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fatto che sant'Agostino, instigando Orosio a scrivere, del latino di lui si valesse non per sé ma per la Chiesa e per la religione; ma, ad ogni modo, pur se ne valesse. L'obiezione è senza dubbio sottile; ma non inconfutabile. L'espressione si provvide, si badi bene, incontrastabilmente allude al fatto, che sant'Agostino si valse delle opere dell' avvocato, sia in modo diretto per sé, sia per il bene generale della Chiesa; in ogni caso resta a vedere, se realmente sant'Agostino nell'una maniera o nell'altra se ne valse. Ora noi crediamo di potere affermare che sant'Agostino non tenne mai gran conto dell'opera di Orosio; nelle Retractationes, opera pubblicata verso il 427,' dopoché Orosio già da qualche anno aveva pubblicata la sua Storia al capitolo 44 del lib. II si legge: "Inter haec Orosii cuiusdam hispani presbyteri consultationi de Priscillianistis, et de quibusdam Origenis sensibus, quos catholica fides improbat, quanta potui brevitate ac perspicuitate respondi Per sant'Agostino adunque Orosio era sempre quidam hispanus presbyter, quando egli già aveva pubblicata l'opera di cui sant'Agostino si sarebbe valso. Orosio si presentò a sant'Agostino, desiderando da sé medesimo di scrivere contro le eresie propagate nella Spagna sua patria; ed il santo, cui Orosio parve "vigil ingenio, paratus eloquio, flagrans studio, utile vas in domo Domini,, di buon grado lo favorí e lo mandò in Palestina a san Girolamo; cose queste ben diverse dall'essersi valso sant'Agostino dell'opera di Orosio!3

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2o La ghirlanda del cielo del Sole è formata di dodici spiriti; dei quali gli undici sulla persona dei quali non v'ha dubbio, sono certamente teologi: se l'avvocato fosse Orosio, esclusivamente storico, si avrebbe la ghirlanda teologica non più perfetta; cosa del tutto inammissibile.

Mentre da un lato gravemente si può dubitare e quasi escludere che Dante accenni ad Orosio, dall'altro l'opinione che accenni a Lattanzio è saldissima e addirittura inconfutabile. Molti argomenti si possono addurre in favore di essa; basti ricordarne i principali: 1° L'espressione di avvocato dei tempi cristiani, sebbene riferibile anche a Paolo Orosio, si adatta cosí bene a Lattanzio, che meglio non potrebbe. Si ricordi l'occasione in cui questi scrisse le Institutiones. Infieriva in tutto l'impero la persecuzione di Diocleziano; non solo con la violenza delle armi e coi supplizî si combatteva la vera religione; ma eziandio con calunnie sparse carico dei cristiani per mezzo di libelli offensivi; di simili libelli ne fu pubblicato uno anche a Nicome

1 Cfr. EBERT, ivi, pag. 230.

2 Così espone sant'Agostino a san Girolamo (De ratione animae hominis, ep. 166) come conobbe Orosio << Ecce venit ad me religiosus iuvenis, catholica pace frater, aetate filius, honore compresbyter nostres Orosius, vigil ingenio, paratus eloquio, flagrans studio, utile vas in domo Domini esse desiderans ad refellandas falsas perniciosasque doctrinas, quae animas Hispanorum, multo infelicius quam corpora barbaricus gladius trucidavit ». Citiamo secondo l'edizione parigina del 1571.

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3 Non comprendiamo come lo SCARTAZZINI, op. cit., pag. 265 possa affermare che Agostino si provvide delle opere di Orosio a risparmio di fatica e di tempo; poiché se non l'avesse scritta Orosio, l'avrebbe dovuta scriver lui; tanto quella storia era necessaria ad arguir di menzogna i gentili, i quali de' mali d'allora ne incolparono la religione di Cristo,,. Sant'Agostino aveva invece già fatto quel che fece Orosio più ampiamente e con metodo diverso nel De Civitate Dei; come avrebbe dovuto egli scrivere la storia, se la grave quistione egli aveva magistralmente trattata?

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dia: 1e Lattanzio, che ivi si trovava, si pose a difendere la religione intieramente dagli assalti degli avversarî con le Institutiones divinae; delle quali egli stesso dice: "suscepi hoc munus, ut omnibus ingenii mei viribus accusatores iustitiae refutarem, non ut contra hos (gli autori del libello) scriberem, qui paucis verbis obteri poterant, sed ut omnes qui ubique idem operis efficiunt aut effecerunt, uno semel impetu profligarem (Inst., V, 4, 1),. Basta leggere questo passo per comprendere, che a niuno meglio conveniva l'espressione: avvocato dei tempi cristiani, che a Lattanzio. 2° Ed anche le parole tempi cristiani ci sembrano alludere piú direttamente ai tempi della maggior gloria cristiana, delle persecuzioni, all'êra dei martiri, ai tempi cristiani infine per eccellenza, che ai tempi di Orosio, in cui il cristianesimo era già definitivamente trionfante. 3° Si aggiunga, che Lattanzio fu tenuto in gran conto dai maggiori santi padri, quali san Girolamo e sant'Agostino; ché l'uno ne parla spesso con lode, in molti passi delle opere sue (De vir, ill., 80; Chronic, ad an. Abr., 2333; Epist. 48, 13; 58, 10; 60, 10; 70, 5, etc. Comm. in epist. ad Ephes. 1. II c. IV.) l'altro se n'è valso amplissimamente in varie opere, sopratutto nel lib. XVIII del De Civitate Dei, e lo cita (De Civ. Dei, XVIII, 23: inserit etiam Lactantius operi suo quaedam de Christo vaticinia Sibyllae........) come autore da cui egli ha attinto. Il fatto che sant'Agostino esplicitamente afferma di valersi di Lattanzio e le manifeste concordanze fra i due scrittori dovevano indurre Dante a porli ambedue in relazione fra loro. 4° Si aggiunga pure come non manchino traccie di tradizioni, per cui già in antico si riconosceva la stretta dipendenza fra Lattanzio e sant'Agostino. Il Petrarca nelle Epistole senili (I, 4, ad Io. Boccaccium) dice "Quid vero, si quid tale Lactantio dictum esset? Quid si dictum et creditum Augustino? Dicam quod in animo neque ille tam valide peregrinantium superstitionis fundamenta convelleret; neque iste Civitatis Dei muros tanta orte construeret, e nel De ocio religiosorum, cap. 2" Lactantius Firmianus, et ipse magnus vir, in eo libro, quo Gentilium erroribus exarmatis fidem nostram, quantum quivit, armavit; omnemque hanc Deorum scenam mira et laudabili curiositate detexit: inque hoc idem opus Augustino atque aliis sequacibus viam fecit., Noi abbiamo qui che fare con documenti posteriori, sebbene di non molto, all'Alighieri; ma da questo noi non dobbiamo dedurre, che la tradizione letteraria sorga solo nel tempo del Petrarca e che in particolare, come si potrebbe credere, il Petrarca stesso ne fosse l'autore. Un'altra tradizione, la tradizione bibliografica, ancora piú tarda, ma di molto valore, perché non individuale, ma collettiva, ci attesta che le Institutiones furono stampate dal Sweynheim e dal Pannartz a Subiaco nel 1465 (furono la prima opera stampata in Italia); a Roma nel 1468 e che il De Civitate Dei fu pure edito per la prima volta

est:

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1 Cfr. Instit., V, 2 segg. (ed. Brandt).

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I numerosi passi in cui sant'Agostino dipende da Lattanzio sono notati diligentemente dal BRANDT, nelle note alla sua edizione delle Institutiones, Milano, 1890.

3 Cfr. FEA, op. cit., pag. 457.

4 Cfr. BRANDT, Historia critica editionum Lactantii (nei Prolegomena al II volume delle opere di Lattanzio, Vindobonae, 1893), pag. XLII-XLIV.

a Roma nel 1468 medesimo. Il fatto che Lattanzio e sant'Agostino furono editi insieme, nota acutamente il Fea, dimostra che essi erano uniti nella tradizione letteraria comune; tradizione comune, notiamo noi, che già ci è attestata nel '300 dal Petrarca, che a questa tradizione comune non sorta per certo d'un tratto, ma forse sin da quando sant'Agostino sfruttava le opere del Cicerone cristiano, si riconnette; tradizione più antica quindi del Petrarca e del tempo di Dante, che la conosce e se ne vale opportunamente.

Secondo noi, non v'ha dubbio l'avvocato dei tempi cristiani, cui Dante accenna, è Celio Firmiano Lattanzio.

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Qualche osservazione ancora: posto in sodo che Dante intenda parlare di Lattanzio, come deve spiegarsi il primo verso della nostra terzina? Il Fea, che ha nel suo opuscolo talune giuste osservazioni, ma anche taluni spropositi, dice che Dante uni Lattanzio e sant'Agostino e indusse Lattanzio a compiacersene col ride (?!), per aver balenato il primo, dato lume e aperto la strada coll'opera sua, non tanto voluminosa, però piccioletta (?!), Naturalmente non c'è bisogno di confutare il Fea: Lattanzio ride come anima beata; non sta in luce piccioletta, perché la sua opera è poco voluminosa, perché invece le Institutiones sono l'apologia del cristianesimo piú completa e piú ampia (in ben sette lunghi libri) che fosse stata scritta contro i pagani fino a sant'Agostino; e nemmeno ci pare giusta l'opinione dello Scartazzini,' che Lattanzio sia posto in piccioletta luce, avendo il poeta riguardo alla sua povertà, testificataci da un passo di san Girolamo (Chronic. ad ann. Abr. 2333); perché sarebbe questa proporzione della beatitudine alla ricchezza una incongruenza in Dante. Secondo noi Lattanzio sta in piccioletta luce, perché è inferiore a Salomone, a san Dionigi che lo precedono, perché né sommo fra i sapienti, né santo; come è inferiore a Boezio, anima santa, che lo segue. Ad un altro passo di san Girolamo (Epist., LVIII, 10) si potrebbe piuttosto pensare, in cui si dice che Lattanzio fu sommo nel distruggere gli avversarî non però nel fondare su salde basi la dottrina cristiana: "Lactantius, quasi quidam fluvius eloquentiae tullianae, utinam tam nostra adfirmare potuisset quam facile aliena destruxit!, Forse a questo passo pensava Dante3 o, per lo meno, non sappiamo da quali fonti, attingeva e volgeva in mente un identico e diffuso concetto?

Pisa, giugno 1894.

AUGUSTO MANCINI.

1 Op. cit., pag. 457-458.

2 Op. cit., pag. 264.

3 Anche nel passo surriferito del PETRARCA (De ocio religiosorum, 2) si può trovare un accenno allo stesso concetto nelle parole "Lactantius.... Gentilium erroribus exarmatis Fidem nostram, quantum quivit, armavit.,, Si ricordino anche le quistioni sulla maggiore o minore or. todossia di Lattanzio, che già sono accennate nel passo surriferito di san Girolamo.

I SUPERBI, GL'INVIDIOSI, GLI ACCIDIOSI

NELL'INFERNO, DANTESCO

Benché molto siasi scritto su tal questione, ed alcuni siano forse convinti d'averla risolta; tuttavia mi sembra se ne possa dubitare con ragione. E se anch'io entro in essa, lo faccio senza pretesa, e al solo scopo di facilitare agli studiosi di Dante il modo, se pur è possibile, di risolverla.

Secondo la Chiesa i peccati capitali sono sette; e Dante nel Purgatorio si attiene a questa divisione, e procedendo dalla maggiore malizia intrinseca di essi, li distribuisce nei sette cerchi in questa maniera: 1o Superbia, 2o Invidia, 3o Ira, 4o Accidia, 5° Avarizia, 6o Gola, 7° Lussuria. La ragione di tutto questo ce la offre il canto XVII.

L'Inferno invece co' suoi nove cerchi e le loro suddivisioni accoglie ventiquattro classi di peccatori, non tenendo conto degli ignavi. Mentre però ben si vede dove son puniti i lussuriosi, i golosi, gli avari, gl'iracondi; è necessario studiare con molta attenzione per trovar il luogo dei superbi, degli invidiosi, degli accidiosi, i quali pure, come apparisce dalla distribuzione dei peccatori in purgatorio, sono quelli della maggior malizia.

Alcuni interpreti, seguendo Pietro di Dante al quale nessuno vorrà negare grande autorità, vogliono che tutti coloro sieno immersi nello Stige insieme con gl'iracondi. Fa però meraviglia, che l'alta fantasia dell'Alighieri siasi potuta decidere a porre quattro vizi capitali in un medesimo luogo e alla medesima pena. Altri ammettono che in compagnia degli iracondi sieno solo gl'invidiosi e gli accidiosi ; i superbi poi sarebbero rappresentati o dai violenti contro Dio, o dai giganti, o dai traditori, o forse da altri. Né manca chi cerca indarno la punizione dell'invidia o dell'accidia (si badi però sempre che sono peccati di grande malizia); e conclude dicendo che, fra tanta divisione di colpe, queste due nell' Inferno dantesco non si trovano.

Che manchi la punizione di alcuni peccati capitali è impossibile; che tre o quattro di questi peccati sieno puniti nello stesso luogo e quasi della stessa pena, mi sembra improbabile.

Ma potrebbe aver torto Pietro di Dante, che seppe forse la cosa dal padre? In un senso può aver ragione anch'egli; e, se si ha la pazienza di seguirmi in questo mio scritto, lo si vedrà.

Il mio lettore sa bene perché certi vizi si chiamano capitali: questi sono come i capi, o capitani, dietro cui cammina una lunga schiera di vizi, i quali

nascono da ognuno di essi. Prendiamo un poco ad esame la superbia, l'invidia, l'accidia.

La superbia è una soverchia stima di sé. Da questa nascono mille peccati: alcuni restano in noi, altri riescono a danno del prossimo, altri sono contrari direttamente a Dio. Ne nomino alcuni: la vanità, l'ambizione, la finzione, l'ipocrisia la disobbedienza, la contumacia verso ogni autorità, la durezza verso gl'inferiori, le contese, le risse, l'ingratitudine, il livore, la crudeltà, l'omicidio l'infedeltà, l'eresia, l'odio formale a Dio.

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L'invidia è un rattristamento che si ha, in veder altri forniti di beni di qualsiasi fatta. Sgorgano da essa il piacere delle avversità del prossimo, l'afflizione della sua prosperità, l'odio contro questo, la smania di nuocergli, le mormorazioni, le calunnie con tutte le conseguenze che possono avere. Caino per invidia uccise Abele, i giudei per invidia vollero che morisse Gesù Cristo.

L'accidia è un rincrescimento o tedio in fare il bene. Da essa provengono la trascuratezza o ron curanza delle opere buone, la mancanza ai doveri anche essenziali, l'avversione al bene e a chi lo comanda, l'ozio con tutti i peccati, di cui è padre, la disperazione con tutte le male azioni, a cui può trascinare.

È ben chiaro che questi vizi, benché sieno detti capitali, pure non diventano mortali che per l'oggetto o per il concorso di certe circostanze. Si è poi mostrato che ora restano nella propria natura specifica, ora si trasformano in altri vizi; ed è ben difficile che in questo passaggio non diventino gravi.

Pongasi che la passione predominante di uno sia o la superbia o l'invidia o l'accidia; egli è facile che, nell'incontro di certe occasioni, questi vizi arrivino all'eccesso. E cosí il superbo può diventare un ipocrita, un ingrato, un omicida, un miscredente, un odiatore della divinità, e via e via. L'invidioso, se concepisca l'idea di rovinare il prossimo, può diventare frodolento, traditore.... ed anche omicida. Finalmente l'accidioso, annoiandosi di una legge che gli pare insopportabile, può giungere all'odio, al furore contro chi volesse correggerlo, alla infedeltà, allo sdegno contro Dio, per non parlare di altri delitti, quali possono essere la scostumatezza, il suicidio....

È da riflettersi anche, che il poeta, nell'assegnare a ciascun peccatore la pena, ebbe di mira non tutti i peccati, di che poteva esser bruttato, ma solo quello che in lui era il predominante, o quello che era il piú grave.

Ora accingiamoci a dare una corsa per lo Inferno dantesco. Noi troviamo nell'antinferno una gente, il cui peccatc non è facile di qualificare. Sono anime che non hanno lasciato alcuna fama di sé, sono sciaurati che mai non fur vivi; e di uno in particolare si nota la viltà, per la quale fece un gran rifiuto. (Come mai costui ha potuto vivere senza infamia?).1 Egli sembra uno di quei timidi, riprovati da Dio, dei quali parla san Giovanni, pare un pu

1 V. Giornale dantesco, anno I, quaderno VI, pag. 256.

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