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"Come! e dopo due anni che questa tua Beatrice è morta dopo dieci anzi, secondo il Lubin! "tu pretendi che la città tutta ne sia ancora dolente, e vorresti che anche noi forestieri ce ne accorgessimo ? "

E perché mai poi, la impressione prodotta dal passaggio dei pellegrini (che io ritengo risolutamente con Lei annuo e non centenario), impressione di contrasto tra l'angoscia del suo cuore e l'apatía di tanta gente che su di sé chiamava la pubblica curiosità, avrebbe Dante dovuto sentirla proprio solo la seconda volta, e non la prima che quel passaggio si verificò dopo la morte di Beatrice?

Di piú, e considerando ora un lato quasi opposto del fenomeno di un gran dolore, sta bene, allo inaspettato annunzio di questa morte, lo scatto lirico dello innamorato, che esagerando lo schianto e lo sbi. gottimento dei molti congiunti e conoscenti fino a estenderlo con enfasi biblica a tutta la città, esce di slancio nel lugubre compianto di Geremia: Quomodo sedet sola civitas plena populo! (§ 29). Ma se dopo due anni e piú, e quando lo stesso amante era pervenuto, sia pure per alquanti die (§ 40), a dimenticare per un'altra quella prima sua fiamma, ancora si parla di città dolente, quello scatto medesimo, a tornarci sopra, perde due terzi della sua efficacia, diventa esso pure una cosa ibrida, retorica, convenzionale.

Questo ch'io dico, capisco che potrebbe anche sembrare irriverente, quando noi avessimo la certezza assoluta che Dante avesse voluto precisamente pensare e dire cosí. Ma questa certezza l'abbiamo noi? i codici che esistono della Vita Nuova sono in ciò tutti perfettamente d'accordo? non ve ne sarebbe alcuno il quale legittimasse il sospetto che qui sia intervenuto uno spostamento di fogli, come in molti testi di classici si è di frequente verificato? Ed è su ciò appunto che io vorrei richiamare l'attenzione di Lei, sottoponendole in proposito alcune mie riflessioni.

Il dubbio che mi è venuto si è che, nel testo originale della Vita Nuova (dove, al modo che in tutti i codici ed edizioni anteriori a quella del Torri, Livorno, Vannini, 1843, non vi saranno state numerazioni di paragrafo), dopo il sonetto Venite a intender, la canzone di due strofe che ai § 33 e 34 Dante fa per il fratello di Beatrice, poco appresso la morte di questa, egli non passasse già a raccontarci addirittura del sonetto scritto un anno dopo, ma ci descrivesse altri due episodî seguiti ne l'anno stesso della morte, che è pur quello che deve alla sua vena elegiaca aver fornito i maggiori alimenti. Descrivesse cioé, prima il transito dei pellegrini col § 41 che comincia Dopo questa tribolazione (e la tribolazione allora non sarebbe piú, come ora la s'interpreta, il contrasto con l'amore della donna gentile, vinto poi da quello di Beatrice, ma bensí, e assai piú naturalmente, e come è anche nel § 39, il cordoglio che la morte di questa cagionò e a lui e alla città tutta). E quindi

ci narrasse al § 42 la richiesta delle due gentil donne, alla quale ei risponde inviando loro, col sonetto, da lui ultimamente composto, Deh peregrini, e con altro espressamente fatto per esse Oltre la spera, anco l'altro, Venite a intender, che (notisi bene) in questa supposizione sarebbe anche quello che immediatamente li precede. Con la volgata invece egli, con minore galanteria, a dir vero, manderebbe un sonetto scritto qualche anno prima, e al quale egli avea già fatto succedere un altro ugualmente scritto per Beatrice, quello della resipiscenza, che dicemmo cominciare, Lasso! per forza di molti sospiri (§ 40).

Dopo ciò verrebbe (§ 35) il sonetto di Dante scritto per l'anniversario della morte, e quindi (§ 36 a 40) tutto l'episodio della donna gentile che chiude col citato sonetto di resipiscenza Lasso! per forza. E da questo (omettendosi l'episodio dei pellegrini e delle gentildonne ai § 41 e 42, per essersi invece, come si è visto, collocati piú sopra) si passerebbe direttamente a l'ultimo paragrafo che comincia Appresso a questo

sonetto.

Potrebbesi anche limitare lo spostamento al solo § 41, lasciando dov'è il 42, fatto riflesso che in questo, Dante nel citare il sonetto Venite a intender, non lo dice l'altro, come direbbe se immediatamente precedesse, ma un altro, ciò che lascerebbe supporre, o non voler egli precisare di che sonetto si tratti, o potere anche essere un sonetto diverso avente uguale cominciamento, non compreso, come altri, nella Vita Nuova e andato com'altri smarrito, con che si eviterebbe l'anormalità che Dante consegnasse alle gentildonne un sonetto ch'egli non avrebbe fatto in nome proprio ma in nome del fratello di Beatrice. Con ciò poi il precedente sonetto che accompagnerebbe i due, Oltre la spera e Venite a intender, in luogo di essere, Deh peregrini, verrebbe a essere Lasso! per forza.

Quello che in ogni modo mi pare si è che narrati ne l'una o ne l'altra guisa gli avvenimenti verrebbero assumendo un andamento, uno sviluppo assai più logico e naturale, dandosi al sonetto Deh peregrini un carattere meno sforzato, e riempiendosi di uno o due altri sonetti dolenti il periodo più prossimo alla morte della Beatrice.

Prima però di troppo soffermarsi sopra somiglianti ipotesi, tornerebbe utile, per non dire necessario, conoscere, come dissi, se i codici piú autorevoli le favoriscano, o almeno non le contrarino, se cioé alcuno di questi dodici ammetta in sé stesso la possibilità di uno spostamento di fogli, o dia qualche sospetto che tale spostamento siasi verificato in alcuno dei codici generatori.

Giacchè la cosa potrebbe essere avvenuta in più modi. Dato, come mi par piú verosimile, che lo spostamento abbracciasse i due § 41 e 42, potrebbe essere che, capitati i foglietti di Dante scompigliati e senza numerazione in mano del copista, questi avesse trovato una relazione tra il volare dello spirito di Dante a l'Empireo in traccia di Beatrice,

che ha luogo nel sonetto Oltre la spera, e la mirabil visione dopo la quale Dante decide di non parlare piú di lei finché non se ne sia reso degno: onde la necessità di collocare immediatamente prima del § 43 ed ultimo, il 42 che finisce appunto con quel sonetto; e prima del 42, il 41 che può ad esso benissimo legarsi, e che cominciando con le parole Dopo questa tribolazione, si ritenne (a torto) doversi riferire a quel passo del § 39 Or se' tu stato in tanta tribolazione (interpretata non rettamente per cordoglio ma per contrasto, in ciò aiutando qualche codice come il Nobili, ove infatti, quasi a glossema, leggerebbesi in tanto tribolamento d'amore), e, dovere quindi seguirlo anziché precederlo. Di qui la conseguenza di saltare, dai versi fatti in morte, addirittura a quelli scritti per l'anniversario, omettendo l'intervallo che avrebbe invece dovuto essere riempito dai § 41 e 42 già stortamente collocati: od anche dal § 41 soltanto, nel caso che lo spostamento non avesse avuto per movente che la supposta dipendenza tra le due tribolazioni.

Potrebbe anche darsi che questo spostamento, in luogo di essere avvenuto sulla prima copia in pulito, per parte di un copista costretto a indovinare, fosse opera invece di un rilegatore troppo furbo, inge· niosior, il quale, in vista di quel tal nesso apparente tra il sonetto Oltre la spera e la mirabil visione, e di quel e di quel tale riferimento della voce tribolazione, o in grazia di quest'ultimo solamente, avesse creduto di modificare in conformità la collocazione dei capitoli; e che poscia, come suole, tutti gli altri lo avessero pecorescamente seguito. E in altri modi ancora la cosa potrebbe ugualmente essere avvenuta.

Ma dopo tutto, potrebbe anche darsi che lo ingeniosior qui fossi precisamente ed unicamente io, e che tutto il mio edifizio, per altre migliori ragioni, dovesse bravamente andarsene a catafascio. Ora, se ciò fosse, da niun'altro certamente io preferirei sentirmelo dire che da Lei, nel quale la competenza in questi studi critici, paleografici e bibliografici è pari a la universale coltura e a la sodezza de l'ingegno, e che essendosi dovuto occupare di ogni quistione in genere attinente alla Vita Nuova possederà certo la maggior copia di materiali per risolvere anche questa. Ed ecco appunto, ripeto, la ragione per cui mi son fatto ardito di annoiarla con la presente, pur chiamandone a parte i lettori del Giornale, per essere la cosa entrata già, si può dire, un poco anche nel loro dominio.

E se il mio ardimento sarà soverchio, ne sarò ben presto degnamente punito: ma son certo altresí che qualunque sia per essere la sua decisione, non ne riceverà che incremento la considerazione che ogni cultore di Dante Le deve e che è lieto fin d'ora di professarle

il suo dev.mo

FERDINANDO RONCHETTI.

DI UNA NUOVA RICOSTRUZIONE

DELLA VALLE D'ABISSO

Ai commentatori che dal secolo decimoquarto fino ai nostri giorni si provarono a disegnare la figura e le proporzioni dell'Inferno dantesco va aggiunto il dottor Vincenzo Russo, il quale, con uno studio sull'argomento,' tenta una nuova ricostruzione della valle d'abisso, con certi avvedimenti che ci danno da pensare e da riflettere; ma che ci persuadono sempre piú, essere il problema di delineare graficamente e descrivere a fondo il triplice regno sulle traccie del divino poeta ben lungi ancora da quella soluzione che possa intieramente quietare le voglie degli studiosi di nostra maggior musa. Ma lo studio del novello commentatore è tutt'altro che da prendersi a gabbo, offrendoci nuove vedute, alcune delle quali degne di considerazione, e materia per altre e forse non vane discussioni.

"

Il dottor Russo divide la sua trattazione in sei capitoli, susseguiti ciascuno da note, e in fondo da un'appendice e da due tavole litografiche. Nel primo capitolo, che tratta dei disegnatori dell'Inferno, l'autore incomincia deplorando la diversità delle costruzioni dei tre mondi eseguite in ogni tempo da diversi commentatori: attribuisce la causa ai disegnatori, al "falso metodo finora tenuto, e in ispecie all'aver badato più alla configurazione dell'intero edificio che delle parti, e ad altre ragioni che han concorso a rendere piú grande il dissidio. Invero, dice l'autore, all'intelligenza di parecchi luoghi del poema, ed all'effetto estetico delle varie scene, può gio"vare la descrizione delle singole parti, più che la rappresentazione somma"ria dell'intera macchina infernale. Il paesaggio e gli attori devono soc"corrersi a vicenda e fare un tutto armonico; il quadro è perfetto quando "le anime agitate da violenta passione, grandi nella virtú e nel vizio, si co"loriscono di sinistra luce nelle tenebre misteriose, e risultano sul fondo che sempre orrido e selvaggio varia ad ogni pié sospinto. Se tutta la fantastica voragine si presenta a noi muta e deserta (perché non è possibile ab"bracciare con uno sguardo i molteplici e meravigliosi atteggiamenti delle figure dantesche), ci lascerà freddi, come il palcoscenico di un teatro, visto " di giorno con gli scenari arrotolati „.

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Nell'" Inferno, di Dante: nuove osservazioni e ricerche. Con due tavole in litografia, per
Catania, Nicolò Giannotta

ricostruire la valle d'abisso: studio del dottor VINCENZO Russo.
editore, 1893, in-8°.

Dice che Dante non si curò molto della visione sintetica dell'inferno, che "gli studi di topografia nella divina Commedia dovrebbero avere l'impor" tanza che ha la viva dipintura delle scene nella rappresentazione d'un dramle bellezze di questo rifulgono meglio, quando lo scenografo e l'attore concorrono a gara ad illustrarlo. I disegni di Gustavo Dorè non fanno che confondere: sono insufficienti quelli del duca di Sermoneta.

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ma;

Passa in rassegna quei commentatori che più o meno fecero speciali descrizioni del carcere cieco; accenna in nota al commento fatto dal Boccaccio ai versi 63 e 64 dell'XI dell'Inferno; a quello di Benvenuto da Imola (Infernus fingitur ab auctore esse locus rutundus, distinctus per gradus et circulos; qui incipit ab amplo, et continuo gradatim arctatur usque ad centrum sicut theatrum, sive Arena Veronae, licet arena magis habeat figuram ovalem quam spheralem); al grandioso affresco di Andrea Orgagna nella cappella Stroz zi in santa Maria Novella, confutando quanto ne scrisse l'Ampère; all'altro affresco del Camposanto di Pisa, ed a quello di Taddeo Bartolo fatto a Volterra.

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Primo a intravedere in barlume l'immenso vuoto infernale pare sia stato il notaio Pietro Bonaccorsi da Firenze. L'autore ne porta le parole: "E questo inferno secondo sua fictione è proporzionato in forma di una conca, cioè largo più di bocca che in fondo. Et dividelo in nove cerchi, come dicessi nove volte fondate l'una sopra l'altra in questa conca.... "E furono posti in fondo al triste buco, cioè nel nono et ultimo cerchio d'inferno dove puntano tutte l'altre roccie, o vogliam dire vôlte., A questi succede Antonio di Succio Manetti, de' cui studi si approfittarono il Landino e il Benivieni, trascurandone "alcune idee di gran momento, mentre gliene attribuirono altre assurde di "cui nel manoscritto che conservasi nella Magliabechiana non è parola, o "da cui Antonio era mille miglia lontano

A rodere ed abbattere l'edificio architettato dal Manetti vengono Pier Francesco Giambullari e Alessandro Vellutello. Il primo, pur mantenendosi fedele, in linea generale, ai suoi predecessori, rifà di sana pianta l'ottavo ed il nono cerchio che, mentre prima distavano in profondità parecchie miglia l'un dall'altro, divennero vicinissimi tanto, che Antèo pone i poeti direttamente nella ghiaccia; il secondo abbatte addirittura l'edificio antico ricostruendone un altro basato sopra altri principî, ed accorciando di nove decimi l'asse del cono infernale.

L'innovazione del Vellutello mette sossopra gli Accademici fiorentini ; Bernardino Daniello da Lucca tenta di conciliare il disegno del suo concittadino con quello del Benivieni; intanto entra in lizza anche Vincenzio Bonanni con un nuovo disegno, vero caos di vecchie idee, che, spezzando l'asse intorno a cui si aggira tutto il poetico viaggio, lascia fra i disegnatori il tempo trovato. Un po' più tardi (1587) Giovanni Strada, pittore fiammingo, difende, in massima, il disegno del Manetti; tra gli accademici di Firenze, oltre Luca Martini e Benedetto Varchi, si alza Galileo Galilei (1588) che, per incarico di Baccio Valori, legge all'Accademia due lezioni difendendo a spada tratta il

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