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Quindi la Sibilla passa a mostrare ad Enea

Hi quibus invisi fratres, dum vita manebat,
pulsatusve parens, et fraus innexa clienti,
aut qui divitiis soli incubuere repertis

nec partem posuere suis (quae maxima turba est), 1
quique ob adulterium caesi, quique arma secuti
impia, nec veriti dominorum fallere dextras.

1

E più giú:

Vendidit hic auro patriam, doininumque potentem
imposuit, fixit leges praetio atque refixit;

hic thalamum invasit natae vetitosque hymenaeos;
ausi omnes immane nefas, ausoque potiti.

Anche qui dunque vediamo in generale una divisione ben netta tra superbi e invidi-frodolenti.

Ora quello che Virgilio aveva fatto perché doveva il suo allievo cristiano abbandonare, mentre nella nuova dottrina era anzi tal divisione rafforzata e proclamata come dogma? Perché, lasciatala, avrebbe invece ereticamente seguito la suddivisione del pagano Aristotele? E che c'è invece di più semplice e di piú naturale del credere che Dante, pur accettando dall'etica dello Stagirita le due denominazioni, abbia mantenuto inalterato il fondamento ecclesiastico della sua classificazione penale? Non avea egli forse già riunito sotto nome d'incontinenza i primi cinque peccati? Avrebbe cosí cercato di conciliare veramente i sacri dettami colla dottrina del Saggio, che, ammirando quale maestro di coloro che sanno collocava nel Limbo. E non era forse comune nel medio evo, ed anche nei tempi posteriori, il cercar di ridurre le opinioni dei celebri gentili ai precetti stabiliti dalla Chiesa, sforzo cui il dogma della grazia tanto agevolava?

Esaminiamo ora particolarmente bolgia per bolgia, se proprio esista incompatibilità fra violenti e superbi, fraudolenti ed invidiosi. Troveremo, è vero, alcune difficoltà: alcune sorte di peccatori sarà arduo ridurre chiaramente sia a superbi, sia ad invidiosi, ma saranno sempre piú spiegabili accettata la nostra tesi; e del resto io mi farò scudo di quelle parole del D'Ovidio nel suo già citato lavoro: "Che se poi in qualche pena, p. es. il lenocinio, non si possa toccar subito con mano né la superbia né l'invidia, non vuol dir nulla, e chi si sgomentasse di ciò, mostrerebbe d'ignorare affatto il metodo teologico in simil materia, e tutte le filiazioni indirette ed ulteriori, attenuate e degenerate ch'esso sa dedurre da un primo proto-tipo o disposizione peccaminosa

Qui vidio gente piú che altrove troppa.

1 Cfr. il verso 25 c. XXV Inf.

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Troveremo del resto anche fatti incontrastabili, ed analogie gravi col Purgatorio in sostegno della nostra opinione.

Quanto alla questione degli eretici del c. X, parmi giusta la conclusione del D'Ovidio: che essi poi siano in fondo superbi, già lo credette il Balbo, e appare chiaro dalla figura di Farinata che s'erge diritto col petto e colla fronte fra le fiamme, spregiatore all' inferno di quello che già ebbe a spregiare nella vita.

Nel c. XI il poeta, riuniti sotto il nome di incontinenti i peccatori per lussuria, gola, avarizia, ira, accidia, suddivide gli altri in violenti e frodolenti; i primi poi in violenti contro il prossimo, contro sé ed i proprii averi, contro Dio, la natura e l'arte; i secondi in semplici frodolenti ed in traditori. Riguardo ai violenti contro il prossimo, mi sembra evidente la derivazione della colpa loro da quella di superbia. E un'altra cosa ci preme osservare. Nel c. VIII abbiamo trovato l'ombra di Filippo Argenti, cui il peccato dell' iracondia immerge nel pantanoso Stige, come tutte le altre dal medesimo vinte; ma mentre gli altri si percoton colla testa, col petto, e coi piedi, il povero Argenti, oltre al farsi male da per sé, deve anche soffrire lo strazio che di, lui fanno le genti fangose, e che eccita tanta riconoscenza a Dio nell'animo del poeta. Qual è la causa di ciò? Essa si trova nella terzina posta in bocca a Virgilio:

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi,
cosí è l'ombra sua qui furiosa.

Dunque l'Argenti s'era macchiato anche di superbia, ed ora nell' inferno gli altri ne fanno quello strazio, che egli avea fatto in sua vita di chi avea avuto la mala sorte d'essere conosciuto da lui. Ora anche i violenti contro il prossimo fecero in loro vita strazio dei loro soggetti, e perciò non mi pare ozioso il ravvicinare ad essi, ai quali si potrebbero forse anche applicare, i versi pronunciati dal mantovano :

Quei fu al mondo persona orgogliosa,

bontà non è che sua memoria fregi.

Ma, e come allora essi non si offendono fra loro? A ciò si risponde che la superbia essendosi manifestata in essi con un effetto, con.

Credo si debba interpretare questa parola non solo come strazio fisico, ma anche, e specialmente, come dileggio: mi appoggio perciò sulla terzina seguente:

Tutti gridavan: A Filippo Argenti!
Quel Giorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volgea co' denti;

dove appar chiaro che è mosso a ciò dall'ira dell' insulto. Ché se gli fossero saltati addosso tutti, avrebbe avuto altro da fare che rivolgere contro sé stesso le poche armi che possedeva. Non crederei però che si debba assolutamente escludere dalla parola strazio il significato fisico, che anzi è quello in generale accettato dai commentatori, e che si potrebbe spiegare riferendo il mordersi all'ira d'essere stato percosso.

una colpa molto piú fatale, quella di versar sangue umano, ad essi molto più s'attaglia il bollirvi ed esser saettati dai Centauri, quando ne escano più di quello che è stato per essi fisso dalla giustizia divina. Quando poi volessimo piú addentrarci nell'esame di questa sorta di peccatori, troveremmo tra essi un Alessandro (sia poi il Magno o il Ferèo) un Dionisio, un Ezzelino, un Obizzo da Este, un Attila flagello di Dio, un Pirro, tutta gente insomma cui lo smisurato orgoglio tradotto in crudeltà ha condotto a siffatto tormento. Per Ezzelino poi, il carattere d'iracondia, attribuitogli da Benvenuto, sembra conforti ciò che dicevo a proposito dei versi che Virgilio pronuncia dell'Argenti.

Tra i violenti contro sé stessi e le proprie sostanze la prima figura che ci si affaccia è quella di Pier della Vigna, Animo grande ed altero, serví Federico fedelmente, ed ancora rinchiuso nell' aspro pruno si vanta d'aver portato fede al glorioso ufficio, tanto d'averne perduto il sonno ed i polsi. Ma l'invidia "morte comune e delle corti vizio, lo pose in sospetto al grande Svevo, ed allora, per disdegnoso gusto, "credendo col morir fuggir disdegno, divenne ingiusto contro sé medesimo. Mentre adunque la onesta alterezza colla quale esercitò l'alta carica sua lo eleva dinanzi agli occhi di Dante, l'esagerazione di questo sentimento, il disdegnoso gusto, la superba violazione della legge divina lo rende eternamente immobile tramutato in isterpo, albergo d'arpie, ludibrio alle nere cagne bramosamente inseguenti i dis sipatori.

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Un raffronto non inutile si potrebbe qui fare tra Piero ed il Romeo del c. VI di Paradiso, ambo ministri, ambo ingiustamente calunniati, ambo destituiti dalla lor carica: e si noti che Romeo è posto nella piccola. stella che si correda

dei buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda,

il che è una certa virtú inclinante precisamente al peccato di superbia. Ed i dissipatori? Bestialmente spregiatori delle loro sostanze, dei doni di quella che fu ordinata da Dio generale ministra e duce agli splendori mondani, sono or puniti del loro pazzo spregio coll' inseguimento continuo ed acerbo di quelle fiere. Chi poi, dissipate le proprie sostanze, si uccise, superbo d'ambe le colpe, ambe le punizioni subisce. I violenti direttamente contro Dio, non c'è, credo, chi non li riconosca superbi. Giace Capanèo dispettoso e torto, prostrato alla pioggia di fiamma: le sue superbe bestemmie gli ricadono ardenti sul petto; piú punito ancora in ciò che la sua superbia non s'ammorza mai. violenti contro natura osarono operare contro i dettami di questa, figlia di Dio; i violenti contro l'arte violarono i precetti di questa, nipote di Dio gli uni e gli altri spregiaron quindi indirettamente la potenza divina, e il fuoco celeste eternamente li morde.

I

E si possono anche aggiungere particolari osservazioni; se non fatti importanti e conclusivi, analogie e raffronti utili in ogni modo.

Le parole di Brunetto riguardo a Firenze, sono ispirate da alterezza e da disdegno (Inf., XV, 55-78): e si potrebbero raccostare a quelle fierissime del poeta e nel canto seguente:

La gente nova e i subiti guadagni, ecc.,

ed in tanti altri luoghi dell'opera sua; raccostare alle espressioni d'affetto di Dante che avea cosí fitta in cuore l'immagine paterna del Latini; ravvicinare alle lodi che questi tributa al poeta, come a tanto simile a lui; ed infine raffrontar tutto con quei versi del canto XIII di Purgatorio:

Troppa è più la paura ond'è sospesa
l'anima mia del tormento di sotto,
che già l'incarco di laggiú mi pesa,

ove Dante s'accusa apertamente di superbia. Che se dovessimo ritenere e Brunetto e i compagni messi ad arrostire per la colpa isolata di sodomia (colpa che in Purgatorio è punita insieme colla lussuria, e che non vedrei il perché qui dovess'esser punita tanto più sotto), come si spiegano le parole di tanto rispetto e di tanta venerazione che il poeta in questo cerchio tributa, non solo al Latini, ma anche a Guido Guerra, al Tegghiaio, al Rusticucci di cui esalta

l'ovre e gli onorati nomi?

È vero che li dice d'un medesmo peccato al mondo lerci, e piú giú fastidisce Andrea de' Mozzi, vescovo di Vicenza; ma ciò non ispiega il rispetto grandissimo e l'amore che ha per i primi, e che si può, secondo me, solo spiegare connettendo la colpa di tutti questi, per quel processo teologico di suddivisioni morali accennato dal D'Ovidio, al peccato di superbia di cui lo stesso poeta si sentiva tinto. E di piú e Brunetto raccomanda a questi il suo Tesoro nel quale vive ancora, ed i tre, volgentisi a rota, gli ricordano la lor fama e le loro alte azioni e lo pregano infine tanto melanconicamente :

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Fa che di noi alla gente favelle.

Quanto poi ai violenti contro l'arte, avrei da aggiungere un'osservazione. Dice il poeta pendere dal loro collo tasche fregiate delle loro armi, ove pare che essi pascano l'occhio. Si potrebbe ciò forse interpretare come segno di vano orgoglio in vita, pel quale si diedero ad ammassare ricchezze con mezzi violanti il precetto divino.

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Passiamo ora ai frodolenti-invidiosi. Nel canto XIII del Purgatorio, entrato Dante nel secondo girone è impressionato dal livido color della petraia, e lividi pure vede i manti delle ombre: ed in verità codesta tinta s'adatta assai bene a chi in vita si sparse di livore alla vista dell'altrui letizia. Ma, e di qual colore è tinta la sede dei frodolenti? Loco è in Inferno detto Malebolge

tutto di pietra e di color ferrigno,

come la cerchia che d'intorno il volge.

Il color ferrigno è palesemente il "color livido,; nel canto XIX il poeta ripete:

Piena la pietra livida di fori.

Che strana combinazione questa eguaglianza di colore! Il nostro poeta che non dice mai, prima, il color dei cerchi superiori e si contenta di chiamarli muti d'ogni luce, ove non è che luca, pieni d'un aer tenebroso, cerchio tetro, ecc.: ora soltanto, che è disceso piú in basso, si ricorda di palesarci la tinta delle bolge che visita, e, non contento di dirlo una volta, lo ripete, e per di più questo colore è appunto quello che tinge il girone degli invidi nel Purgatorio! Non pare che il poeta abbia proprio voluto cosí richiamar la nostra attenzione alla specie di peccatori che in Malebolge egli tormentava sotto un nome preso ad imprestito dall'etica aristotelica, ma che erano veramente riducibili tutti al peccato fondamentale dell' invidia?

Un'altra osservazione di valore relativo, ma non del tutto trascurabile, è che tra i frodolenti, e precisamente sul principio del c. XXVI, il poeta esce in quella potente invettiva contro Firenze: Godi, Firenze, poiché sei sí grande, e tra gli invidiosi del Purgatorio mette in bocca a Guido del Duca quella sfuriata contro tutta val d'Arno, che comincia:.... ma degno Ben è che il nome di tal valle pera; sulla fine d'ambe le quali predice le gravi discordie tra Bianchi e Neri, che, iniziate col podestà Folcieri dei Calboli nel 1302, proseguirono anche di poi a dilaniare la città. E queste due previsioni si potrebbero riattaccare al concetto di Firenze simboleggiata in una lonza e rovinata dall'invidia fraudolenta dei vari capi dei grandi casati fiorentini. Ne deriverebbe cosí un ravvicinamento anche maggiore tra il girone degli invidiosi ed il complesso cerchio dei frodolenti.

Ed entriamo finalmente ora in questo, ed esaminiamolo partitamente. Per penetrarci Dante deve varcare sulle spalle di Gerione la distanza che ne lo separa; e per chiamare Gerione, Virgilio usa della corda ond'era cinto il poeta.

Io aveva una corda intorno cinta,

e con essa pensai alcuna volta

prender la lonza alla pelle dipinta,

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