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troppo grande per chiudere a Catilina i varchi degli Apennini, "qua illi descensus erat in Galliam properanti, (Cf. anche Mommsen R. G. III, pag. 179).

Se adunque di due storiografi l'uno si riferisce all'altro, e tutti e due menzionano nel racconto della stessa cosa gli stessi nomi per cosí dire tutto d'un fiato, e se nella narrazione del più antico degli scrittori non si trova la menoma difficoltà di spiegare i nomi, mentre che nel secondo ne risulta un enimma insolubile, non mi pare davvero una supposizione troppo ardita di dire, che questo abbia male inteso le parole del suo autore.

Da che cosa lo sbaglio sia stato cagionato, non è in fatti facile dirlo. Ché nel cap. 33, quando dice, che Metello si trovava in Lombardia presso alle montagne dell'Alpi Apennine nelle contrade di Modena,, dove appunto deve essere giunto dal vero agro Piceno, il Villani si trova di nuovo pienamente d'accordo coi fatti della storia. Può essere che od una lacuna od una alterazione nel manoscritto, nel quale il Villani leggeva la storia di Catilina, fosse la causa del malinteso. Forse anche il fatto, che l'antico agro Piceno dista tanto dal teatro della guerra, avrà contribuito alla confusione. In ogni caso, mi pare impossibile di supporre che il Villani, trascurando quell' agro Piceno menzionato da Salustio, nel luogo interamente corrispondente del suo racconto abbia voluto pensatamente parlare di un campo Piceno tutto differente.

L'indicazione del luogo stranamente precisa ("cioè disotto ove è oggi il castello di Fucechio „), se non si vuole ammettere anche qui un simile difetto del testo antico, (forse nel passo "sub ipsis radicibus montium consedit,), il vecchio cronista potrebbe averla aggiunta di suo in piena buona fede. E questa libertà nessuno di tutti quei commentatori, che nelle loro annotazioni concernenti il campo Piceno non sono stati piú scrupolosi di lui, potrà certo rimproverargliela.

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Al pari del Villani mi pare che anche Dante abbia male inteso il racconto di Salustio, non però interamente nello stesso modo. Il Villani credo che supponga l'agro Piceno soltanto nelle vicinanze dell'agro pistoiese, onde trovò necessario di fissarne il sito preciso. Dante invece identifica semplicemente 'agro piceno e l'agro pistoiese. Questa lieve differenza mi pare che parli in favore della supposizione, che non l'uno fosse dipendente dall'altro, ma che Dante il Villani abbiano attinto tutti e due ad una fonte comune, della quale poi ciascuno avrebbe fatto uso a modo suo. Che però il racconto di Salustio sia la cagione primitiva del malinteso, del quale trattiamo, ce lo prova anche l'annotazione di Francesco da Buti, il quale tocca quasi alla vera soluzione, per ricadere poi nello sbaglio fatto da Dante e dal Villani, quando dice: "Questo campo è nella Marca o ancor è in quello di Pistoja, del quale fa menzione Sallustio quando tratta della congiura e battaglia di Catellina E una nota simile si legge nel codice Cassinese. Dante adunque vede nel campo Piceno il campo di battaglia, nel quale furono sconfitti Catilina e i fieri suoi seguaci. Ma siccome anche lui, al pari del Villani, presta fede alla tradizione concernente la fondazione della città di Pistoja, vuol dire che i catilinarj feriti, superstiti della sconfitta, avessero stabilito la loro dimora

Giornale dantesco.

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presso al campo di battaglia (cf. Inf., 25, 12), cosí il campo Piceno per Dante non è proprio nient'altro che il territorio della città di Pistoja, né col combattimento sopra campo Piceno vuole indicare altro che l'assedio di Pistoja stessa, del di cui esito Vanni Fucci in fatti e solo di esso a ragione poté predire:

Sí ch'ogni bianco ne sarà feruto.

A scegliere finalmente questo nome, da lui supposto antico, per indicare il territorio di Pistoja, Dante sarà stato indotto oltre che dalla tendenza di essere misterioso nelle sue parole, caratteristica per tutta la profezia di Vanni Fucci, anche dal desiderio di fare risaltare la rassomiglianza fra la disperata e accanita lotta finale dei pistojesi e la fine dei loro antenati, i catilinarj fieri e protervi.

La soluzione, alla quale siamo pervenuti, ci costringe, è vero, ad accusare Dante di poca esattezza. Ma la nostra ammirazione pel sovrano poeta non può essere menomata mai e poi mai dal riconoscere, che neanche l'ingegno il piú alto colle sue penne d'aquila, non è capace di trasvolare i limiti che gli ha segnati la coltura del tempo suo.

Schwetzingen, agosto 1894.

VARIETA'

ALFRED BASSERMANN.

IL SENSO LETTERALE DEL PRIMO CANTO DELL'INFERNO

E IL VERSO 63 °.

Uno dei versi della Commedia, sui quali da qualche tempo si va di piú esercitando l'inge. gno di valenti dantisti, è il 63° del primo canto dell' Inferno. Si è formata, direi quasi, una nobile gara per iscoprire in quel verso il senso letterale (l'allegorico è sembrato sempre chiaro), il quale pur deve esserci, se si tien conto di quanto Dante stesso dice nel Convivio (Tratt. II, 1.). Non son molte le parole di Dante su questo proposito e perciò mi permetto di riferirle. "Dico.... che le scritture si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si distende più oltre che la lettera propia, siccome è la narrazione propia di quella cosa che si tratti........ L'altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto il manto di.... favole, ed è una verità ascosa sotto bella menzogna. .. . Il terzo senso si chiama morale, e questo è quello che

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li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, a utilità di loro e di loro discenti... Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovra senso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale eziandio nel senso litterale, per le cose significate, significa delle superne cose dell'eternale gloria; siccome veder si può in quel canto del Profeta, che dice che nell'uscita del popolo d'Israele d'Egitto, la Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna esser vero, secondo la lettera, sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che nell'uscita dell' anima del peccato, essa si è fatta santa e libera in sua potestade. E in dimostrare questo sempre lo litterale deè andare innanzi, sic come quello, nella cui sentenza gli altri sono inchiusi, e senza lo quale sarebbe impossibile e irrazionale intendere gli altri; e massimamente l'allegorico è impossibile.... Onde conciossiacosaché la litterale sentenza sempre sia suggetto e materia dell' altre, massimamente dell' allegorica, impossibile è prima venire alla conoscenza dell' altre, che alla sua. E però "se gli altri sensi da litterali sono meno intesi (che sono, siccome manifestamente appare), irrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. Da queste parole si rileva 1o che oltre al senso letterale in uno scritto può esservi altro senso, che principalmente sarà o allegorico o morale o anagogico; 2o che se in uno scritto è altro senso, specie l'allegorico, il letterale non può e non deve mai mancare; 3° che gli altri sensi sono sempre meno intesi del senso letterale, la dimostrazione del quale, anzi, è indispensabile per giungere alla conoscenza di quelli. Se dunque Dante seguí questo medesimo criterio nella Commedia, il che non si può non ammettere, anche il verso 63° sopra ricordato deve avere il suo senso letterale; anzi potrebbe mancare degli altri, ma di questo non mai. Si potrà quindi ritenere giustificato l'ardore, col quale si è cercato di dimostrare quel senso, e i lettori mi compatiranno, se anch'io m'arrischio ad entrare nella gara. Una meraviglia peraltro non posso asten ermi dal mostrare, ed è che nell'interpretazione letterale del primo canto dell' Inferno l'attenzione sia andata a posarsi proprio sul verso 63°, mentre in altri passi questa interpretazione, se non sfugge addirittura, riesce però molto piú inesatta che in quello. Potrebbe dirsi che il poeta, preoccupato dall' allegoria, si sia lasciato sfuggire espressioni che troppo bene l'hanno svelata, con danno evidente, come parmi, del senso letterale del racconto. Cominciando dalla descrizione della selva, egli si lascia sfuggire il verso:

Tanto è amara che poco è piú morte,

nel quale, se l'amara deve riferirsi a selva, come vogliono i migliori commentatori, il verbo essere usato al presente, mentre precedentemente era stato usato all' imperfetto, tradisce l'intenzione del poeta che si tratti qui d'una selva speciale, cioè di quella dei vizi. Ed a questo proposito (poiché su questo punto si vede una certa trascuratezza da parte dei commentatori) farò notare, cosí di sfuggita, che nel senso allegorico la morte non è la corporale, ma la spirituale, cioè l'eterna dannazione.' Nella terzina:

Cosí l'animo mio, che ancor fuggiva,

si volse indietro a rimirar lo passo,
che non lasciò giammai persona viva,

mentre dobbiamo notare, come abbiamo fatto per il verso su riportato, che il poeta allude ad un passo ben determinato e conosciuto, rileviamo anche, per il senso letterale, una contradizione con quel verso stesso; ché lí la selva era detta poco meno amara che la morte, quindi non era la morte, mentre qui il passo (che è la selva), non lasciando persona viva, è con la morte una cosa sola. Allegoricamente tutto si spiega, quando ci richiamiamo alla memoria le parole del Convivio (Tratt. IV, 7): "Veramente morto il malvagio uomo dire si può.......... Vivere nell'uomo è ragione usare 2 In altri termini, allegoricamente, il vivere nel vizio è poco

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1 V. il mio scritto La morte nell'Inferno,, dantesco in questo Giornale quad. II-III. An. 2o. 2 Cf. anche il mio scritto sopra citato, pag. 58.

meno che la dannazione eterna e chi rimane nel vizio non può avere speranza di salvezza. Passando poi alla lupa, il poeta dice che molte genti fe' già viver grame (v. 51), che molti son gli animali, a cui si ammoglia (v. 100) e che sarà ricacciata nell'inferno, là onde invidia prima dipartilla (v. 1). Tutto ciò si comprende, quando si pensi ad una lupa nel senso allegorico, ma riesce assolutamente inesplicabile, se vi si voglia trovare un senso letterale qualsiasi. Che se qualcuno volesse osservare come gli ultimi due di questi versi sono posti in bocca a Virgilio, il quale cosí esprimerebbe il valore simbolico della lupa, mentre Dante con le parole sembiava carca nella sua magrezza (v. 50) avrebbe espresso il valore letterale, rimarrebbe sempre pronunciato da Dante il primo, in cui si accenna troppo bene a una lupa da lui conosciuta, sulla quale non occorrevano le spiegazioni di Virgilio. Press'a poco le stesse considerazioni potremmo fare sulla lonza, sul dilettoso monte e sul veltro. Ma le già fatte saranno forse sufficienti a renderci persuasi che non dobbiamo poi essere tanto sofistici su questo benedetto senso letterale. Si sa che Dante, come tutti gli scrittori del medio evo, fece consistere nell'allegoría l'essenza de' suoi scritti poetici; nessuna meraviglia perciò se questa allegoría alle volte si scopre troppo: peggio quando non si riesce a scorgerla chiaramente.

Ed ora, venendo finalmente al verso 63o, io credo che nella ricerca del senso letterale siamo stati fin qui tratti giù di strada dall'aver voluto vedere nel pronome chi (ricordiamo che il verso è: Chi per lungo silenzio parea fioco) il senso indeterminato di uno che. Se per chi invece intendiamo colui il quale, letteralmente il verso non conterrebbe che una perifrasi, con cui Dante avrebbe voluto indicare precisamente Virgilio. Non ci dimentichiamo che il poeta racconta e che nel racconto poteva benissimo permettersi di lasciar comprendere anticipatamente la persona ch'egli poi ha riconosciuto. E il parea che significato avrebbe allora ? Secondo me, quello di sembrava, era ritenuto, proprio come nel verso Parlando andava per non parer fievole (Inf. XXIV, 64). In conclusione il senso letterale de' versi 61-63 del canto primo dell' Inferno sarebbe questo: Mentre io me ne ritornava precipitosamente al basso, dinanzi agli occhi mi si offrí colui il quale, per essere stato da tanto tempo in silenzio, si credeva avesse perduto ogni vigore (intendasi Virgilio). Il senso allegorico-morale del passo è stato spiegato da altri. G. MARUFFI.

'Il lettore colto sa indicarmi moltissimi casi consimili presso altri poeti. Io gli rammento il famoso sonetto del Petrarca:

Levommi il mio pensier in parte ov' era
quella ch'io cerco e non ritrovo in terra;
ivi, fra lor che 'l terzo cerchio serra
la rividi piú bella e meno altera.
Per man mi prese e disse: in questa spera
sarai ancor meco, se 'l desir non erra;
io son colei che ti diè tanta guerra

e compie' mia giornata innanzi sera, ecc.

NOTERELLE

buon sartore

com' egli ha del panno fa la gonna. Parad., XXXII, 140.

Il nostro Giovanni Agnelli non contento della risposta che il dr. Prompt dà alle osservazioni che egli fece sull' Alighieri intorno allo studio promptiano sulla Malebolge di Dante, vorrebbe tornare sull'argomento, per difender con nuove ragioni le affermazioni sue. Ma perché

a furia di osservare e di ribattere si corre il rischio di non farla mai finita, e, grazie a Dio, al Giornale la materia non manca, prego i due antagonisti di riporre le armi e lasciar ch'io chiuda la questione con alcune mie osservazioni.

Mi sbrigo con poche parole. Il dr. Prompt, commentando i versi 31 e 32 del XVII d' Inferno fa percorrere dai due poeti, nella direzione di destra, dieci passi, sempre trattenendosi sull' argine, per ben cessar la rena e la fiammella„. Ora a me pare che Dante e Vergilio, giunti in capo all'argine da essi percorso, facessero, invece, que' benedetti dieci passi, dopo disceso l'argine, in sullo stremo del cerchio settimo per arrivare Gerione. Intendendo come vorrebbe il Prompt, non so come dovrebbe interpretarsi la parola scendemmo che precede le parole e dieci passi femmo, e sarebbe mestieri supporre che al disopra dello stremo dell'argine ci fosse la rena infuocata e vi cadessero le dilatate falde del fuoco: ciò che il poeta chiaramente ed assolutamente esclude. Ciò posto, la maggiore o minore larghezza dell'argine riman fuor di questione. È da veder piuttosto se l'argine percorso da' due poeti fosse veramente il sinistro, come crede il dr. Prompt.

Vergilio, per gettar giú per l'abisso la corda che aggruppata e ravvolta Dante le avea porta, si volse in ver lo destro lato, dalla parte, cioè, donde dovea salire la sozza imagine di froda.... Vicino al fin de' passeggiati marmi, e dalla qual parte dovettero i poeti scendere la testa dell'argine e fare i dieci passi in su lo stremo della calda arena. Ora questi dieci passi sarebbero stati impossibili nelle condizioni poste dal Prompt, perché scendendo a destra l'argine sinistro si va, anziché sullo stremo interno della landa infuocata, nel fiumicello, e precisamente colà dove il fiumicello s'avvia a inabissarsi. E poi che Dante espressamente ed esplicitamente ci avverte di aver dato quei passi in sullo stremo a fine di ben cessar la rena e la fiammella, qual utilità avrebbe avuta una tal manovra se si sa bene, ancora da Dante, che il fummo del ruscel di sopra aduggia Si che dal fuoco salva l'acqua e gli argini?

Vuole inoltre il dottor Prompt che gli usurai scorti dal poeta fossero alla sinistra del sinistro argine di Flegetonte: e questo argine stima largo dieci passi all'incirca, e alto, tutto al piú, un metro. Ma anche qui egli lavora un po' di fantasia, perché il poeta nulla ci precisa in proposito, limitandosi a dire che quegli argini non erano né si alti né si grossi come quelli delle Fiandre e del Padovano: potevan esser dunque alti anche due metri e piú, o solamente una spanna; pur che ser Brunetto potesse arrivare a prender Dante per lo lembo. Fatto sta che il poeta, stando sull'argine, non vede che alla sua sinistra vi è gente seduta in su l'arena. Secondo il dr. Prompt per vedere questa gente bisogna anzi tutto che Dante e Vergilio non solo se ne allontanino di piú che dieci passi, ma che discendano anche dalla parte opposta dell'argine (a destra) dove il fummo del ruscello aduggia: allora soltanto, tra questo fumo, ad una

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