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Però la questione muterebbe aspetto se quella variante congetturalmente si potesse proporre nella lezione che segue:

ovvero:

Quando giunge dei venti la ruina,.

Quando giunge del vento la ruina,

la quale, per possibili scambii grafici degli amanuensi, che non di rado ricopiavano codici guasti dall'uso, (dapprima fecero de' invece di del e quindi per logica conseguenza corressero vento in venti) potrebbe essere una forma primigenia dell'altra. Qualunque s'accetti di queste due lezioni, si vede che in primo luogo spariscono tutte le difficoltà poc'anzi accennate; poi l'immagine se ne vantaggia di bellezza; infine rende piú coerente tutto il contesto. Vediamo infatti se è vera quest'ultima cosa, la quale di sicuro è la più importante di tutte e tre; e non Le dispiaccia ch'io riporti un tratto del canto di cui si ragiona.

La bufera infernal, che mai non resta,

mena gli spirti con la sua rapina,
voltando e percotendo li molesta.
Quando giunge del vento la ruina,

quivi le strida, il compianto, il lamento,
bestemmian quivi la virtú divina.

Intesi ch'a cosí fatto tormento

eran dannati i peccator carnali
che la ragion sommettono al talento.
E come gli stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
cosí quel fiato gli spiriti mali.

Di qua, di là, di giú, di su gli mena:
nulla speranza gli conforta mai,

non che di posa, ma di minor pena.

Evidentemente l'avverbio "quivi, in questo caso ha significato temporale e non locale; e si spiega per: allora, in quel punto; come v'ha molti altri esempii di Dante, e com'è nella stessa lezione comune se lo si riferisce a " quando, piuttosto che a " ruina n°

Or ecco, secondo me, i vantaggi della nuova lezione. Nella penultima terzina citata, l'espressione quel fiato a che vento si riferisce? Con la variante si comprende facilmente che si riferisce al vento che ruina, cioè al soffio furioso che investe e trasporta le anime a schiera larga e piena, e si capisce pure che è la ruina, cioè la forza rovinosa, l'impeto di esso che sbatte le ombre di qua e di là, di giú e di su; senz'essa variante, invece, il relativo quel non avrebbe termine di riferimento.

Ella certo, con acuta osservazione, mi potrà obiettare che il "quel, si riferisca a bufera, allegando a prova l'uso ripetuto del verbo menare; ma il punto sta nel dimostrare che questa bufera e quel fiato siano o possano indicare la stessa cosa. Io sostengo di no. Nella bufera il vento c'è; ma non

già che questo vento consti di un solo infinito e non mai interrotto soffio, diguisaché la durata di esso sia uguale a quella della bufera. La tempesta infernale, poiché Dante nulla dice in contrario, è da credere che proceda a immagine e simiglianza di quelle terrestri, cosí come fa la pioggia; perocché, se bufera e pioggia nell'Inferno debbono significare un fenomeno diverso da quello terrestre, Dante o non si dovrebbe servire di quelle parole, perché non corrispondenti al fatto, o, servendosene, dovrebbe far rilevare la differenza. Pertanto, se nel nostro mondo accade che una bufera duri uno, tre, cinque giorni, in questo tempo ci saranno migliaia e migliaia di sbuffi di vento; non altrimenti là, nel secondo cerchio, dove c'è una bufera continua, eterna, il vento, per l'anzidetta ragione e somiglianza, non è esso pure continuo, eterno, ma a brevi intervalli, ripiglia i suoi soffi continuamente, eternamente; sicché ora si tace, ed ora ruina addosso agli spiriti menandoli gagliardamente di qua e di là. So bene che una cosiffatta interpretrazione della bufera (di cui, se la memoria non erra, fu il Biagioli il primo a dare un accenno) è contraddetto dal Finzi: ma le ragioni con le quali il Finzi l'oppugna non sono gran fatto salde.' Cominciamo che Dante dice "la bufera.... non resta e non già il vento .... non resta, dimodoché, per l'osservazione testé fatta, mentre si deve ritenere continua la bufera, non è logica conseguenza che si debba negare che il vento soffii a folate. Poi: voler dedurre che il vento spiri senza interruzione sol perché tra i golosi l'acqua cade continua, mi par lo stesso che sostenere l'opinione contraria rispetto all'acqua allorché si sarà provato che il vento soffia a tratti: acqua e vento sono due fenomeni diversi, ognuno dei quali ha leggi proprie: il vento va a sbalzi, l'acqua è continua; cosí dunque nell'inferno, dove tutto è eterno, l'acqua cade eternamente continua ed il vento ripiglia a soffiare eternamente.

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Come Ella vede, questa considerazione rende facile il significato del fa

moso verso:

Mentre che il vento, come fa, si tace,

che ha dato luogo a tanta diversità d'interpetrazioni sol perché non si è sempre fatta la debita distinzione fra vento e bufera. Alcuni l'hanno voluto spiegare con un arzigogolo, dicendo che, siccome Dante e Virgilio si trovavano fuori della corrente del vento, e Paolo e Francesca erano venuti presso di loro, in quel luogo si poteva dire che vento non ce n'era. Astraendo da ogni considerazione rispetto alla possibilità di potere uscire dal campo del tormento, questa spiegazione è annullata dalla potenza ed evidenza del linguaggio di Dante. Egli scrisse: il vento tace; dunque se tace vuol dire che non se ne sente più il rumore; e siccome tal rumore ei l'avverti anche avanti, stando pur sempre fuori della corrente della bufera, cioè non appena giunse nel cerchio,

(Io venni in loco......

che mugghia come mar fa per tempesta),

1 Cfr. Saggi danteschi, Torino, Loescher, 1888.

cosí è giocoforza concludere che se non si sentiva il solito mugghio mentre Francesca parlava, il vento non spirava affatto. Mi passo di confutare la spiegazione di quei commentatori, tra' quali il Casini e lo Scartazzini, i quali intendono che per grazia divina sia avvenuta un'interruzione di pena mentre Francesca parla. È ammissibile ciò? E dato e non concesso che lo sia, come può Dante sbrigarsi con un motto gettato lí per incidenza di un fatto cosí straordinario, e che non accade in nessun altro cerchio? E poi, che vorrebbe dire in questo caso il "come fa,,?

Ma c'è un'altra obiezione che mi si para dinanzi, e di cui non posso tacere. Gli è questo il gran guaio della critica dantesca, specialmente quando si ripiglia un argomento che sia stato martellato dagl' interpetri, che bisogna, quasi ad ogni passo, ribattere opinioni altrui. L'obiezione da me accennata è l'interpretazione messa avanti dal Finzi, il quale, come s'è notato piú su, vuole che il vento sia continuo. Per non allungarla troppo io mi limito ad un'osservazione sola. Il cardine della interpretazione finziana sta in ciò che lo scongiuro di Dante a Paolo e Francesca sia una magica formula che serve a vincere l'impeto del vento, il quale non lascerebbe che quelle anime uscissero dalla corrente della bufera e venissero a lui: se il vento avesse una sosta, quello scongiuro non occorrerebbe. Domando e dico: Paolo e Francesca sono in aria o in terra? In aria certo; dunque hanno bisogno di esser chiamati. Essi, da per sé, non sarebbero andati a Dante perché non lo conoscevano; né, d'altra parte, si sarebbero indotti ad avvicinarsi ad un ignoto se questi li avesse chiamati con altra voce fuorché con quella dell'affetto; voce la quale mostra la simpatia ch' ei sente per quell'amor che i mena, cioè quell'amor che li governa e fa "che vanno insieme. A tal voce d'affetto essi corrono volentierosi: " si forte fu l'affettuoso grido,; e quasi son grati a Dante di essersi mostrato pietoso verso di loro:

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Se fosse amico il Re dell' universo

noi pregheremmo lui per la tua pace
poi ch'hai pietà del nostro mal perverso.

Le parole di Dante son dunque le piú opportune, non per far cessare o vincere la bufera che sarebbe cosa contraria alle leggi d'abisso; ma per attirare que' due amorosi; poiché non devesi dimenticare che la schiera che vola come le gru, e dalla quale sono usciti Paolo e Francesca, è quella dei morti per amore, cioè per ragione di passione amorosa. L'incontro e

Notisi una cosa. Dante prima scrisse:

Si tosto come il vento a noi li piega.

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Ecco dunque che il vento è spirato. Questo soffio, nel menare di e su di giú le anime, avvicina Paolo e Francesca al poeta, il quale allora muove la voce e li chiama. Dopo il soffio deve venire il tratto di quiete; ed ecco che "i due che insieme vanno si possono avvicinare a Dante, e Francesca può dire:

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Mentre ch'il vento, come fa, si tace.

C'è dunque, o non c'è, dirò cosí, il respiro della bufera?

'Cfr. l'altra mia chiosa: Storni e gru, stampata unitamente a quella citata nella nota 2a alla pag. 422.

Giornale dantesco.

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il riconoscimento di Dante con Ciacco, Farin ata, ser Brunetto e altri vien fatto in condizioni diverse; e però non si può per nulla paragonare, come mal fa il Finzi, a quello di Paolo e Francesca; quelli sono fermi, questi volano; quelli in gran parti sono conoscenti, questi sono ignoti. E coi dannati ignoti usa Dante quasi sempre gli scongiuri delle promesse di rinfrescarne la fama, dove e' non trovi qualch'altra maniera d'attaccare il discorso; ma, secondo la colpa e le persone, l'appiglio è sempre diverso e appropriato. Nel cerchio secondo e co' morti "per amore giova meglio la voce dell'affetto; e Virgilio, da quell'accorto duca che egli è, ammaestra per bene il novizio discepolo.

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Sgombra cosí dagli ostacoli la via, or si può procedere più sicuramente. Abbiamo adunque una bufera che risulta di un numero sterminato di soffii di vento: però essa non ci indica altro che il complesso della pena, la condizione di quelle anime riguardata nell'infinito del tempo, e le anime effettivamente non hanno riposo perché quella non cessa mai. Tutt'altro vogliono dire gli sbuffi del vento, ciascun dei quali ci dà lo stato transitorio, l'aggravamento di pena in cui i dannati si vengono a trovare ogni volta che esso li investe. Or dunque il fiato, cioè l'anhelitus, (per gli antichi il vento è "anhelitus terrae,) vuole indicare la bufera tutta quanta o soltanto uno sbuffo di vento? La condizione eterna o la transitoria? Anche la stessa parola fiato già mostra che si tratta di un soffio solo; ma vi è una considerazione più importante che persuade questo significato; ed ecco quale. Il modo come il poeta procede nella descrizione del tormento di queste anime, la qual descrizione è tutta nelle terzine surriferite, è il seguente: nella prima delle dette terzine fa parola della bufera che è la condizione eterna, come testé ho detto; nella seconda sono specificati quei momenti quando la pena raggiunge il massimo di violenza; e ciò avviene per mezzo degli sbuffi del vento (secondo la mia variante), o della vista dell'abisso infernale o altro (secondo la lezione comune). Con ciò lo stato tormentoso delle anime, sebbene a grandi tratti, è pienamente descritto; infatti, nel seguente terzetto, il poeta passa a dire che ha capito chi sono i peccatori sottoposti a quel tormento. Però dovendo mostrarci le due qualità di peccatori lussuriosi puniti in quel cerchio, ei non poteva rimanersi a quella descrizione cosí sulle generali, ed ecco che nella quarta terzina, con una stupenda similitudine, ci fa vedere una parte di quelle anime cacciate dal vento, ammassate, addensate come gli storni che nell'inverno migrano sotto il flagello dell'aquilone. Finalmente nella terzina ultima ci fa conoscere che quel fiato le menava di qua e di là, di giú e di su, ed aggiunge che in esse non era speranza né di posa alcuna né di pena minore.

Or, se si rifiuta la variante, e la parola แ fiato, della penultima terzina

1 Faccio osservare che, anche non ammettendo la mia congetturale, se si consente (e non credo si possa negare) che il vento soffii a tratti, l'aggravamento di pena qui accennato è sottinteso. In effetto è chiaro, che se la punizione di questi dannati è la bufera, tal punizione viene a rendersi piú tormentosa ogni qualvolta quella li travolge con nuova gagliardia.

si riferisce a bufera, nell'ultima si avrà una ripetizione in forma soggettiva, rispetto alle anime, del concetto già espresso oggettivamente da Dante nel primo verso:

La bufera infernal che mai non resta;

1

e si ha pure contraddizione col fatto di Paolo e Francesca i quali hanno agio di venire a parlare a lui mentre il vento tace, poiché il vento non potrebbe tacere se fiato e bufera fossero tutt'una cosa, e quindi quello dovesse pure soffiare eternalmente continuo. E che sia proprio cosí, si vede chiaramente dal senso che pigliano le due ultime terzine sostituendo l'una parola all'altra; il qual senso è il seguente: Come gli stornelli nell' inverno vanno a schiera larga e piena per virtú del loro proprio volo, cosí vanno gli spiriti mali spinti dalla forza di quella bufera. Essa li mena di qua e di là, di su e di giú; ed eglino sanno bene che quel travaglio di bufera non finirà mai né mai allenerà. Ciò vuol dire che la bufera (cioè il fiato) continuerà sempre a imperversare, cioè non resterà mai; sibbene, con la violenza che spiegava in quel momento, senza interruzione e in sempiterno li menerà di qua e di là, di su e di giú. Ma riguardo alla bufera questo concetto di continuità era già stato espresso nel verso testé citato; dunque, ammettendo che vento e bufera siano la medesima cosa, si ha tautologia, contraddizione con le parole della Polentana e discordanza dalle tempeste terrestri, dove il vento non è continuo.

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Invece, se si accetta la variante, il "fiato non può esser piú la bufera, ma una delle infinite folate di vento di cui questa risulta; cioè vuol significare una ruina di vento o di venti che sia. Donde si inferisce che Dante ripiglia l'immagine poc'anzi descritta del soffio che a riprese travolge i dannati e li fa stridere, gemere e bestemmiare, e vi aggiunge altre particolarità. Allora le due terzine si spiegano cosí: Come gli stornelli nell'inverno vanno a schiera larga e piena per virtú del loro proprio volo, cosi quello sbuffo di vento porta gli spiriti mali. Esso li mena di qua e di là, di giú e di su; ed eglino sanno bene che tale travaglio di soffii continuamente succedentisi né cesserà giammai né diventerà meno violento. Gli è questa, come si vede, un'idea particolare che sta, quantunque il poeta nella prima terzina abbia detto che la bufera non resti mai. In fondo in fondo si tratta della pena; ma il modo diverso come la pena è considerata origina i due concetti; prima è Dante che da spettatore ce la rende nota in generale, cioè, come già ho detto, considerata nell'eternità; poi son le anime, le quali, come già pure ho detto,

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1 Non so perché ci sia tanta difficoltà a interpretrar bene la frase: ne portan l'ali.,, Dante qui fa una similitudine il cui concetto è questo: Le anime sono portate dal vento a schiera larga e fitta, come gli stornelli nell' inverno sono portati dalle loro ali. Era davvero inutile che Dante dicesse che gli storni son portati dall'ali, perché si sa che ogni uccello che vola fa uso d'ali;ma non è lí il pensiero di Dante, sibbene nella comparazione del modo di volare, perché è noto che ogni specie di uccelli, quando va in compagnia, ha un particolar modo di attrupparsi. Dunque qui vuol dire, che come gli stornelli, per la natura speciale del loro volo, quando migrano nell'inverno si agglomerano a schiera larga e fitta, cosí erano strette insieme quelle anime ma non per propria natura, sibbene spinte, affollate dal turbine.

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