gomento ad un' altra e men studiata spiegazione letterale del nostro verso: Virgilio cioè si sarebbe rimasto a lungo in silenzio per riprender la favella che l'ambascia della grande fretta gli avea tolta, rendendolo così fioco da non poter proferir verbo; non altrimenti Dante nel salire sull'argine settimo di Malebolge perdette la lena e, volendo pur mostrarsene meglio fornito che non fosse, parlando andava per non parer fievole (1); [Inf., XXIV, 64] dove si vede che anche tacendo, uno può parer fievole o fioco che si voglia dire. Ma senza notare che non sarebbe naggio in quella fretta conveniente presentare per la prima volta il perso che l'onestate ad ogni atto dismaga», ed a tacere inoltre che « Virgilio supera [quasi sempre] senza pena tutte le difficoltà del viaggio, mentre la persona di Dante è tanto affannata », io non contraddirò qui a quanto scrissi altra volta sull'argomento: Virgilio, cioè, fin dal primo apparire, è veduto e immediatamente richiesto di soccorso da Dante, cui, rivelandosi, egli immediatamente rassecura! Ed anche questo appar chiaro dalla narrazione dantesca (2). Tolte così, per materiali ragioni di tempo, la lunghezza del silenzio, cioè la qualità [per le conseguenze che qui se ne vorrebbero trarre] essenziale di esso, ci pare ozioso l' esaminare il resto della nuova interpretazione. A me sembra, per esempio, che Dante avrebbe meglio determinata quella relazione fra le due metonimie dal Bertana ravvicinate; che cioè vi avrebbe detto almeno per il lungo silenzio, o meglio: per quel lungo silenzio, quasi sottintendo: di che toccai or ora; poichè insomma, quanto poeticamente bella e chiara è la prima metafora: là dove il sol tace, altrettanto oscura e diciam pure strana appare la seconda, quel silenzio cioè in luogo di tenebra. Quant' al fioco poi, se «nessun esempio tratto dalla divina Commedia - come scrive il Bertana ci licenzia a credere che ai morti, con la persona, sia tolta o solo affievolita la voce », nessun esempio tratto dalla d. C., soggiungerei, ci licenzia nemmeno a credere che la tenebra abbia mai, di per sè sola, munta via la tinta delia faccia ai trapassati: eppure tutt' e due i fenomeni sarebbero o parrebbero egualmente evidenti e naturali. Concludiamo. Il nostro contraddittore, se ne abbiam bene compresa e bene esaminata la nuova interpretazione, non sembra dunque che nel martoriato verso abbia veduto un senso letterale meglio sodisfacente di quello che altri s'ingegnò d' escogitare: è necessario quindi, e per il senso letterale, chi ne vegga alcuno, e per l'allegorico, starci sempre contenti alla prolessi. Il Casini perciò riferirà quivi semplicemente la bella chiosa allegorica dello Scartazzini e questi poi, nel recentissimo suo commento non troverà di meglio, per il senso letterale, che rifarsi addirittura al 1324, e ripetere col più antico interprete di Dante essere Virgilio « quasi deletum ex longa taciturnitate et tenuis ac modice sonoritatis quia dudum fuerat ex vita sublatus» [Ediz. minore, Mil. Hoepli, 1893]. (1) 0. Antognoni., Saggio di studi sopra la Commedia di Dante, Livorno, 1893; pag. 4 e segg. Cfr. il Giornale dantesco, an. I, quad. III, pag. 130 e segg. Le varie questioni sull'argomento sono quivi riprese in largo esame dal ch. prof. G. Maruffi. (2) Di una terzina dantesca, Udine, 1885. Cfr. G. Finzi, Saggi danteschi, Torino, 1888; pag. 142 e segg. Il mio scritto sull'argomento, già apparso in limitato numero di copie, riapparirà forse, per gentile invito del direttore, nel Giornale dantesco: non prima però ch'io l'abbia sostanzialmente rifatto. A. FIAMMAZZO. Cotesto lungo silenzio, anzi che del sole, è adunque ancor sempre, finora, quello di Virgilio (*). IL PASSAGGIO DELL' ACHERONTE Nel 1887 fu estesamente trattata la questione sul passaggio acheronteo da diversi egregi letterati, tra i quali primeggiarono il Puccianti e il Fornaciari. L'uno però fu di parere contrario all' altro. Il primo, basandosi sull'asserzione di Francesco da Buti, cioè che Dante fu portato da un angelo all' altra sponda del fiume infernale sostenne che la luce vermiglia balenata fu il lampo percursore del tuono che ruppe [canto IV] l'alto sonno nella testa del poeta; e che questi fu messo sull'orlo del primo cerchio che l'abisso cigne nel l'intervallo di tempo scorso dal lampo al tuono (1). Il secondo invece, con un certo acume critico, confrontando i versi del terzo canto dell'Inferno con quelli del nono del Purgatorio, tentò dimostrare che Lucia fu quella che trasportò Dante mentre dormiva, e che il greve tuono è un sogno miracoloso in cui gli si prenunziano le grida infernali, le quali egli sentirà realmente nel viaggio pel regno della morte » (2). L'interpretazione di un passo dantesco può esser vera allora che, messa in confronto con un'altra, acquisti tanto valore quanto ne fa perdere. All' opposto nessuna delle sovrac - Di (*) Alle osservazioni sulla chiosa del Bertana, già da me, quasi per incidenza, riassunte nella Bibliot. delle scuole class. ital. [15 mar. 1894, n. 12; cfr. anche Bullettino d. Soc. dant. ital., N. S., fasc. 5], rispose brevemente e cortesemente nel periodico stesso [15 apr., n. 14] l'antore. Osservato ch' egli non sa quale interpretazione quivi io preferisca e che della propria non s'appaga pienamente nemmen lui, il sig. Bertana si sofferma alla mia obbiezione principale e scrive: «È un'ombra o non è un'ombra Virgilio? E gli spettri chi mai se li figura se non pallidi, smunti, scialbi appunto come Virgilio, secondo me, appare a Dante? Qui però il sig. F. ha creduto di scorgere il punto più debole della mia chiosa, la quale, a parer suo, manca assolutamente d'ogni fondamento »> perchè Virgilio non viene da luogo d'ogni luce muto, ma da quel limbo, che fra tutti i luoghi dell'inferno è il solo privilegiato di luce ». Orbene, se non vi fossero altre difficoltà che questa, quasi me ne potrei rallegrare; gli abi tatori del nobile castello, non ostante la luce che li circonda, non sono che de' morti; e la luce di laggiù non è quella del sole, ma è luce di sapere e di gloria, non può certo dare ad essi l'incarnato dei vivi ». Per debito di lealtà ho riferito la brevissima risposta. questi giorni è uscito un altro saggio sull'argomento stesso [A. Mazzoleni, Chi parea fioco, Estr. d. Atti dell' Accad. di Arcireale, vol. V]. Ne riferisco le conclusioni: Senso letterale... Alighieri ha voluto in quel fioco significare gli effetti di flacidezza e macilenza . . . . prodotti in Virgilio dalla condizione sua di dannato al limbo, e così.... il suo verso sonerebbe: una persona la quale pareva isfralita.... come per lungo silenzio;... Senso allegorico : . . . Virgilio è fioco, cioè debole, infiacchito, come fiacca e debole per sè stessa, senza l'aiuto della fede, appariva l'umana ragione nello sfacelo morale di quell'epoca...»; parafrasi, come la vuole anche il prof. Mazzoleni, della chiosa di Benvenuto: humana ratio est mo dica in usu hominum, et raro loquitur ». Lo studio è fatto bene; la conclusione però n'è sempre una prolessi, perchè Dante non sapeva ancora chi fosse e che simboleggiasse quell'ombra; senza di che il simbolo della ragione, che dovrà ritornare in sulla diritta via l'uomo e la società smarriti, non deve rappresentare la fiacca e debole, ma sì la sana ragione, che dovrebbe subito apparir tale per ispirar a' traviati fiducia di salute. Ma il nuovo saggio del M. merita certamente maggiore riguardo e miglior esame. (1) Fanfulla' della domenica, 1 febbraio 1887. (2) Nuova Antologia, 1887 fasc. 16. cennate spiegazioni guadagna o perde con l'altra; secondo quale di esse si legge, si è di un parere e poi si finisce col riconoscere che nessuno degli illustri espositori ha colto nel vero. Senza curarmi di quanto fu detto pro e contro, la spiegazione del Puccianti io la ritengo per una voluta e forzata sofisticheria. Esclami egli pure: Questa è poesia veramente sublime, veramente degna di Dante! Non fa in tal modo che maravigliarsi della sua trovata. Il voler ritenere un' interpretazione conforme al pensiero dell' Alighieri solo perchè essa è peregrina, è cosa del tutto contraria al senso comune. Il Puccianti poi trova stranissimo, assurdissimo a dire « che Dante potesse essere risvegliato dalle grida dei dannati, mentre tra i più vicini di questi e lui c'era niente meno che la distanza di tutto un cerchio, che è il primo, il limbo. » Ma non trova strano che Dante nell' attimo incalcolabile che scorre dal lampo al tuono, possa essere trasportato dalla sponda della palude al primo cerchio. Del resto non so che ci abbia a fare il greve tuono, che ruppe l'alto sonno nella testa al poeta, con la luce vermiglia che lo fece cadere, poichè il secondo verso del canto quarto dell'Inferno è in perfetta relazione con il nono dello stesso canto. Ruppemi l'alto sonno nella testa un greve tuono sì ch' io mi riscossi come persona che per forza è desta; e l'occhio riposato intorno mossi dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dove io fossi. Vero è che in sulla proda mi trovai della valle d' abisso dolorosa che tuono accoglie d'infiniti guai. Gli ultimi tre versi sono esplicita spiegazione dei primi sei; e maggiormente le parole vero è chiariscono tutto: dicendo vero è Dante dà piena dimostrazione del perchè gli si ruppe l'alto sonno nella testa. So che egli nel secondo cerchio esclama: Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentir, ma non per questo il poeta non prima di allora poteva sentire qualche suono confuso; ed anzi nel dodicesimo del Purgatorio nel salire al secondo cerchio esclama pure: Ahi quanto son diverse quelle foci Il che significa che erano certamente bene assordanti gl' infiniti guai dell' inferno e tali da riscuoterlo come persona che per forza è desta. Reso evidente che il greve tuono del quarto canto non ha niente di comune con la luce vermiglia del terzo, è chiaro che l'interpretazione del Puccianti non ha più luogo. (1) Passo ora a quella del Fornaciari. Sembra essa di primo acchito profonda e nello stesso tempo vera, ma io se ben considero in essa vedo solo una volontà di piegare le cose come si vuole, non come sono in realtà. L'illustre letterato porta a convalidare la sua asserzione il riscontro che esiste fra i versi del " (1) Per maggior confutazione vedi Il greve tuono dantesco di C. Antona-Traversi, Città di Castello, S. Lapi, 1887. IV dell' Inf. e il IX del Purg. ; ma esso è puramente accidentale, poichè, tanto nel primo caso come nel secondo, abbiamo una descrizione: del rompersi del sonno; e si sa non esser raro in Dante il trovare due luoghi per l'espressione quasi simili. Non è quindi una ragione plausibile quella che porta l'illustre Fornaciari; e mentre ammiro le profonde osservazioni che fa per rafforzare l'esposizione sua, non posso però di esse tener gran conto perocchè partino da un punto falso. Bisogna anzitutto spiegare il senso letterale e poi venire al figurato; il Fornaciari invece si vale quasi dell'allegoria per ispiegare il senso alla lettera. Già Francesco da Buti aveva veduto il vero nel darci la spiegazione del passaggio dell'Acheronte; e se con meno pretese di ricerche strane, peregrine avessero letto i versi che si riferiscono alla nota questione, i dantisti, che di essa si sono occupati, facilmente avrebbero colto nel segno. Chi mi terrà dietro nell' esposizione che sono per fare si convincerà che essa per la sua semplicità e naturalezza corrisponde all'intenzione di Dante. I due poeti, Dante e Virgilio, giunti all'entrata della città di Dite, videro più di mille in sulle porte dal ciel piovuti che stizzosamente va per lo regno della morta gente? Virgilio si spinge avanti per parlare con loro, ma essi gli chiudono subito le porte in faccia appena l'hanno udito; ed egli, privo di ogni baldanza, ritorna a Dante cui dice di non disperare, perchè già discenda l'erta passando per li cerchi senza scorta tal che per lui ne fia la terra aperta. E difatti nel canto IX comparisce il messo celeste e la sua venuta è così descritta: E già venìa su per le torbide onde un fracasso di un suon pien di spavento, per cui tremavano ambedue le sponde; non altrimenti fatto che di un vento, impetuoso per gli avversi ardori, che fier la selva e senza alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori: dinanzi polveroso va superbo e fa fuggir le fiere e li pastori. Tutto questo fracasso che prenunzia la venuta del messo celeste rammenta i fenomeni che avvengono sulla riva dell' Acheronte; eccone i versi: Finito questo la buia campagna La terra lagrimosa diede vento che balenò una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento e caddi come l'uom cui sonno piglia. Quantunque apparentemente sembra che non vi sia, pure, a chi sottilmente considera, apparisce chiara una perfetta assimilazione tra questa descrizione e la prima citata per l'arrivo del messo celeste. Invero nel canto terzo abbiamo terremoto, vento e luce vermiglia, mentre nel nono solo il fracasso, cioè il terremoto; e non pochi sono quelli che da queste superfi ciali apparenze sono stati tratti in inganno. Il Bartoli nella sua storia della letteratura italiana dice: «Nel canto nono non ci è già vento ma il fracasso non altrimenti fatto che il fracasso di un vento: il che è ben diverso. » Il Fornaciari scrive: «Là [canto IX] a buon conto, non abbiamo il bagliore, non abbiamo il vento, poichè questo fa parte di una comparazione e neppure abbiamo il terremoto, perchè il tremore d'ambedue le sponde è l'effetto del fracasso del suon pien di spavento; nè certo si può confondere, ad esempio, un terremoto col tremore causato da uno scoppio di polvere pirica negli edifizi circostanti. » L'obiezione che muovono tutti e due gl' illustri professori non vi sia vento - non ha nessun valore, poichè neppure nel condo i due versi 'del XXI del Purgatorio il verso cioè che nel canto nono terzo vi è vento. Difatti, se ma per vento che in terra si nasconda la terra lagrimosa diede vento si deve intendere: la terra lagrimosa tremò. Ed ecco che non essendo il vento nel canto terzo, sparisce una difficoltà che si voleva affacciare contro l'assimilazione dei due canti. Il non riconoscere poi un terremoto nel tremore di ambedue le sponde a me sembra voler negare la verità; inoltre Dante non poteva confondere il vero terremoto con qualche scoppio di polvere pirica! E come lo stesso Fornaciari dice al Puccianti passi per uno scherzo. Resta ora a dire che cosa sia la luce vermiglia che si trova solo nel terzo canto. Se Dante dirò col Fornaciari non ce ne ha data la spiegazione bisogna supporre che la si possa ricavare dal contesto del poema. Nel II del Purgatorio abbiamo i versi seguenti che descrivono la venuta di un angiolo: Ed ecco qual sul presso del mattino che il muover suo nessun volar pareggia : Poi come più e più verso noi venne La luce vermiglia che balenò sulla squallida riva infernale ha pieno riscontro con quella che non può sostenere nel purgatorio: il che significa che col balenare della prima Dante ci volle dire dell'arrivo di un angiolo. Ed io, ritenendo il quarto ultimo verso del III dell'Inferno come spiegazione dei tre antecedenti, leggo così: Finito questo la buia campagna La terra lagrimosa diede vento che [perchè] balenò una luce vermiglia e caddi come l'uom cui sonno piglia. |