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Dunque, se con quella corda medesima il duce fa sorgere dal baratro Gerione, mi par naturale concludere che la lonza e Gerione significhino una cosa soia. La lonza nel significato morale è l'invidia: tale infatti appare dalle parole di Ciacco:

Superbia, invidia, ed avarizia sono

le tre faville ch'hanno i cori accesi,

e tale anche dalle parole di Brunetto: Gente avara invidiosa e superba, dove l'avarizia si riferisce certo alla lupa, la superbia al leone, l'invidia alla lonza del c. I. Gerione dunque, che è il demonio sopraintendente a Malebolge, rappresenterà l'invidia, ed i frodolenti saranno invidiosi. ' Non entro nella questione arduissima di quel che possa essere la corda ricingente il poeta; solo mi sembra potersi accettare la spiegazione che la dice raffigurante lealtà, generosità, ecc., colla quale si attira il vizio opposto; e quel raggruppata ed avvolta, fatto materiale, mi pare che possa corrispondere ad una fiducia cieca, nel campo morale. Essa attirerebbe Gerione, lieto, come Flegias, dell'inganno e dell'acquisto d'un'anima.

I primi dannati che ci si mostrano in Malebolge sono i seduttori per sé o per altri. Per vero, non so proprio come ridurli ad invidiosi, ma certo che a superbi è ancor più difficile, e, del resto, io ricorro subito all'egida che mi prestano le parole già citate del D'Ovidio a proposito della non chiara derivazione di certe colpe da un fondamentale peccato. Quanto agli adulatori, è abbastanza visibile la lor derivazione dal grande peccato d'invidia; di piú noi possiamo anche raffrontarli coi cortigiani di Federico II, contro i quali Pier della Vigna tuona la terzina famosa :

La meretrice che mai dall'ospizio

di Cesare non torse gli occhi putti,
morte comune e delle corti vizio,

e coi cortigiani di Raimondo Berengario conte di Provenza, invidiosi e calunniatori del buon Romeo, de' quali dice Giustiniano:

Ma i Provenzali che fer contro lui

non hanno riso, e però mal cammina
qual si fa danno del ben far d'altrui.

(Parad., VI, 130).

Seguono i simoniaci, gl'indovini, i barattieri, ne' quali è assolutamente escluso il carattere di superbi, e ne' quali, per verità, il carattere d'invidia rimane sopraffatto e coperto dalla sua manifestazione di frode. Ciò specialmente si deve dire delle prime due categorie, nella

1 Concetto semplicissimo ed ammirabile: l'invidia (Gerione) tanto nemica a Dio, porta, varcando il burrato, alla pena coloro che la nutrirono in vita,

terza invece il peccato capitale ricompare velato e profondo: i barattieri ritornano un po' ai cortigiani; sono inviscati nella pegola come essi inviscarono gli altri in vita colle loro vilissime operazioni. E si potrebbe anche aggiungere che, come da ogni viltà non va mai scompagnata l'invidia, specie ove si tratti di far denaro, e le lingue loro non si sentirono mai stanche di lacerarsi a vicenda, cosí ora all'inferno sono lacerati dai raffi dei demoni, allegri tormentatori di questa specie d'invidiosi.

Negli ipocriti, il peccato capitale ci si mostra chiaro e palese. Quando i due frati hanno raggiunto i pellegrini, dice Dante:

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Versi questi, ove non son già io il primo ad interpretare quell'occhio bieco non solo come torto, ma eziandío come invido; ove ed è chiaro che gli ultimi due non esprimono semplicemente curiosità. Di piú Caifas inchiodato al suolo è (come ben dimostrò il prof. Scherillo, in una delle sue tanto geniali lezioni alla nostra Accademia) precisamente la figura opposta a Gesú crocifisso: la massima invidia contrapposta alla maggior carità.

Seguono i ladri. Anche qui il carattere della frode ricopre quasi completamente il fondamento suo, la sua radice, l'invidia; però questa traspare lucidissima, rapida, quasi un lampo, nella maligna predizione di Vanni Fucci, terminata col verso: E detto l'ho perché doler ten debbia, che riassume e definisce chiarissimamente l'invidia.

I malvagi consiglieri e i seminatori di discordie si riconducono facilmente al peccato capitale, base di lor frodi. Più difficile invece è far questo per i falsatori; però dalle parole di maestro Adamo:

O voi che senza alcuna pena siete

(e non so io perché) nel mondo gramo,

trapela, abbastanza evidentemente, l'invidia, che prorompe poi terribile contro i due conti da Romena.

Giungiamo cosí all'orlo del pozzo dei traditori incoronato dai giganti. Riguardo a costoro, io mi attengo pienamente alla spiegazione data dal prof. Scherillo nel suo giá citato lavoro. I giganti non sarebbero una sorta di frodolenti, bensí quasi gli aiutanti di Lucifero, i suoi paladini. Come Lucifero osò assalire la divinità che l'aveva creato, cosí essi osarono combattere gli Dei: come superbo e invidioso Lucifero, cosí superbi e invidiosi i giganti; e nel primo e nei secondi si manifesterebbero i due peccati capitali, fondamento e radice di tutti gli

altri. Ma a questo mi arresterei: i traditori sono una classe dei frodolenti-invidiosi, dunque anche in essi non ci vedrei il carattere di superbia.

Invero, perché si sarebbero detti superbi? Perché essi son posti tra Lucifero superbo, ed i giganti superbi. Questa a me non sembra una ragione bastevole. Ad ogni modo, addentrandoci ora nella cupa ghiacciaia, ricerchiamovi i puniti per quel peccato.

La prima suddivisione è la Caina. In questa non so proprio come possa trovar luogo la superbia; certo, Caino uccise il fratello per semplice invidia, e nel c. XIV del Purgatorio, tra gli esempi d'invidia punita, si pronunciano appunto le parole dette da Caino dopo la morte d'Abele: Anciderammi qualunque mi prende.

Nell'Antenora e nella Tolomea, spiccano le figure di Bocca degli Abati, del conte Ugolino, e dell'arcivescovo Ruggieri. Bocca, nominato da un suo vicino, mentre per quanto Dante lo schiomi non vuol dir il suo nome, si vendica col nominar al poeta una quantità di suoi vicini. Qui non è superbia; c'entra invece (e quanto!) l'invidia. Le parole dell' infamato Ugolino devono fruttare infamia al suo nemico, per effetto de' ma' pensieri del quale fu preso e morto. L'arcivescovo, nel sogno del prigioniero, perseguita il lupo e i lupicini con cagne magre studiose e conte, che coll'acute zanne ne fendono i fianchi. E che cosa possono essere queste cagne se non i tradimenti e le invidiose calunnie? In particolar modo poi nella Tolomea, il freddo che raggela le lagrime nel coppo sotto alle ciglia, sí che il dolore ritorna in entro a far crescer l'ambascia, non porterebbe un effetto simile a quello dell' invidia nascosta, che sempre si rode, e tanto piú quanto meno si può sfogare?

Nella Giudecca troviamo Giuda, Cassio e Bruto: ma certo né Giuda vendé Cristo per superbia, né certamente per superbia, nel concetto di Dante, avrebber potuto uccider Cesare i due suicidi di Filippi.

Giungiamo finalmente a Lucifero. Questi è invidioso e superbo, le sue ali sono vexilla regis Inferni: in lui tutti i peccati s'assommano, da lui ogni lutto procede. Affondato nella ghiaccia, è il primo peccatore, e il primo tormentatore.

Pervenuto cosí alla fine del mio lavoro, senza pretendere d'aver modificato d'un tratto la classificazione dei peccati e dei peccatori dell'inferno dantesco, spero d'esser riuscito a provare che le categorie aristoteliche dei violenti e dei frodolenti siano un manto ricoprente le due ecclesiastiche, tessuto per identificare i principii del Saggio e della Chiesa. Qua e là predominano talvolta i primi, talvolta i secondi: ma se la sovrapposizione non è perfetta, ciò per certo si deve alla grande diversità delle due classificazioni.

*Milano, novembre 1894.

AUSONIO DObelli.

LA RUINA DEL VENTO

FRA I LUSSURIOSI

Lettera al conte G. L. PASSERINI

Egregio sig. Direttore,

Nei quaderni ottavo e decimo del primo anno di questo giornale, il prof. G. Franciosi pubblicò un saggio di un suo pregevole Comento alla divina Commedia. In tal saggio, che fu di tutto il canto della Francesca da Rimini, al verso 34 egli diede una variante da lui riscontrata in ben dieci codici, parecchi dei quali di buona lezione; e per essa quel verso, che ora si legge: Quando giungon davanti la ruina,

si muterebbe in:

Quando giungon de' venti a la ruina.

Questa lezione è certo migliore della volgare; ma neanch'essa mi par che dia un senso pieno; perocché fa nascere dei dubbii ai quali in niun modo si può dare una risposta soddisfacente. Cosí potrebbesi domandare: Come avviene questa ruina di venti? e dove è da intendere che Dante probabilmente l'abbia collocata? Il Franciosi parla di una foce del cerchio, foce donde pare che il vento abbia a sboccare; ma che cosa voglia significare di cerchio, e sia pure infernale, non credo che né io né altri giungerà mai a capirlo; e se il facondo professore intende che là vi sia una specie di gigantesco androne o gola dove il vento che vien dal di fuori s'inforri, per quindi irrompere con premuta violenza nello spazzo, del secondo cerchio; io potrei fargli osservare che Dante non fa pur una minima allusione ad esso, né dal modo com'egli descrive il suo viaggio può argomentarsi ch'e' passi di cerchio in cerchio e di girone in girone per tante aperture, cosí come nelle nostre case si va da stanza a stanza; o, meglio, come dai portoni delle nostre vie, attraverso l'androne si perviene nel cortile.

Gli è vero che il poeta stesso qui paia smentirmi, avendo alcuna volta fatto menzione di foci di cerchi. A mo' d'esempio, Pier della Vigna dice dell'anima del suicida che

Minos la manda alla settima foce; 1

1 Inf., XIII.

ma poi Dante, parlando di quelle scalee per cui si monta sui balzi del purgatorio, esclama:

Ahi quanto son diverse quelle foci
dall'infernali !;!

donde si vede che con la parola "foce, ei vuol designare i passaggi da un cerchio all'altro; tolta la metafora dal fatto che questi passaggi sono continuamente percorsi dal fiume delle anime, le quali, partendo dall'Acheronte, si recano prima ad ascoltare il giudizio di Minos, e quindi vanno ai luoghi delle lor pene; essi perciò danno l'immagine di tante foci, da cui la fiumana spiritale, giunta alla discesa di un qualunque cerchio superiore, si versa nell'inferiore. Or ciò avviene pure discendendo dal cerchio primaio giú nel secondo, che è quello della bufera; perciò quivi la foce sarebbe il luogo dove si dismonta,; e giacché i gradi infernali stanno disposti ad anfiteatro, tal foce non può esser altro che uno scalone o un piano inclinato o una cordonata, con cui da un luogo superiore scoperto si passa a uno inferiore pure scoperto; sicché non esiste né androne né altro consimile passaggio, e quindi neppure sbocco furioso di vento che in esso s'ingolfi.

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Per altra parte, se la spiegazione della foce fosse ammissibile, dovrebbe ritenersi che il vento venisse dall'esterno. Or questo è un altro appunto che si può fare alla variante del Franciosi, perché anzitutto bisognerebbe provare che sia cosi. Io penso invece, che, come ogni altro fenomeno naturale dell'inferno dantesco, (acqua, fuoco, gelo, ecc.) anche questo vento sia una produzione propria del cerchio in cui si trova, un portato della "natura del luogo,, e perciò non v'entri da nessuna apertura. Né il Franciosi, invero, crede diversamente. Infatti egli, appresso, dichiarando il verso cinquantunesimo, aggiunge: "Non è da intendere aer nero si gastiga nel senso vago di aria tenebrosa, che avvolge tanto gastigo; ma nel senso bene appropriato qui di aere maligno, che genera di sé la bufera, onde gli spiriti son travagliati. „ Per conseguenza, se l'aria stessa del secondo cerchio genera di sé la bufera, il vento non s'introduce da fuori, e la foce non ha più luogo.

1 Purg., XII.

2 Per questa asserzione cfr. Anima fella!, una mia nota dantesca orribilmente stampata nella Piccola Antologia del 9 dicembre 1894. In essa mi lusingo di aver dimostrato che le ombre giudicate da Minos si recano in giú camminando, e che perciò è impossibile che vi sia una ruina, cioè una cascata, di anime. Tolto via questo concetto, giova al mio assunto di provare che non può neanche esistere l'altra interpetrazione di ruina nel senso di scoscendimento. Questa seconda spiegazione si fonda su i due seguenti versi che Virgilio dice a Dante nel canto XII:

Ed in quel punto questa vecchia roccia

qui ed altrove tal fece riverso;

nei quali si vuole accennato che la roccia tutta dell' inferno crollasse in diversi punti. Ma io sostengo invece che essi non significano altro che questo: "Ed in quell'ora questo vecchio muraglione (l'alta ripa), come in questo luogo dove tu scendi, cosí in altri punti del suo giro crollò facendo tanti riversi, cioè tante ruine, ugualmente erte come queste. „ E chi volesse contraddirmi dovrebbe spiegare prima il valore di questa, qui e specialmente tal. Levata in quei versi: l'allusione ad altre ruine, resta che noi dobbiamo contentarci di quelle che il poeta ci mostra, cioè quella dei violenti e quella di Malebolge; e quindi tra' lussuriosi non ve n'è alcuna.

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