comico, quale risalterebbe nella risposta che quei pellegrini avrebbero ragionevolmente potuto fare alla maraviglia di Dante

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