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inutile. Chi non sa la storia dei bassi secoli può impararla agevolmente in qualche Handbuch tedesco, o manuale italiano. Dante sbaglia. Invece d'un papa, si tratta d'un imperatore, e questi veramente fu eretico, ma eretico eutichiano. Ciò vuol dire che non teneva per doppia la natura di Gesù Cristo. Credeva che Gesù Cristo non avesse la natura umana, e avesse la sola natura divina.

La considerazione di quell' eresia ritorna con grandissima frequenza nel poema. Giustiniano dice, nella visione di Mercurio, che prima di por mano alla compilazione delle leggi credeva una natura in Cristo esser, non fine. Si sà che quell'imperatore fu eutichiano, e poi ritornò alla fede romana, e cattolica. Ma Dante vuol farci intendere che le sue leggi sarebbero cattive, s' egli le avesse dettate quando era guelfo .... mi è sfuggita quella parola: diciamo piuttosto eutichiano. La parte guelfa distrugge, nell' edifizio politico dell' imperio, la potenza temporale e umana, che è quella del Cesare, e l'eresia eutichiana cancella in Gesù Cristo la natura umana. Da una. parte come dall'altra, ciò che doveva rimaner doppio diviene semplice, e diviene tale per esagerazione del principio divino.

Nell'inferno dei sodomiti abbiamo Brunetto Latini, il vescovo Andrea dei Mozzi, il giurista Francesco Accurzio, la cui segnatura si legge nelle carte dell'Archivio di Marsiglia (Liasse B, 365) in un trattato d'alleanza fra Carlo d'Angiò e alcune città di Lombardia, Guidoguerra, Jacopo Rusticucci, Guglielmo Borsiere, Tegghiaio Aldobrandi, tutti guelfi. Strana coincidenza in verità. Si dovrebbe dunque ammettere che fosse obbligatorio quel vizio nella fazione guelfa di Firenze e dell'alta Italia, e che gli scrittori ghibellini, per gentilezza e cortesia, non ne abbiano mai detto parola. Ma il più stupendo di quei sodomiti è Prisciano. Di quel povero uomo non si sà nulla di nulla, se non che fu grammatico dei bassi secoli come Dante. La sua ombra potrebbe maledire l'ingiustizia e la parzialità di Dante, che schiera Donato, nella visione del sole, fra gli spiriti eletti, et rinchiude il suo infelicissimo collega nel cerchio infernale, non senza imporgli la macchia d'un vizio piuttosto brutto. E per questo non si vedono ragioni, se non sarà forse che il poeta voglia far buffonate, e mistificare i posteri.

Ma il nome di Prisciano rassomiglia assai, (se non è del tutto identico) quello di Priscilliano, eretico dei bassi secoli, che non voleva riconoscere in Gesù Cristo la natura umana.

Chi non vuole ammetter quella confusione nei nomi osservi pure un' altra confusione del medesimo genere, che esiste fra Eutiche, eresiarca, e Eutiche grammatico del sesto secolo, e discepolo di Prisciano.

Mi fermo in quella via, che è troppo lunga per esser percorsa in un giorno solo. Mi limito a dire che gli eretici danteschi son guelfi e ghibel

lini, tutti infiammati dello spirito di parte, e infiammatissimi per l'esiglio, che pare a Farinata il massimo tormento, e il massimo disonore. E sul letto infuocato, egli quando si rammenta che i suoi figli non seppero imparar l'arte del ritorno, esclama che la sua vera dannazione è quella, piuttosto che l'inutile tortura dell'inferno materiale.

Il corpo della patria è il recinto della città; è l'insieme dei palazzi, delle case, dei beni dei cittadini. L'anima è l'amore della patria medesima che rimane vivo nel cuore dell' esigliato. E per questo dice, nella nostra poesia, l'eroe romano esigliato e libero e glorioso:

Rome n'est plus dans Rome; elle est toute où je suis.

Queste son le verità morali e politiche che il guelfo e il ghibellino non possono intendere. Fanno l'anima morta col corpo, al modo del falso e allegorico Epicuro che giace nei sepolcri con Federigo e Cavalcante.

Pare veramente al mio critico che queste non siano idee da giudicarsi colla sola ragione, e colla filosofia morale?

S'egli mi risponde di no, gli farò altre richieste. Voglio che mi dica quando e come fu battezzato Epicuro, e per qual grazia Dante volle risparmiare a Orazio il supplizio del suo maestro di filosofia, e quali furono i motivi potentissimi che i Padri del concilio di Lione seppero ritrovare per astenersi d'ogni rimprovero sull' epicureismo di Federigo.

DR. PROMPT.

CHIOSE DANTESCHE

IL LUNGO SILENZIO DI VIRGILIO

[Inf., I, 63].

Il sig. E. Bertana, non sodisfatto a ragione del valor letterale attribuito dai più al verso

chi per lungo silenzio parea fioco,

ne propone un altro (1), maravigliandosi che a tanti valentuomini sia sembrata « necessaria e legittima,.. per quanto strana e forzata » la nota interpretazione: «... Virgilio che morto da lunghissimi anni e rimasto per lunghissimi anni in silenzio, pareva debole di corpo e di voce: di voce sopratutto ».

(1) V. La Biblioteca delle scuole classiche italiane, an. VI serie 2, n. 3, 1 nov. 1893.

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Riassunta così la chiosa, egli principia dal negar valore a quella che il Blanc disse la gran prolessi: « Qui non è Dante che anticipi il racconto di ciò che sa; qui son piuttosto i suoi espositori che vogliono fargli dire ciò che non dice e, peggio ancora, ciò che non avrebbe certo potuto e voluto dire»; fioco non è infatti chi a breve distanza dalla propria apparifila un discorso di cinquantanove parole... per dire: Son l'ombra di Virgilio semplicemente ».

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« Ma perchè poi avrebbe dovuto esser fioco Virgilio?... Già si stenta un po'a capire come il silenzio indebolisca la voce; comunemente si suppone invece che l'afonia venga più dal troppo parlare che dal troppo tacere;... il nobile castello dove Virgilio dimora nel Limbo, non è . . . un convento di trappisti,.......... gli Spiriti magni parlan tra loro...:

parlavan rado con voci soavi »,

e non già con voci fioche. « Dunque il senso letterale... un senso ragionevole... è ancor da trovare; ed alcuni chiosatori antichissimi e recentissimi, ... di questo verso non diedero che un' interpretazione allegorica ».

Qui il sig. Bertana cita il noto passo del Convivio [II, 1] ove, a proposito delle varie sentenze, Dante afferma l'impossibilità di venire alle altre, massimamente all' allegorica,

senza prima venire alla [sentenza] litterale »; e, rilette le due terzine:

Tal mi fece la bestia senza pace

che venendomi incontro a poco a poco,
mi ripingeva là dove il sol tace.
Mentre ch'io ruinava in basso loco
dinanzi agli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco,

rileva il riscontro evidente» dell'audace catacresi ch'è qui nel terzo verso con quella del V canto:

Io venni in loco d'ogni luce muto.

Dove il sol tace vale quanto dove il sole non splende, cioè dove son tenebre; loco d'ogni luce muto val quanto luogo privo d'ogni luce, cioè buio, tenebroso ancora ».

Si prenda quindi il silenzio nel senso traslato di tenebra e si osservi « la giacitura Dante amava codesti parallelismi — dei due ultimi versi» delle terzine citate; e si dovrà « intuire che all'espressione metaforica del primo [Mi ripingeva là dove il sol tace] risponde la forma del secondo [Chi per lungo silenzio parea fioco]; l'una metafora prepara e rischiara

l'altra ».

Posto dunque che quel silenzio sia il silenzio del sole, cioè la tenebra, il racconto può essere così tradotto: Mentre ch'io rimaneva in basso loco, dinnanzi agli occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio del sole, cioè per essere lungamente rimasto dove il sol tace, fra le tenebre, pareva fioco, cioè pallido, smunto, di sembiante spettrale ».

La difficoltà del non trovare altro esempio di fioco, come aggettivo di colore,.. nella Commedia potrà apparir ben lieve chi ripensi che Dante dice fioca anche la luce [Com' io discerno per lo fioco lume ] e dalla luce al colore è breve il passo, poichè luce e colore, sostanzialmente, sono la stessa cosa ».

Or come potrebbe il sig. Emilio Bertana spiegare un'altra e men lieve difficoltà che gli

si facesse notare?

Per assumere cioè « quel scialbo colore di chi non vede da molto tempo la luce», è poi vero che Virgilio fosse « lungamente rimasto dove il sol tace, fra le tenebre »? No, non

lo crediamo: egli veniva da quel luogo del primo cerchio che, di tutto l'Inferno, è il solo illuminato, perchè l'«onrata nominanza degli spiriti eletti che lo abitano

grazia acquista nel ciel che sì gli avanza:

[Inf., IV, 78]

mentre invece le altre anime, com'è noto, sono dannate eternamente nella

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giunto poi infino alla lumiera ed entrato nel nobile castello, ei si trarrà, con gli altri cinque poeti,

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o, come dirà tosto appresso [per far anche meglio spiccar quivi il contrasto con di fresca verdura », lieto di viva luce], giungerà

... in loco d'ogni luce muto.

[ib., V, 28]

« il prato

Lo scialbo colore dei sepolti vivi nelle tetre carceri d' un tempo » [Bertana] non poteva aver dunque reso fioca l'ombra di Virgilio, la quale, per giunta, di breve soltanto s'era dipartita da quella privilegiata regione infernale.

Nè l'accennata frase dell'entusiastico:

Onorate l'altissimo poeta!

l'ombra sua torna, ch' era dipartita,

[ib. IV, 80]

può toglier valore all'affermazione che soltanto di breve Virgilio avesse lasciato la compagnia de' quattro poeti; essa attesta semplicemente la gentilezza d'animo onde tardava loro il ritorno dell'eletto collega.

Si ricordi infatti la premurosa fretta con la quale Virgilio promise a Beatrice di muovere in aiuto dello sventurato amico di lei:

Tanto m'aggrada il tuo comandamento

che l'ubbidir, se già fosse, m'è tardi:
più non t'è uo' che aprirmi il tuo talento;

[ib. II, 77]

si ripensi quella sollecitudine, non ritardata che dal desiderio di Virgilio d'udire la cagione. onde Beatrice non s'era fatta riguardo di scender dall' empireo nell'inferno; quella solleci tudine che l'anima cortese mantovana credette anche opportuno dichiarar tosto a Dante stesso, quando, riferita la preghiera di Beatrice, soggiunse:

Poscia che m'ebbe ragionato questo,
gli occhi lucenti lagrimando volse;
perchè mi fece del venir più presto;
e venni a te, così com'ella volse:

[ib. II, 115]

si ripensi, dico, tutto questo e si ficonoscerà che la successione, evidentemente rapidissima de'fatti, esclude quel lungo spazio di tempo che sarebbe durata l'assenza di Virgilio dal limbo. Ma la successione rapida dei fatti, anzi che interrotta, è meglio dimostrata dal breve [ib. II, 86] racconto di Beatrice, il quale dà appunto la misura del ritardo frapposto da Virgilio all'esecuzione de' voleri di lei.

La donna gentile chiese Lucia e le raccomandò il suo fedele; Lucia si mosse e venne a dimandar a Beatrice perchè non soccorresse lui che l'aveva tanto amata e che per lei era uscito della volgare schiera; Beatrice poi, temendo già il proprio amico sì smarrito che il soccorso non gli giungesse omai tardo, così efficacemente esprime a Virgilio nel limbo la sollecitudine propria:

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Dante stesso infine riconferma la prontezza di Virgilio nell'accorrere a lui, quando, per ringraziarnelo, esclama:

O pietosa colei che mi soccorse,

e tu cortese, che ubbidisti tosto

alle vere parole che ti porse.

[Inf., II, 133]

Codesta sollecitudine di Virgilio del resto appare tanto chiara e singolare da offrir ar

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