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ficacia salutare sul suo spirito e sul suo cuore. Sole della nostra letteratura, la Commedia non si spegnerà finché la nazione italiana non sia spenta. (321)

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Clausse Gustave. Les monuments du christianisme au moyen age. Basiliques et mosaïques chrétiennes. Italie-Sicile: ouvrage illustré de 200 dessins d'après des documents certains ou d'après nature. Paris, E. Leroux edit., [Évreux, impr. de Ch. Hérissey], 1893, voll. due, in-4o, di pagg. [4], VIII-479, [4], 537.

Sommario del capitolo XVI, del vol. II (Toscane, Florence, Pise): Florence. Le mont San Miniato. La basilique et sa fondation. Sa construction. Interieur. Mosaïque de l'abside. Son origine. Cathédrale de santa Maria del Fiore. Mosaïque du couronnement de la Vierge. Mosaïque de l'annonciation. Tableaux en mosaïque au musée du dôme et au Bargello. Baptistere de saint Jean. Son architecture. Mosaïques de la coupole, des galeries, de la tribune. drale de Pise. Mosaïques de l'abside et du transept.

Cozza-Luzzi Giuseppe.

Cathé

(322)

Il "Paradiso „ dantesco nei quadri miniati e nei bozzetti di Giulio Clovio, pubblicati sugli originali della biblioteca Vaticana. Roma, tipografia sociale, 1893, in-8°, di pagg. 82, con tre tav. in fototipia.

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Descrive le miniature, attribuite a Giulio Clovio, poste ad illustrazione della terza cantica nel codice della Commedia 365 Vaticano, fondo Urbinate. Questa è la edizione minore: la grande edizione si adorna di molte fototipie eseguite in Roma, nello stabilimento Danesi. Nel Popolo romano, An. XXI, no. 210, è una recens. favorevole di questo libro.

(323)

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Flarta Aurelio. Raffaele Andreoli. (In La Tavola rotonda. Anno IV, no. 26).

Ricorda l'opera di Raffaele Andreoli come cittadino e letterato, e deplora che Napoli non lo abbia onorato abbastanza. De' suoi scritti è ancora oggi lodato il commento alla divina Commedia, publicato la prima volta dal Morano nel 1861. (324)

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Graf Arturo. Demonologia di Dante. (In Miti, leggende e superstizioni del medio evo, di A. Graf. Torino, Loescher, 1892-93, Vol. II).

Una dottrina demonologica ordinata e compiuta in Dante non è e non poteva esserci: ma da molti luoghi della Commedia e, specialmente, dell'Inferno, e da alcuni altri sparsi qua e là per le rimanenti opere, confrontati fra loro e aggruppati opportunamente, si ricava un certo numero di credenze e di opinioni che in questo studio il Graf esamina congiuntamente.

I demonî che l'Alighieri pone nell'Inferno si possono, rispetto a' luoghi di loro provenienza, dividere in biblici e in mitologici, secondo che sono tolti alla tradizione scritturale e patristica o al mito pagano. Piú volte Dante fu ripreso di aver mescolato insieme cose appartenenti alla mitologia e cose appartenenti alla credenza cristiana, senza badare che una tale assimilazione pur si ritrova in molte descrizioni dell'inferno a cominciar dai primi secoli della Chiesa e a venir giú giú fino ai tempi che immediatamente precedono il nostro autore: tanto che san Giovanni Crisostomo ebbe a biasimare, tuttoché senza frutto, la irriverente mescolanza (In Adv. oppugnat. vitae monasticae, II, 10). Né qui ci troviamo dinanzi a una tradizione letteraria soltanto, ma, con essa, anche ad una tradizione popolare, per la quale si trasformarono in diavoli, col progredir della legge cristiana, gli dei maggiori e minori e pur anco i semidei degli antichi, e degli dei, come è chiaro a intendere, ben piú agevolmente quelli cui già i pagani attribuivano qualità paurose e maligne. Cosí i nomi delle divinità antiche, o almeno di alcune di esse, continuarono a vivere nella memoria dei popoli bene o male convertiti, e intorno a quei nomi sorsero superstizioni, leggende e fantasie. Sant'Antonio incontrava nel deserto un centauro e san Girolamo non sa risolvere se fosse stata apparizione diabolica o mostro naturale; e sant'Atanasio di Alessan

dria, nella vita di Antonio, racconta che quel santo vide un mostro che sino al pube pareva uomo e il resto avea d'asino: e a un segno di croce sparí. Nella leggenda di Giuliano l'apostata Mercurio doventa un diavolo: e diavolo Venere in piú leggende, come in quella, famosa, del cavaliere Tanhäuser. Se, dunque, le antiche divinità s'eran tramutate in demonî, era non pure lecito, dice il Graf, ma necessario porle all'inferno con gli altri diavoli. Ciò fecero gli autori delle Chansons de geste, e ciò si riscontra nella Visione di Tundalo e nella Kaiserchronik dove l'anima di Teodorico è fatta trasportar da' demonî in der berc ze Vulkân. Anche in questo, Dante non fece dunque se non che seguitare la tradizione e il costume. Dante dà un corpo ai demoni: ma con sé ha molti padri e dottori della Chiesa cattolica e la vulgata credenza (Cfr. Roskoff, Gesch. des Teufels, vol. I, 233, 268, 290, 300-1; Graf, Il diavolo, pag. 39, il 1° artic. De demonibus nella XVI delle Quaest. disputatae de pot. Dei di Tommaso di Aquino e la Summa theol. di Alb. Magno) e se intorno alla natura di questo corpo egli dà cenni contradittori ed incerti, le opinioni stesse dei padri non sono in ciò molto concordi (Greg. Magno, Dialog., IX, 29; Taziano, Oratio contra Graecos, in Max. biblioth. vet. pat., II, 27). Si ammetteva bensí, quasi generalmente, che i demoni avessero un corpo formato d'aria o di fuoco, e un corpo si attribuiva anzi anche agli angioli, e si diceva che quello dei demonî caduti in disgrazia di Dio era divenuto piú grossolano e più spesso. Quanto alla forma e all'aspetto degli spiriti mali Dante non dice gran che, fatta eccezione per Lucifero; ma non mancano al suo inferno diavoli in cui piú propriamente si scorga l'aspetto che ai nemici del genere umano attribuí la turbata fantasia de credenti (Inf., XVIII, 35, XXI, 31-36, XXII, 106, 136-141; XXIII, 131; XXVII, 113; ecc.). Lucifero, ch'ebbe già il bel sembiante, è dal poeta rappresentato di smisurata grandezza, orribile a vedere, con tre facce alla sua testa, l'una vermiglia, l'altra bianca e gialla, la terza nera, sei enormi ali di pipistrello e il corpo peloso. Quelle tre facce, nota il Graf, detter molto lavoro ai commentatori: i quali avrebbero risparmiate le lunghe fatiche se invece di stimarle una invenzione di Dante avesser saputo che assai prima di Dante si trovano: già innanzi le avea imaginate e scorte la coscienza religiosa, già innanzi a lui le arti l'avevano raffigurate. Perché Lucifero è come l'antitesi e il rovescio della Trinità rappresentata qualche volta nel medioevo sotto specie d'uomo a tre volti. Lucifero appare con tre facce in iscolture, in pitture sul vetro, in miniature di manoscritti, quando incoronato, quando cornuto, tenente fra le mani uno scettro od una e talora due spade. (Cfr. Didon, Iconographie chrétienne. Histoire de Dieu, nella Collection de documents ined, de l'hist. de France, Parigi, 1843, pagg. 543-546; Didron e Durand, Manuel d'iconographie chrétienne, Parigi, 1845, pag. 78, e Viollet-Le-Duc, Dictionn. raisonné de l'architecture, Parigi, 1867-68). Senza dubbio Dante volle, con le tre facce che dà al suo Lucifero, conformemente a un'usanza che rimonta, almeno, al secolo XI, rappresentare gli attributi diabolici opposti ai divini; e perché per lo stesso Dante, come per san Tommaso, il Padre è podestà, il Figliuolo sapienza, lo Spirito santo amore, le tre facce non possono simboleggiare altro che impotenza, ignoranza, odio, come direttamente giudicarono alcuni tra i più antichi commentatori (Cfr. a questo proposito il nostro Bollettino al n. 57). E come Dante Alighieri non imaginò, egli primo, le tre facce del diavolo, cosí nemmen primo pensò egli di porre in ciascuna delle tre bocche immani un peccatore indegno di minor pena. Nella chiesa di sant'Angelo in Formi vicino a Capua una grande pittura, tenuta, appunto, del secolo XI, raffigura Lucifero maciullando Giuda (Caravita, I codd. e le arti a Montecassino, Montecassino, 1869, vol. I, pag. 245 e segg.): e in atto di maciullare tre peccatori è a san Basilio di Étampes (Didron et Durand, Op. cit., pagg. 78), e nel Boccaccio (Decamerone, VIII, 9) è ri

cordato il Lucifero di san Gallo e il Sansovino, secondo annota il Fanfani, dice che nella chiesa di san Gallo a Firenze era dipinto con piú bocche. Queste considerazioni, come bene avverte il Graf, ci debbon fare andar molto cauti nell'asserire che il tale o tal altro pittore contemporaneo all'Alighieri, o posteriore, da Dante appunto abbia tratti i concetti. Ciò si afferma comunemente di Giotto, dell'Orcagna, dell'incerto che a Pisa, nel Camposanto famoso, pingeva il giudizio universale, e di altri. Nella cappella degli Strozzi in santa Maria Novella di Firenze l'Orcagna trasse il suo Lucifero certamente da Dante; ma la cosa va altrimenti pel Lucifero giottesco della cappellina degli Scrovegni nell'Arena di Padova e per quello che campeggia nel Giudicio finale del Camposanto di Pisa. A tal proposito dee sembrar piuttosto plausibile l'opinione del Jessen (Die Darstellung des Weltgerichts bis auf Michelangelo, Berlino, 1883, pagg. 44.

e 49) che dal fresco di Giotto, anteriore alla Commedia, abbia Dante attinta l'idea del suo Lucifero.

Rispetto alla natura dei diavoli Dante non dice cose nuove e dacché già erano noti lor portamenti e loro atti cose nuove non potea dire. Cosí della potenza diabolica, intorno alla quale ha idee conformi alla opinione comune quando attribuisce ai demonî potestà sugli elementi e narra della procella da essi suscitata che travolge con le sue acque il corpo di Bonconte. Anche san Tommaso ammette che il diavolo possa, non naturali cursu ma artificialiter produrre la pioggia e il vento (Comment. in Iob., n. 1, ecc.) e Tommaso Cantipratense attribuiva al demonio le illusioni della fata morgana (Bonum univers. de apibus, 1, II, c. 57, n. 29). Il demonio, secondo Dante (Inf., XXIV, 112-114), può invadere il corpo umano e produrre in esso turbazioni simili a quelle che arrecano certi morbi; e può, inoltre, animare i corpi dei morti (Inf., XXXIII, 124-132 e 134-157) come avviene a' traditori della Tolomea, a Branca d'Oria e a un suo prossimano: ciò che allo Scartazzini pare una ingegnosa invenzione del nostro (Comm., al v. 130 del XXXIII Inf.), suggeritagli da quanto è detto di Giuda nel vangelo di Giovanni (XIII, 27); laddove Dante trovò anche questa imaginazione già bella e formata, e Cesario di Heisterbach racconta d'un chierico cuius corpus diabolus loco animae vegetabat. Il bravo chierico cantava bene: ma ad un sant'uomo che un giorno ne udí la voce, parve d'udire il diavolo: che per esorcismi fu stretto a fuggir via e a lasciar esanime il corpo del chierichetto (Dialogus miraculorum, ed. del 1851, dist. XII, c. 4). Molti altri esempi di invasione di morti corpi umani per opera di maligni spiriti reca il Graf da Tommaso Cantipratense, da Giacomo da Varagine, da vite e leggende di santi. Due sedi eran date ai demonii: l'inferno, luogo di pena a loro e a' dannati, e l'aria per esercitazione dell'uomo fino al giorno del giudizio (Cfr. la Somma di Alb. Magno e di san Tommaso e le Sentenze di san Bonaventura). Della sede aerea Dante non dice nulla di proposito: ma la suppone evidentemente, quando accenna a tentazioni diaboliche, quando parla della potestà che hanno i demonî di suscitare procelle o di demonî che contendono agli angioli le anime de' trapassati. Non pone diavoli in purgatorio, dove l'antico avversario tenta di penetrare in forma di biscia ma ne è impedito dagli angioli, astor celestiali (VIII, 94-108): e in ciò segue le dottrine dei teologi, comunemente concordi nel ritenere che in purgatorio non occorran demonî a tormentare le anime, benché in moltissime visioni alla rappresentazione del purgatorio non manchino diavoli intesi al consueto loro officio di tormentatori. L'opinione piú diffusa e piú accreditata segue pur Dante quanto alla situazione del suo inferno, che ripone nel centro della terra; e l'inferno considera un regno retto da Lucifero in opposizione a quello de' cieli retto da Dio: concetto, questo, che già si trova nel Vangelo e in alcuni padri della Chiesa (san Luca, XI, 18; san Giov., XII, 31). Anche nelle relazioni che han le anime de' dannati co' demonî, e nell'officio di questi come giustizieri ed aguzzini, Dante s'informa alle credenze e alle leggende medioevali che qui sarebbe lungo accennare: ma bisogna dire che tale ministero essi non adempiono in Dante con la frequenza, il furore, le atrocità di cui porgono tanti esempi le altre visioni. Non senza un concetto profondo volle il nostro poeta che i dannati trovassero lor gastigo anche e spesso in una condizione prestabilita, in un ordinamento fisso e costante di pene nelle quali i demonî non han soverchia ingerenza, e volle anche, non raramente, che i dannati stessi fossero gli uni contro gli altri esecutori e stromenti del meritato gastigo (Inf., VII, 25-30; VIII, 58-60; XXXII, 130-132; XXXIII, 76-78, ecc.). Non mancano scrittori che asseriscono i diavoli non soffrire de' tormenti di inferno oltre alla pena permanente della esclusione dall'aspetto di Dio e dell'avvilimento di lor natura in conseguenza della caduta: perché, se ne soffrissero, male potrebbero accudire all'officio di giustizieri o di tentatori: e Dante solo di Lucifero accenna, piú che non narri, ad un intimo cruccio: Con sei occhi piangeva e per tre menti Gocciava pianto e sanguinosa bava (Inf., XXXIV, 53.54). Son finalmente da notare i diavoli che Dante trova nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio, i quali, se possono incuter terrore (e molto ne incutono a Dante), possono anche muovere il riso. Essi stringono la lingua coi denti per far cenno al lor duce, com'è uso dei monelli: e il lor duce fa trombetta di ciò che non occorre nominare. (Inf., XI, 137-139). Si lasciano ingannare da Ciampolo, o chi altri sia il famiglio del buon re Tebaldo (Inf., XXII, 97-123) e due di loro, Alichino e Calcabrina, si azzuffano per ciò e cadono nel bollente stagno (Inf., XXII, 133-151). Ora questi diavoli hanno somiglianza grande

con quelli che si vedono trescare per entro a misteri e a moralità medievali, ed è da ricordare che il demonio appare ridicolo in più di una leggenda e che vien tempo in cui suo principale officio sulla scena è quello di far ridere gli spettatori (Collier, The history of english dramatic poetry, I, 355, ecc. e Roskoff, Geschichte des Teufels, I, 359, ecc.). Nella leggenda di san Caradoc fa lazzi e capriole da saltimbanco e da giullare (Acta SS., apr.,II, 151); san Lupo, colto dalla sete e facendosi a bere, visto il diavolo tuffarsi entro il boccale, per cosí poter agevolmente entrare in corpo al servo di Dio, chiude la bocca del vaso con un guanciale, e il maligno rimane cosí al buio strepitando e sbattendosi fino al mattino (G. da Varagine, Leggenda aurea, ediz. del Grässe, Dresda, 1846, pag. 580); una volta san Gerolamo vide il diavolo che rideva sgangheratamente; e richiesto del motivo del suo buonumore, questi rispose che un suo compagno, essendosi seduto sullo strascico d'una donna egli lo avea veduto capitombolare nel fango quando costei, per passar sul bagnato, s'era alzata la veste. Anche i nomi che Dante dà a que' suoi demoni rimandano a misteri e a rappresentazioni sacre, dove nomi consimili occorron di frequente. Tali misteri e rappresentazioni sono, in vero, posteriori al poema, ma nulla vieta però di credere ch'essi occorressero già in drammi più antichi non pervenuti fino a noi. — Cfr. no. 265. (325) Perina E. Gli angeli nel "Purgatorio, dantesco. Verona, stabilimento G. Franchini, 1894, in-8°.

Scopo dell'autore è stato quello di porre in ispeciale evidenza l'ufficio che esercitano nel Purgatorio dantesco le creature angeliche, superne intelligenze che il poeta ha saviamente distribuite nelle varie regioni del secondo regno e maravigliosamente rappresentate. Beatrice, la vaghissima donzella sollevata da Dante a tanta altezza di significazione simbolica, è la sintesi di quelle virtú eccelse che gli angeli, incontrati da lui, rappresentano su pei balzi del purgatorio. Recensione nella Nuova Antologia. An. XXIX, terza serie, vol. LII, fasc. XIV. (326) Scarano Nicola. Sul verso: "Chi per lungo silenzio parea fioco, del primo canto dell'“ Inferno, nota letta alla r. Accademia di archeologia lettere e belle arti nella tornata del 19 giugno 1894. Napoli, tip. della r. Università, 1894, in-8o, di pagg. 19.

Contro l'opinion comune che questo verso racchiuda un senso allegorico e l'opinione di alcuni che a questo verso negano un senso letterale qualunque, l'autore lo spiega col solo senso letterale. All'apparizione di Vergilio, nella piaggia delle tre fiere, Dante certo fu rincorato un poco dalla vista del poeta mantovano, ma non gli lesse subito in faccia nulla che dimostrasse buona o cattiva disposizione. Smarrito e tremante nel gran deserto, mentre volto indietro per la paura della lupa ricade giú, disperato, nella selva, vede dinanzi a sé disegnarsi una figura che, se Dio vuole, non è più di fiera. È la figura evanescente ed incerta di un uomo il quale ha sembianza né trista né lieta e solo si mostra tale da parere a Dante privato in tutto della favella, e lasciarlo dubbioso se sia un uomo di ossa e di polpa, ovvero un'ombra. Il Chi per lungo silenzio parea fioco non è che l'indicazione vaga di quella impressione che poco dopo si traduce nel preciso dilemma: Qual che tu sii, od ombra, od uomo certo. L'un verso è il preludio e la giustificazione dell'altro. (327)

:

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Per le nozze di Andrea Marcello con la Maria Grimani-Giustinian.

(328)

Winkelmann E. Documenti inediti sulla storia dell'impero nel secolo XIII. (In Mittheilungen des Instit. für Oesterr. Geschichtsforschung. Fasc. 1, 1893).

Sono lettere e diplomi di Federigo II, papa Innocenzo IV, Alessandro IV, Clemente IV, ecc., dal 1209 al 1268; tolti da archivi d'Italia e stranieri, da originali e da copie.

Cortona, ottobre 1894.

(329)

G. L. PASSERINI.

Per "Il grido d'un verso dantesco,,.

(CORREZIONI E AGGIUNTE)

Il luttuoso avvenimento annunciato col cenno necrologico del quinto quaderno tolse a me di correggere, com'avrei voluto, lo scritto quivi pubblicato: correggo ora dunque alcuni errori tipografici ed aggiungo oggi quanto m'è risultato da recentissime ricerche sui codici rispetto al noto verso (Inf. II, 8r).

In fine alla penultima riga della pag. 172, in luogo di "uopo,,, leggasi “opo,,, coi puntolini di richiamo;

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ma Volgata,

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nella 5 riga della pag. 176, non già "Volgare a mezzo della pag. 177, non ivi „ ma quivi alla dichiarazione di Rinaldo (XX, 136) ecc.; poc'oltre alla metà della pag. 180, non แ rendere, ma rende impossibile il verso ecc.; verso la fine della pag. 183: "a que' cinque io posso oggi aggiungere il Marciano Zanetti LIII, che legge non ci vuol caprirmiltuo, ed il codice bergamasco, ecc.;

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nella riga 9a della pag. 184, invece che e della ventina ecc., si legga "e di altrettanti codici veneti,, e poco piú oltre "di questi dugensessanta, ecc.;

quivi stesso (pag. 184) nelle parentesi quadre si legga successivamente "Veneti 16 su 29 „ "Veneti 19 su 29 „99 "Veneti 18 su 31 „•

IL NOSTRO VERSO NEI CODICI VENETI

(NOTA).

Fra i trenta manoscritti veneti che ci serbano questa parte del poema, sei leggono quivi aprire o aprirmi e ben ventiquattro che aprire o che aprirmi; que' sei premettono semplicemente alla voce verbale huopo o uopo o vopo (il Marciano Zanetti LII huomo!); piú variamente leggono la frase gli altri ventiquattro. Quattordici hanno cioè huopo, uopo, vuopo (Marciano XXI a, della classe IX italiani), oppo (Marciano XXXIII, id. id.); uno ha non tempo cha primer tuo (Marciano CDLXXXVII b, id. id.) ed un altro non ci vuol caprirmiltuo (Marciano Zanetti LIII); quattro de' sette rimanenti (Trivigiano, Marciani XXXI b classe IX ital., Zanetti L e LIV) tradiscono, sotto l'alterazione attuale, quell'originale o antico huo od uo che gli altri tre offrono tuttora nettamente.

Ancora. De' sei codici che leggono aprire o aprirmi due soli appartengono al secolo decimoquarto; al quale invece vanno assegnati ben sedici de' ventiquattro che leggono che aprire o che aprirmi, e tra i sedici s'annoverano i migliori per rispetto alla purezza della lezione, com'è il Marciano Zanetti LV, ascritto già dal Witte alla famiglia di que' ventidue ch'egli giudicò ottimi fra tutti ed assegnato dal Moore alla Famiglia Vaticana (cfr. Giornale dantesco, an. II, quad. V, pag. 185, in fine).

Chiudiamo con un cenno statistico riassuntivo. La lezione del nostro verso, che fu sempre ed è tuttora universalmente accettata, ha dunque per sé un solo quinto de' codici veneti, il quale è costituito, per due terzi, di codici del quattrocento: a costituire invece gli altri quattro quinti, che offrono la lezione sempre ed universalmente reietta, i codici dell'età stessa meno antica concorrono soltanto per un terzo (gli altri due terzi annoverano alcuno de' codici meglio celebrati). Anche rispetto a' manoscritti danteschi del Veneto, adunque, di gran lunga il piú e il meglio dà valore ed autorità alla nostra lezione

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

che l'ottimo de' codici veneziani (Marciano Zanetti LV) riferisce letteralmente cosí: piu non te uopo ch aprirmi il tuo talento.

Fonzaso, settembre 1894.

A. FIAMMAZZO.

Proprietà letteraria.

Città di Castello, Stab. tip. lit. S. Lapi, di 30 ottobre 1894.

G. L. PASSERINI, direttore responsabile LEO S. OLSCHKι editore-proprietario, responsabile.

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