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Noi abbiamo dunque, nell'opera di Dante, due opere diverse, il cui andamento si svolge in modo che non è sempre identico, nè sempre il medesimo, come vorrebbe l'Agnelli, che mi rimprovera di vedere nell'inferno superiore il simbolo letterale e determinatissimo dell'esame di coscienza imperfetto, nel quale non si vuole introdurre l'ammaestramento della Chiesa, con tutto che il cerchio degli Eresiarchi faccia parte di quel regno dell' al

tra vita.

Quando due opere d'arte hanno intime connessioni e intimi legami l'una coll'altra, può essere che, in certi casi, ammettano diversità d'ogni genere, e anche, dev'esser così, poichè il procedimento della prima è talvolta più generale di quello dell'altra.

Questo si osserva continuamente nell' arte del canto. La medesima frase musicale, si adatta con bellezza ed esattezza maravigliosa ai pensieri diversi, e anche opposti, che vengono dichiarati nel poema. Gli esempii sono frequentissimi. Volendo addurre un esempio unico, prenderò il duetto di Linda e del Marchese, nella Linda di Chamounix. Le offerte indegne, e l'ipocrisia sprezzante del vecchio drudo si cantano colle medesime note che il rifiuto glorioso della Linda, e qui non si può dire che si tratti d'arte inferiore: si tratta forse del più bel pezzo di musica buffa del teatro italiano, e si tratta di recitativi obbligati, cioè del genere nel quale il legame del canto colla poesia è il più stretto possibile.

Lo stesso avviene nelle cose della vita umana. Il Cesare, il filosofo, il poeta, sono individui che hanno due vite diverse. Hanno la vita umana semplice, che è quella degli uomini volgari, hanno la vita gloriosa e immortale che è cosa mistica, ideale, e divina. Giulio trionfatore di Roma soggiace all'amore immondo di Nicomede; il Galileo che spezza con mano invitta e forte le macchine celesti di Tolomeo dichiara innanzi ai giudici del tribunale, di rinunziare alle opinioni pittagoriche.

L'opera di Dante non sarebbe nè artistica, nè umana, nè vera, se quella medesima indipendenza non vi si dovesse ritrovare fra il poema volgare, letterale, semplice, che tutti possono intendere e vagheggiare, e il sistema teologico profondo che si nasconde nelle portentose allegorie del massimo maestro. I due sensi possono in certi luoghi unirsi e vincolarsi con tale e tanta forza che vengono a confondersi in uno solo, come nell'esame degli apostoli nel cielo stellato. Ma in generale sono separati e diversi, e. se non lo fossero, allora invece delle tre divine canzoni, si avrebbe qualche romanzo freddo e intollerabile, come la Clelia della Scudéry colle immagini del viaggio d'Amore che si fa dal viaggio di Petits Soins al fiume del Tendre.

Riprendiamo dunque la comparazione del canto. Non sempre sarà unica la melodia che si adatta sulle parole. Talora accade che la voce si riposa,.

Giornale dantesco

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e che i violini vengono a introdurre anch'essi un sistema di melodia affatto nuovo, e differentissimo di quello che si forma sulle labbra dell'uomo.

Così, nel poema di Dante, vedremo di quando in quando, mentre l'allegoria generale tace, e in certo modo sparisce agli sguardi del contemplante, altre allegorie, diverse daila prima, che verranno a unirsi col senso letterale. Fra queste, la più gloriosa è l'allegoria astronomica, nella quale il poeta si dichiara per avversario del sistema tolemaico. Abbiamo ancora l'allegoria politica, tanto vagheggiata nelle chiose, e considerata fin qui come cosa di prim' ordine, mentre i fatti dimostrano che quei cenni sono di pochissima importanza per l'intendimento generale delle tre canzoni.

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Ora vengo agli Eretici.

L'Agnelli dice che «a esaminare le colpe d'eresia non basta la sola ragione, nè la filosofia morale..... che i peccati d'eresia non possono » appartenere se non a chi è o fu una volta tra i fedeli, ecc. »

Va benissimo, e anche per me l'eretico è quel cristiano che non vuole obbedire alla Chiesa, e fa per esempio quel che fecero Ario, e Sabellio, che vengono menzionati nel poema, e sono egregii esempii di tal peccato. Ma Dante non giudica opportuno di metter Sabellio, nè Ario nelle arche del suo sesto cerchio.

In primo luogo abbiamo Epicuro.

Che razza d'eretico è costui?

Poi tutti i suoi seguaci. Ma pare che vi siano eccezioni, poichè Orazio disse di sè medesimo: Cum ridere voles Epicuri de grege porcum, ed egli fa il suo soggiorno nel castello del Limbo, invece di essere abbruciato con Farinata degli Uberti, e con Federigo.

E Federigo? Fu veramente seguace d'Epicuro quell'imperatore? Ma allora non fu eretico, fu pagano, fu uomo che del domma cristiano nonammetteva niente. E come và che di questo rimprovero non si fa parola negli atti del Concilio di Lione? Sarebbe forse per isquisitissima delicatezza del papa?

Quanto a Farinata, egli medesimo spiega il suo peccato con parola di tale e tanta eloquenza, e in versi così belli e ardenti, che il dubbio non può esistere. Quel peccato è lo spirito di parte. Farinata è dannato perchè ghibellino, e lo stesso si dirà del Cardinale e di Federigo; e di Cavalcante si dirà che è dannato perchè guelfo, fin al giorno in cui la storia ci rechi documenti per dimostrare come un vecchio nobile fiorentino del duecento potesse vagheggiare le dottrine filosofiche d'Epicuro, del quale è probabile ch' egli non sapeva nemmeno il nome.

Poi abbiamo papa Anastasio. Qui sarebbe lungo l'elenco delle bestialità e sciocchezze che vennero infilzate dai chiosatori. Sarebbe anche affatto

inutile. Chi non sa la storia dei bassi secoli può impararla agevolmente in qualche Handbuch tedesco, o manuale italiano. Dante sbaglia. Invece d'un papa, si tratta d'un imperatore, e questi veramente fu eretico, ma eretico eutichiano. Ciò vuol dire che non teneva per doppia la natura di Gesù Cristo. Credeva che Gesù Cristo non avesse la natura umana, e avesse la sola natura divina.

La considerazione di quell' eresia ritorna con grandissima frequenza nel poema. Giustiniano dice, nella visione di Mercurio, che prima di por mano alla compilazione delle leggi credeva una natura in Cristo esser, non fine. Si sà che quell'imperatore fu eutichiano, e poi ritornò alla fede romana, e cattolica. Ma Dante vuol farci intendere che le sue leggi sarebbero cattive, s' egli le avesse dettate quando era guelfo .... mi è sfuggita quella parola: diciamo piuttosto eutichiano. La parte guelfa distrugge, nell' edifizio politico dell' imperio, la potenza temporale e umana, che è quella del Cesare, e l'eresia eutichiana cancella in Gesù Cristo la natura umana. Da una parte come dall'altra, ciò che doveva rimaner doppio diviene semplice, e diviene tale per esagerazione del principio divino.

Nell' inferno dei sodomiti abbiamo Brunetto Latini, il vescovo Andrea dei Mozzi, il giurista Francesco Accurzio, - la cui segnatura si legge nelle carte dell'Archivio di Marsiglia (Liasse B, 365) in un trattato d'alleanza fra Carlo d'Angiò e alcune città di Lombardia, -- Guidoguerra, Jacopo Rusticucci, Guglielmo Borsiere, Tegghiaio Aldobrandi, tutti guelfi. Strana coincidenza in verità. Si dovrebbe dunque ammettere che fosse obbligatorio quel vizio nella fazione guelfa di Firenze e dell'alta Italia, e che gli scrittori ghibellini, per gentilezza e cortesia, non ne abbiano mai detto parola. Ma il più stupendo di quei sodomiti è Prisciano. Di quel povero uomo non si sà nulla di nulla, se non che fu grammatico dei bassi secoli come Dante. La sua ombra potrebbe maledire l'ingiustizia e la parzialità di Dante, che schiera Donato, nella visione del sole, fra gli spiriti eletti, e rinchiude il suo infelicissimo collega nel cerchio infernale, non senza imporgli la macchia d'un vizio piuttosto brutto. E per questo non si vedono ragioni, se non sarà forse che il poeta voglia far buffonate, e mistificare i posteri.

Ma il nome di Prisciano rassomiglia assai, (se non è del tutto identico) quello di Priscilliano, eretico dei bassi secoli, che non voleva riconoscere in Gesù Cristo la natura umana.

Chi non vuole ammetter quella confusione nei nomi osservi pure un' altra confusione del medesimo genere, che esiste fra Eutiche, eresiarca, e Eutiche grammatico del sesto secolo, e discepolo di Prisciano.

Mi fermo in quella via, che è troppo lunga per esser percorsa in un giorno solo. Mi limito a dire che gli eretici danteschi son guelfi e ghibel

lini, tutti infiammati dello spirito di parte, e infiammatissimi per l'esiglio, che pare a Farinata il massimo tormento, e il massimo disonore. E sul letto infuocato, egli quando si rammenta che i suoi figli non seppero imparar l'arte del ritorno, esclama che la sua vera dannazione è quella, piuttosto che l'inutile tortura dell'inferno materiale.

Il corpo della patria è il recinto della città; è l'insieme dei palazzi, delle case, dei beni dei cittadini. L'anima è l'amore della patria medesima che rimane vivo nel cuore dell' esigliato. E per questo dice, nella nostra poesia, l'eroe romano esigliato e libero e glorioso:

Rome n'est plus dans Rome; elle est toute où je suis.

Queste son le verità morali e politiche che il guelfo e il ghibellino non possono intendere. Fanno l'anima morta col corpo, al modo del falso e allegorico Epicuro che giace nei sepolcri con Federigo e Cavalcante.

Pare veramente al mio critico che queste non siano idee da giudicarsi colla sola ragione, e colla filosofia morale?

S'egli mi risponde di no, gli farò altre richieste. Voglio che mi dica quando e come fu battezzato Epicuro, e per qual grazia Dante volle risparmiare a Orazio il supplizio del suo maestro di filosofia, e quali furono i motivi potentissimi che i Padri del concilio di Lione seppero ritrovare per astenersi d'ogni rimprovero sull' epicureismo di Federigo.

DR. PROMPT.

CHIOSE DANTESCHE

IL LUNGO SILENZIO DI VIRGILIO

[Inf., I, 63].

Il sig. E. Bertana, non sodisfatto a ragione del valor letterale attribuito dai più al verso

chi per lungo silenzio parea fioco,

ne propone un altro (1), maravigliandosi che a tanti valentuomini sia sembrata «< necessaria e legittima... per quanto strana e forzata » la nota interpretazione: «... Virgilio che morto da lunghissimi anni e rimasto per lunghissimi anni in silenzio, pareva debole di corpo e di voce: di voce sopratutto».

(1) V. La Biblioteca delle scuole classiche italiane, an. VI serie 2, n. 3, 1 nov. 1893.

Riassunta così la chiosa, egli principia dal negar valore a quella che il Blanc disse la gran prolessi: « Qui non è Dante che anticipi il racconto di ciò che sa; qui son piuttosto i suoi espositori che vogliono fargli dire ciò che non dice e, peggio ancora, ciò che non avrebbe certo potuto e voluto dire»; fioco non è infatti chi a breve distanza dalla propria apparizione fila un discorso di cinquantanove parole... per dire: Son l'ombra di Virgilio semplicemente ».

. Ma perchè poi avrebbe dovuto esser fioco Virgilio?... Già si stenta un po' a capire come il silenzio indebolisca la voce; comunemente si suppone invece che l'afonia venga più dal troppo parlare che dal troppo tacere;... il nobile castello dove Virgilio dimora nel Limbo, non è . . . un convento di trappisti,........ gli Spiriti magni parlan tra loro...:

parlavan rado con voci soavi »,

e non già con voci fioche. « Dunque il senso letterale... un senso ragionevole... è ancor da trovare; ed alcuni chiosatori antichissimi e recentissimi, ... di questo verso non diedero che un' interpretazione allegorica ».

Qui il sig. Bertana cita il noto passo del Convivio [II, 1] ove, a proposito delle varie sentenze, Dante afferma l'impossibilità di « venire alle altre, massimamente all' allegorica, senza prima venire alla [sentenza] litterale »; e, rilette le due terzine:

rileva il

V canto:

Tal mi fece la bestia senza pace

che venendomi incontro a poco a poco,
mi ripingeva là dove il sol tace.
Mentre ch'io ruinava in basso loco
dinanzi agli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco,

a riscontro evidente» dell'audace catacresi ch'è qui nel terzo verso con quella del

Io venni in loco d'ogni luce muto.

Dove il sol tace vale quanto dove il sole non splende, cioè dove son tenebre; loco d'ogni luce muto val quanto luogo privo d'ogni luce, cioè buio, tenebroso ancora ».

D

Si prenda quindi il silenzio nel senso traslato di tenebra e si osservi la giacitura. Dante amava codesti parallelismi - dei due ultimi versi delle terzine citate; e si dovrà « intuire che all'espressione metaforica del primo [Mi ripingeva là dove il sol tace] risponde la forma del secondo [Chi per lungo silenzio parea fioco]; l'una metafora prepara e rischiara

l'altra ».

• Posto dunque che quel silenzio sia il silenzio del sole, cioè la tenebra, il racconto può essere così tradotto: Mentre ch'io rimaneva in basso loco, dinnanzi agli occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio del sole, cioè per essere lungamente rimasto dove il sol tace, fra le tenebre, pareva fioco, cioè pallido, smunto, di sembiante spettrale ».

La difficoltà del non trovare altro esempio di fioco, come aggettivo di colore,.. nella Commedia, potrà apparir ben lieve chi ripensi che Dante dice fioca anche la luce [Com' io discerno per lo fioco lume ] e dalla luce al colore è breve il passo, poichè luce e colore, sostanzialmente, sono la stessa cosa ».

Or come potrebbe il sig. Emilio Bertana spiegare un' altra e men lieve difficoltà che gli

si facesse notare?

Per assumere cioè « quel scialbo colore di chi non vede da molto tempo la luce », è poi vero che Virgilio fosse lungamente rimasto dove il sol tace, fra le tenebre ? No, non

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