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occhi) e gli automi, i cavalieri in corazza, fanno la manovra come già la facevano sei secoli fa. Le dodici figure dei cavalieri corrisponderebbero alle dodici figure dei teologhi (Par., X,) che fan la ruota. Dante poi, secondo pare, è il primo tra gli scrittori che abbia fatto menzione di un orologio meccanico che batte le ore.

Le leggende d'Artú, osserva inoltre il Plumptre, ebbero un gran fascino su Dante, come ognuno sa. Fra i luoghi vetusti degni d'ammirazione nelle isole Brittaniche, secondo Fazio degli Uberti (Dittamondo, libro IV, canto XXIII) sono le rovine del palazzo di Camelotto

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Fu precisamente a Glastonbury che si svolsero le leggende d'Artú, e Glastonbury è l'isola di Aválon ove trovasi la tomba del re eroe. Di là Dante nel suo pellegrinaggio, continua il Plumptre, può essersi spinto sino a Wells, e, varcata la soglia della cattedrale, aver pregato in silenzio, nella penombra.

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Della venuta di Dante in Inghilterra il Plumptre accarezza l'idea, e piú e piú volte vi torna sopra, talché un critico del “Manchester Guardian „, toccando in proposito, ebbe a rilevare la perverse ingenuity del decano. Conclude però il Plumptre che se l'andata del poeta ad Oxford non può dirsi che appartenga alla storia sembra essere uno di quei "casi,, ne' quali la tradizione e testimonianza tendono a stabilire in alto grado la probabilità. Questo pure ammette il Maxwell Layte, nella sua History of the University in Oxford..

Facile, lo comprendo è l'abbattere tutte queste supposizioni poiché per punto primo se Dante fu effettivamente ad Oxford, dovrebbe trovarsene memoria negli annali di quella università. E l'Ariosto allora (il Bojardo l'aveva preceduto) che nel canto X, stanza 77 a 88, dà una descrizione "dei signori brittanici,, e delle loro insegne, dovrà dirsi che fu in Inghilterra? Il ferrarese avrà forse avuto le informazioni da qualche studente che frequentava l'ateneo di Bologna. E Shakespeare? gran parte della sua vita è avvolta nel mistero. Molti tra i soggetti delle sue tragedie sono italiani. Si dovrà dedurre da questo che egli fu in Italia? Ma, e dico cosa notissima, lo Shakespeare prese le sue idee da' novellieri italiani e da un semplice, talora meschino racconto, con il soffio divino del suo genio, crea un capolavoro.

Vero è che questo è un secolo "di sistematiche negazioni e demolizioni,, come lo chiama il Nencioni: ma il metodo sarebbe salutare se non spinto oltre i dovuti limiti. E, ritornando a Dante, cascan proprio le braccia quando si legge nel Bartoli che il viaggio dell'Allighieri แ nel paese dei Britanni,,, deve mettersi "tra i fatti più che dubbi della sua vita. Tale pure è la opinione del chiaro dantista A. F. Butler il quale da me domandato che cosa pensasse del presunto viaggio di Dante a Oxford, rispose senza esitazione: “È una fiaba

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Ad ogni modo dobbiamo essere grati al Gladstone, al Marsh, e, per ultimo, a Vittorio Rossi per avere risollevata la questione: ed è sperabile che in un tempo non lontano si possa chiarire, a pieno, il fatto: se Dante Allighieri fu o no in Inghilterra.

Manchester, il 25 di aprile 1894.

AZEGLIO VALGIMIGLI.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

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RECENSIONI.

Ildebrando Bencivenni Dentro dalla muda: studio dantesco. 1894, in-16.

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Mi pare ancora di vedere il chiarissimo professore là, nella sua cattedra, comentare il XXXIII canto dell' Inferno. Mi par di vederlo, serio e calmo, a mano a mano animarsi; mi par di sen tire la sua voce armoniosa ora dolce, ora flebile, aspra, irrompente, a secondo del verso; e ho presente tuttora quel suo sguardo ora fisso, quasi contemplasse qualche cosa invisibile e indeterminata; ora mobilissimo, quasi cercasse sui volti degli uditori un loro parere, o andasse rintracciando un'idea che voleva sfuggirgli.

Nel suo libro ritrovo ampliamente svolti i suoi concetti, e questa lettura, oltre che ridestare nella mia mente le idee che vi si erano sopite, mi ha convertito del tutto a favore del suo autore.

Nessun altro verso della divina Commedia, cred' io, ha dato luogo a una piú lunga controversia, fra gl' interpetratori, come quello

Poscia piú che il dolor poté il digiuno.

Sebbene oggigiorno la maggior parte dei dantisti nella questione si rimetta appieno alle conclusioni che lo Sforza dà nel suo libro Dante e i pisani, pur nondimeno il chiarissimo professor Bencivenni, assai conosciuto per le sue opere pedagogiche, ha ripreso a trattare la questione sotto un punto di vista affatto opposto a quello dello Storza.

Egli, confortando le sue asserzioni col citare i comenti e le interpetrazioni di Jacopo della Lana sino al Niccolini, lo Scolari, il Muzzi, il Gargallo e il Carmignani, interpetra il canto tutto con puro e profondo sentimento del vero e del bello, e confutando le opinioni degli antichi sino al Monti, Rosini, Betti, Giuliani e via via sino allo Scartazzini e al Casini, ecc.; e dopo aver dimostrato con vari e serî argomenti che anche l'orribile può essere sublime e argomento di arte, giunge alla conclusione che Dante ha voluto nascondere in quelle parole qualche cosa di piú terribile che non la semplice morte di fame.

Il conte Ugolino, perduta la conoscenza di sé stesso, in un eccesso di "furore canino,,, come dice il De Sanctis, addenta un cadavere de' suoi figli, ma il morso feroce gli dà una sensazione e in questa si desta un istante e i suoi occhi hanno un lampo di luce, una fulminea visione dell'orribile strazio, e boccheggiante muore d'orrore e di schifo insieme, senza aver sa

ziata la fame... „

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Il poeta qui comprende

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quel che non può avere inteso

dalla bocca del popolo, e inorridito sfugge dal dare particolari, e mette soltanto in bocca al conte quel

Poscia piú che il dolor poté il digiuno,

che racchiude in sé quell' indeterminatezza che lo rende maestoso e terribile, che fa comprendere tante e tante cose nascoste e desta cosí diversi sentimenti, da far riuscire tutto il passo in sommo grado drammatico e sublime.

Oltre poi che dal lato psicologico l'autore, nel suo studio accurato, considera la cosa anche dal lato fisiologico e storico.

Portando moltissimi esempî, oltre quelli già riportati da altri comentatori, riesce a dimostrare, in modo palesemente chiaro, che il conte, dopo otto giorni, poteva benissimo, non che addentare, cibarsi delle carni de' suoi figliuoli. Considerando inoltre con lo Scartazzini, che la storia vera non è soltanto la narrazione fedele di fatti accertati da documenti incontrovertibili; ma v'ha una storia vera che non si fonda né può fondarsi sopra documenti né sopra testimonianze esteriori, e questa storia è quella del cuore, la storia psicologica,,; conclude che la storia per sé stessa è incompetente per giudicare su di quest'opera d'arte, e tanto piú, che, come dice il

A. F.

SILVIO SCAETTA

Giuliani: "Dante è storico, ma all'usanza de' poeti, che dal vero prendono fondamento e materia alle loro finzioni, affaticandosi poscia di tratteggiarle quasi ch'ei fossero stati in presenza dei casi raccontati e descritti............. La finzione per Dante si trasmuta in un fatto visibile, ed egli con l'arte sua, emulatrice della natura, vi rapisce a tal segno, da non concedere riposo alla vostra meraviglia, né tempo a distinguere il finto dal vero, che v'appariscono tutt'uno.,

Che il Bencivenni sia riuscito ad abbattere le opinioni dei molti oppositori, opinioni che si trovano ampliamente accennate nel detto libro dello Sforza, lo credo; e spero che saranno del mio parere i lettori dello studio, che rivela nel suo autore un mente molto elevata. acume critico profondo e una

Nel lodare il chiarissimo professore, gli faccio il piú cortese degli auguri, quale sarebbe quello di vederlo citare ormai come colui che definitivamente ha chiusa la controversia suaccennata, e che per tanto tempo ha tenuto divisi i commentatori.

Città di Castello, agosto 1894.

Francesco D'Ovidio

A. F.

Dante e la filosofia del linguaggio.

Napoli, Tipografia della r. Uni

versità, 1894, in-8.

In più luoghi della Commedia appariscono rettificate dal poeta stesso alcune opinioni da lui dottrinalmente espresse nelle opere minori. quello stesso Guido da Montefeltro tanto lodato ed esaltato nel Convito, e nel Paradiso troviamo rettificata l'idea sulla composizione cosmica della luna diversamente esposta prima nel Convito. Del Cosí nell' Inferno troviamo tra i frodolenti relegato pari nella Commedia, come già rilevò anche il conte Cipolla, sono piú perfezionate le teorie politiche del poeta già svolte nel De Monarchia. E questo, ci sembra, sarebbe un grande argomento per rilevare che la Commedia sia stato l'ultimo, in ordine cronologico, lavoro del grande poeta. Egualmente nel libro I, 6 del De Vulgari Eloquio si dice che la lingua di Adamo fu parlata da tutti i suoi posteri sino alla confusione babilonica ed anche dopo, mentre nel XXVI del Paradiso Adamo stesso, nel cielo stellato, risponde al poeta che la lingua da lui parlata fu tutta spenta, Innanzi assai alla confusione. Non solo: ma ancora Adamo ne dà la seguente spiegazione: che nessun effetto, proveniente dall'arbitrio dell'anima razionale, fu immutabile e ciò: Per lo piacer uman che rinnovella Seguendo il cielo, seguendo cioè il mutabile influsso degli astri, giusta le idee astrologiche del tempo per le quali l'appetito degli uomini soggiaceva a cambiamenti secondo la diversa posizione e influsso delle stelle e dei pianeti. Non ostante sia patente che nel Paradiso si rettifica quanto è espresso nel De Vulgari Eloquio, pure il Giuliani sostenne non esservi contraddizione e si espose ad essere, invero troppo vivamente, rimbeccato dallo Scartazzini che nel suo Commento lipsiano (III, 714) chiama bassi e vili sotterfugi le sue argomentazioni.

Noi, col chiarissimo prof. d'Ovidio, teniamo che l'opinione sull'origine del linguaggio esposta dal sommo poeta nel Paradiso, sia piú progredita e perfetta di quella da lui espressa nel De Vulgari Eloquio e teniamo che l'operetta latina, sebbene incompiuta, sia anteriore alla Commedia e che venga a cadere l'antico sospetto che il poeta interrompe il trattato latino perché "da morte soprappreso „.

Nell'opera latina il poeta si attiene ai dettami della tradizione biblica e della teologia che troncavano facilmente sul nascere ogni velleità di ricerca, mentre nella Commedia l'autore emancipatosi da tale tradizione esprima una opinione piú libera e piú razionale. L'affermazione esplicita che la molteplicità degli idiomi fosse stata un castigo di Dio insieme colla dispersione delle genti, era, si può dire, un vero dogma. Solo gli altri due postulati, che il parlare fosse una facoltà primaria ed immediata dell'uomo come il pensare, e che la favella vera e congenita all'essere pensante fosse stata l'ebraica, potevano tollerare la varietà delle interpretazioni od anche una vera ribellione. Nel I, 6 del De Vulgari Eloquio, il poeta, premesso che appoggierà le spalle del proprio giudizio piú alla ragione che al senso pel quale ciascuno vorrebbe che il volgare della propria città fosse quello già usato da Adamo, che a lui è patria il mondo siccome ai pesci il mare, conclude che una certa forma di parlare fu creata da Dio insieme con l'anima prima, forma, cioè, quanto ai vocaboli delle cose, alla loro costruzione e al proferire della medesima, forma che ogni parlante lingua userebbe se non fosse stata dissipata per colpa della umana presunzione; che di questa forma parlò Adamo e tutti i suoi posteri fino alla confusione, e fu ereditata dai figliuoli di Eber cioè dagli Ebrei, ai quali soli rimase, acciò che il nostro Redentore, che di loro dovea nascere, usasse, come uomo, della lingua della grazia e non di quella della confusione. Fuit ergo hebraicum idioma id, quod primi loquentis labia fabricaverunt.

Nel Convito (II, 14) è trattato del mutarsi naturale dei linguaggi col volger del tempo e nel poeta, per quanto si sa, si concentra tutto il piú ed il meglio dato dalla speculazione linguistica medioevale, e la tripartizione del linguaggio assegnato da lui, dopo la confusione delle lingue ai popoli che occuparono l'Europa, indica tre gruppi che sono, a un dipresso, il germanico, il neolatino ed il greco. poeta, a scindersi e a suddividersi ciascuna indefinitamente in un numero ognor crescente di diaLe lingue nate nella confusione di Babele continuarono poi, secondo il

letti sempre più degeneri, dando cosí luogo alla sterminata varietà delle favelle umane: varietà che un giorno fece sentire il bisogno di inventare una lingua convenzionale e regolare non soggetta all'arbitrio individuale quale l'ebbero i greci ed altri popoli; e tale fu la grammatica, ossia il latino. Con ciò nel trattato dantesco si hanno tre successive origini della lingua, due di inspirazione divina, unitaria e graziosa la prima, separativa e punitiva la seconda, e la terza tutta umana ed artificiale nella quale si adombra la formazione delle lingue letterarie.

66

Nel XXXI dell'Inferno, a proposito di Nembrod che emette il fiero verso: Raphel mai amech zabi almi, non si scosta il poeta dalla tradizione sacra: e solo nel XXVI del Paradiso il suo pensiero si mostra in piú di un punto sostanzialmente mutato, e progredito verso una concezione piú libera e razionalistica del linguaggio umano: tanto che il Max-Müller nella sua Scienza del linguaggio tolse ad epigrafe del suo libro la celebre terzina:

Opera naturale è ch'uom favella;

ma, cosí o cosí, natura lascia

poi fare a voi secondo che v'abbella.

Nel mentre nell'operetta latina credette il poeta alla sola supremazia dell'ebraico che unico ed incorrotto si sarebbe mantenuto fino all'ovra inconsumabile della torre di Babele, e che la suaccennata legge fosse venuta in vigore soltanto dopo, si trovò nel Paradiso condotto dalla logica a convincersi che ella dovesse avere avuto efficacia anche sulla lingua di Adamo, e che quindi quella necessariamente non fosse l'ebraica. Anche l'idioma adamitico nei secoli interceduti per la creazione e la confusione dovea avere soggiaciuto ad una metamorfosi cosí profonda che nessuno ormai l'avrebbe compreso anche molto prima che le genti fossero state con Nembrod superbe in Sennaar, l'ebraico dovea essere al più il tardivo e irreconoscibile continuatore della lingua parlata dal primo padre. Di conformità poi a quanto lasciò scritto Orazio (De arte poetica, 60 e seg.) soggiunge Adamo esser conveniente che si mutino i linguaggi poiché: L'uso dei mortali é come fronda In ramo, che sen va, ed altra viene.

Se nelle terzine del Paradiso sarà piuttosto espressa la genialità di certe intuizioni piuttostoché una ribellione vera e consapevole alla tradizione, è un fatto però di grande importanza quello di avere detronizzato l'ebraico dal posto privilegiato per tanto volger di tempo assegnatogli. Il nome del prof. D'Ovido è troppo noto perché abbia d'uopo di essere da noi illustrato: e con lui chiuderemo col dire che se è vero che Leibnitz fu il Copernico della linguistica per avere abbattuto il tradizionale pregiudizio della supremazia dell'ebraico, stato ad essa non meno fatale di quello che la creduta immobilità della terra fu all'astronomia, noi possiamo rivendicare al poeta una parte di tale gloria. Dante che detronizzò l'ebraico per via di riflessione severa e coraggiosa intorno ad una legge da lui felicemente intuita, può ben dirsi un vero precursore della linguistica, come il De Vulgari Eloquio gli conferisce il vanto di avere, per il primo, delineato l'abbozzo di una filologia romanza.

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SILVIO SCAETTA.

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Giacomo Sichirollo Il positivismo e la scolastica nella teorica del libero arbitrio Padova, tipografia del Seminario, 1894, in-16.

Il modesto quanto sapiente prof. Sichirollo di Rovigo, noto per tanti suoi pregevoli lavori, fra i quali primeggia la sua Versione e commento sui tre libri delle leggi di M. T. Cicerone pubblicò non è molto questo suo nuovo studio, dettato in forma di memoria, già presentata al primo congresso dell'Unione cattolica per gli studi sociali in Italia.

E invero ammirabile la perspicuità e chiarezza dell'eloquio nello scritto del valente professore, tale da rendere accessibili e comprensibili certe questioni che riescono assolutamente astruse e inestricabili agli intelletti non fortemente e non rettamente instituiti nelle filosofiche discipline. Le questioni toccate nell'opuscolo che ci occupa sono appunto di quelle che, piú facilmente di tante altre, l'intelletto abbuiano a chi le esamina non scevro da preconcetti, mentre riescono chiarissime a chi le indaga e contempla, come dice l'Allighieri, con occhio chiaro e con affetto puro. Il prof. Sichirollo luminosamente ancora dimostra come noi siam liberi e non servi come sempre e in qualunque contingenza libera sia la nostra volontà, la quale, colla prefata autorità dell'Allighieri (Par., IV, 76-78).

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È vecchia la questione, ed è vecchio quanto l'umanità il contrasto fra liberisti e fatalisti, o, come oggi si dice, fra libertisti e deterministi, e infatti sono quest'ultimi che credono nuove certe questioni e desiderano alle antiche aggiungere nuove sconfitte.

I seguaci del libero arbitrio sono ignoranti dicono i deterministi; sarà; ma il chiarissimo professore mostra estesa e profonda conoscenza di quasi tutte le opere che, e nell'Italia e all'estero

SILVIO SCAETTA

si pubblicano dai moderni e contemporanei seguaci della nuova scuola, e scende sul loro campo, e li confuta e debella colle loro armi. A nuovi argomenti oppone nuovi argomenti, come a nuovi libri viene cosí opponendo nuovi libri. Noi condividiamo pienamente le idee ed i concetti del professore Sichirollo, ma dato ancora che da lui dissentissimo, per non mancare alla buona fede che lealmente deve conservarsi anche cogli avversarî, noi converremmo che difficilmente con maggior chiarezza si potrebbe enunciare e far vedere ove stia il punto di disaccordo fra le due scuole. Riconosceremmo ancora che egli, scolastico, mostra di essere a pieno giorno delle teoriche posi tiviste e di possederne effettivamente i concetti fondamentali, e che egli irrepugnabilmente dimostra come i positivisti invece non siano a piena cognizione della scolastica e del valore e forza dei suoi argomenti, ai quali pure si studiano di contrapporne di contrarî, e si sforzano di confutarli. La scolastica, si sa, è cosa da medio evo. non isdegna di studiare a fondo le novissime teorie del positivismo ed un positivista se vorrà avere una vera vittoria su di uno scolastico dovrà adattarsi a cercare almeno ove sta di casa Tuttavia uno scolastico come il Sichirollo la scolastica.

Pur troppo, per confutare le teoriche dei seguaci del libero arbitrio, convien adattarsi a studiare la scolastica e quell' insigne monumento di essa che è la Somma del grande Aquinate, come ha osservato anche il prof. Filomusi-Guelfi (Giornale dantesco, quaderni VIII, IX, e X del primo anno) a proposito dei commentatori del divino poema, i quali vogliono studiare questa opera eminentemente scolastica, senza curarsi della scolastica stessa, e quindi cadono in errori e incongruenze inevitabili (errori e incongruenze che, per uno strano concetto della giustizia, affibbiano al poeta).

Si sa, la scienza esige severità e profondità di studî, e non ammette né riconosce certi nomignoli proprî solo delle sette politiche. Tale libertà genera la imputabilità e se la volontà umana non è più libera per condizioni speLa volontà umana è, fu e sarà sempre mai libera. ciali patologiche dell'individuo, o perché il medesimo è costretto ad agire per impellente e invincibile necessità, allora anche per la scolastica vien meno la imputabilità, cade la responsabilità ed anche alla scolastica, nei casi veramente patologici, si fa manifesta la convenienza di una prevenzione o repressione differente dall'applicazione di una pena, e non c'era d'uopo che i positivisti venissero ad apprenderle tali novissime (mi si scusi la paronomasi) novità. Ma che dico? per i positivisti tutte le azioni, anche piú comuni, degli uomini sono necessarie: ma allora come sussistono ancora e si vedono visibilmente attuati i concetti di merito e demerito? Perché si conferiscono medaglie ai valorosi, e si mandano ancora all'ergastolo i delinquenti? Sarebbe forse venuto meno il principio che ogni azione prodotta da necessità merto di lode o di biasmo non cape? (Purg., XVIII, 60), e l'altro, pure del poeta nostro (Purg., XVI, 70-72) che se in noi fosse

distrutto

libero arbitrio, non fora giustizia
per ben letizia e per mal aver lutto?

Cavarzere, 1894.

SILVIO SCAETTA.

NOTIZIE

Stralciamo dalla Tribuna del 31 di agosto, una importante corrispondenza che descrive le feste fattesi in Aquila pel sesto centenario della incoronazione di Celestino V.

Aquila, 29 di agosto 1894.

È difficile poter assistere ad uno spettacolo cosí artisticamente bello, come quello a cui ieri ho assistito qui in Aquila dalle 6 alle 8 pomeridiane.

A circa un chilometro dalla città, attraversando una via larga e comoda che si eleva come una grande muraglia divisoria su dalla vallata ricca di alberi e di acque, si giunge sulla piazza di Collemaggio, vasto e largo recinto capace di contenere venti o trentamila persone.

In fondo alla piazza si erge la chiesa, costruzione solidissima che rimonta al secolo decimoterzo, ricca sulla facciata ed all'interno di fregi, di statue, di pitture tali, che fanno della chiesa un monumento d'arte nazionale.

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