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soggettivamente e riguardando al momento attuale, allorché sono travagliate da un impeto di vento, pensano, per l'esperienza del passato, che dopo quel soffio ne verrà un altro il quale non sarà meno tormentoso : cosí sempre per tempo infinito. E i due concetti mentre non sono uguali non stanno però in contraddizione; perché lo spazio di tempo che il secondo presuppone dover correre tra una raffica e l'altra, non distrugge la continuità della bufera; perché questa, ripeto una volta piú, non viene mai a cessare per quanto intervallo ci possa essere tra due folate consecutive: la sua eternità risulta dal ripetersi incessante di quelle. Qui dunque né ripetizione della medesima idea, né contraddizione col si "tace, di Francesca, né discordanza dalle tempeste terrestri. Delle due interpretazioni, per qualunque riguardo, parmi che sia da accettare la seconda; sicché il "fiato, non è la stessa cosa che la “bufera,; e pertanto se si respinge la mia congetturale, all'aggettivo « quel, manca il termine di relazione.

Poiché l'argomento il dà, mi permetta, egregio Direttore, di aggiungere un'osservazione. La pena di questi lussuriosi deve intendersi costituita dai colpi di vento successivi, perché son questi che danno travaglio alle anime e che per l'aer cieco le vanno spingendo continuamente. Quando la foga impressa alle anime dall' impeto di uno di essi colpi sta per calmarsi, ecco il susseguente che le rimette sull'andare di prima; e cosí s'aggirano senza alcuna posa e sempre con la medesima forza per tutta l'eternità. Questo modo di pena trova riscontro in quella dei seduttori, allogati dal poeta nella prima bolgia, i quali corrono continuamente sollecitati dalla frusta dei demonii. Sarebbe questo riscontro casuale? In poesia cosí ponderata come quella della Commedia, bisogna andar coi pié di piombo nell'asserire che una simiglianza è accidentale e non voluta; e se per poco si rifletta che la seduzione è colpa lussuriosa, il riscontro mi pare espressamente cercato, e quindi balza chiara all'intelletto la corrispondenza tra i colpi di frusta e gli sbuffi del vento. Ecco dunque una novella prova che la bufera infernale procede a raffiche, come le terrestri; la qual simiglianza appunto è il fondamento della spiegazione testé ragionata.

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Se dunque io non m'inganno, con questa nuova variante, da me prodotta su quella recata dal Franciosi, tutto va per la migliore; se non che io medesimo convengo che essa, ahimè! ha il difetto della nascita. I dantisti potranno far buon viso a quella di lui, perché ha con sé l'autorità di codici pregevoli; ma chi vorrà tenere per buona la mia, nonostante che abbia la sua ragione di essere nella coerenza stessa della poesia? Cosí, per conseguente, io avrei lavorato indarno a provare che essa è preferibile a qual altra si voglia. In Inghilterra, ove le difficoltà di restituire alla genuina lezione il testo shakspeariano non sono minori che da noi per il testo della divina Commedia, le lezioni congetturali non sono aborrite: perché dunque

1 Cfr. Nel primo vallo di Malebolge nei miei Studi danteschi, Loescher, Firenze, 1892.

non si potrebbero accettare anche per il nostro poeta, nel caso che il parere dei dotti cultori degli studii danteschi sia unanime nell'ammettere i vantaggi dell'accordo di esse col contesto? Ma questo è un desiderio, non una speranza. Di speranze io non ne conservo che una, e forse due: la prima è che in qualcuno di quei dieci codici che io non ho potuto collazionare, oltre la lezione del Franciosi, sia per guasto o per cattiva mano di scrittura o per altro, ci si possa leggere pure quella proposta da me.' L'altra, che negli studii ch'or si fanno per ristabilire al possibile la lezione schietta del testo del sacro poema, venga fuori qualche variante conforme a quella da me congetturata e difesa. A buon conto, se la proposta dal Franciosi, sforzandone un po' il senso, si potesse spiegare a questo modo: Quando giunge il punto in cui (le anime) si trovano còlte dall'impeto del vento, che sarebbe preciso, ma con diversa immagine, il significato della mia; allora, senza ricor rere a mutazioni di sorta, si può lasciar quella; e cosí nessuno ci troverebbe da ridire.

Ma fra questo storcimento d'interpretazione, e le leggiere mutazioni di forma da me proposte, che preferirebbe Ella se non ci fosse altra via di uscita?

Accetti una cordiale stretta di mano dal suo

Roma, dicembre del 1894. ·

G. DEL NOCE.

I codici da me consultati sono quei sei che si trovano a Roma. Tra essi è notevole quello dell'Angelica (1102), perché guastissimo nel punto di cui si discute, e però causa di altre lezioni errate a chi l'avrà potuto ricopiare. Il verso della ruina ha questa grafia;

Quado iunge deveti alaruina ;

dove la seconda parola che sta invece del « giungon >> mostra di quante alterazioni erano capaci quei buoni menanti.

CHIOSE DANTESCHE

LA SECONDA MORTE.

Ove udirai le disperate strida,
vedrai gli antichi spiriti dolenti
che la seconda morte ciascun grida.
(Inf., c. I, v. 115-117).

È questa una terzina attorno a cui non pochi comentatori antichi e moderni si sono scervellati; e ognuno di essi ci ha data una spiegazione differente da quella degli altri, senza però che nessuno abbia mai del tutto risoluta la questione. La lunga sequela d'interpreti non ha fatto che rendere, con le molte divagazioni ed inutili ricerche, vie piú oscuri ed intrigati i versi che per sé stessi sono chiarissimi, Ed io, senza altro, vorrei qui subito esporre la mia spiegazione: ma al punto come stanno le cose ritengo necessaria una breve rassegna di tutte le interpretazioni o, per lo meno, di quelle più conosciute per mostrare che nessuna di esse sfugge a dubbi ed obiezioni giustissime.

Alcuni, col Boccaccio, ritengono che gridare la seconda morte s'intenda desiderare l'annientamento, come se i dannati non sapessero le cose che ne son lontane, tra le quali certamente non veggono la distruzione di ogni loro sofferenza. Altri, col Buti e con Cesare Beccaria, sostengono che i dannati, gridando la seconda morte, invochino il giudizio finale; e ciò per due ragioni: o per aver piú compagni di pena, o per quella forza, sconosciuta nell'uomo, che nella disperazione gli fa desiderare il colmo del dolore, poiché Dante, conforme all'Apocalisse, ammette che dopo "la gran sentenza,, i tormenti cresceranno. La prima delle due ragioni è per me addirittura puerile; l'adagio "mal comune, mezzo gaudio il Giusti lo dice trovato da un egoista, e non si può, per il rispetto dovuto al nostro poeta, supporre che una cosí meschina idea fosse esposta da lui. E non meno priva di forza e valore, per quanto ben ritrovata, è l'altra ragione, poiché non so quanto vero sia l'assunto di desiderare il colmo del dolore se questo non renda del tutto insensibile. Un essere vivente forse lo può bramare, perché spera nella morte che ritiene termine di ogni sofferenza, ma non già i dannati di Dante i quali, oltre ad essere antiveggenti, debbono agire secondo la mente del profondo poeta. E difatti Francesco Macri Leone, forse prevedendo l'assurdità di tali ragioni, spiega nel modo seguente: "Ogni dannato piange (grida) disperatamente non solo per quello che soffre, ma per il terrore della seconda morte, dopo la quale rimbomberà in eterno la crudele sentenza,,; intendendo cosí anche egli per seconda morte quella che riavrà ogni dannato, ripresa sua carne e sua figura,, dopo udito quel che in eterno rimbomba. 1

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Certo che questa è migliore delle due citate spiegazioni; è condotta, se non altro, con un po' più di sottigliezza logica, ma non regge pur essa a giuste opposizioni, giacché non so da che si possa dedurre essere la seconda morte proprio quella che segue dopo la vita, per quanto brevissima, che si dice avranno tutti nel giudizio universale. Del resto Dante, come farò vedere piú appresso, per seconda morte intende ben altra cosa di quello che intendono alcuni suoi comentatori.

Lo Scordato, con un artifizioso ragionamento, spiega che la seconda morte è il disgiungimento dello spirito divino dall' umano, ossia è la separazione dell'anima sensitiva dalla intellettiva. Tale spiegazione fa ai dannati desiderare ciò che sanno inavverabile, ovvero è due volte falsa:

1 Vita Nova, periodico, 3 marzo, 1889.

2 In Lettere e arti, 3 marzo, 1889.

primo, perché i dannati non possono sperare in un miglioramento, avendo "la speranza cionca „; secondo, perché sanno che

...quando Lachesis non ha piú lino

solvesi dalla carne, ed in virtute
seco ne porta e l'umano e il divino.
(Purg,, c. XXV, v. 79-81).

Il che viene a dirci che l'anima intellettiva è indissolubile dalla sensitiva, poiché questa, priva dell'altra che sa la grandezza di Dio, non potrebbe piú concepir dolore; ciò che è contrario alla credenza cristiana.1

Il Della Giovanna poi intende che i dannati bramino di rimorire dopo una seconda vita in cui prenderebbero il battesimo, e si fa forte dei versi del Paradiso (c. XX, 116) dove è detto di Traiano:

E credendo s'accese in tanto foco
di vero amor che alla morte seconda
fu degno di venire a questo gioco."

Ecco: è questo uno dei soliti abbagli che prendono gli interpreti quando, seguendo l'insegnamento del Giuliani di “spiegare Dante con Dante„, si valgono di quei riscontri puramente accidentali, i quali non hanno nessuna relazione fra loro se ne togli la casuale combinazione di parole. Là, nel caso di Traiano imperatore, era proprio necessario dir seconda morte e non vi è nessuno che non intenda ciò che con quella frase voglia significare il poeta; mentre qua è fuori di proposito addirittura volere intendere la stessa cosa cui il poeta allude nel Paradiso. Le preci di papa Gregorio valsero per Traiano e certamente i dannati sanno che non vi sarà un altro santo padre che per loro interceda presso Iddio. È la solita questione di non essere conforme all'ordito generale della tela dantesca; è la solita dimenticanza della scritta infernale: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.

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Ed ora eccomi alla spiegazione mia; però mi piace premettere che gli antichi spiriti per me sono propriamente "color che son sospesi „, poiché Dante, facendosi dir da Virgilio:

Ove udirai le disperate strida,

vedrai gli antichi spiriti dolenti,

conso

intendeva significare due specie di dannati; ed in vero "le disperate strida,, stanno in nanza perfetta ai "sospiri, pianti ed alti guai,, e in chiaro disaccordo con le "voci soavi„, con cui parlavano 46 gli spiriti magni, ai quali il poeta allude nella terzina in questione. 3 Ciò premesso, i noti versi io li leggo cosí:

Vedrai gli antichi spiriti, dolenti
che la seconda morte ciascun grida,

4

dolenti cioè che ciascuno gridi la seconda morte. Ed ecco che in tal modo vengono appianate due difficoltà: non fa piú bisogno disputare sul significato di gridare, perché grida, qui, nel mio senso, non si riferisce piú a ciascuno spirito antico; e neppure è da discutere se i dannati possano avere una seconda morte, poiché neanche è ad essi che Dante la riferisce. Però a meglio chiarire ed avvalorare quanto ho esposto è necessario che io dimostri che cosa intendo per seconda morte.

1 Per confutazione maggiore vedi C. Camerano, in Lettere e arti 3 agosto 1889.

2 I. Della Giov inna. Frammenti di studi danteschi, Piacenza, 1886.

3 A conferma di tale assunto confronta il prof. Pier Vincenzo Pasquini in "L'Alighieri „

sta di cose dantesche, anno 1o pag. 114.

rivi

In tal senso il verbo gridare ha lo stesso significato che Dante gli dà nel verso: E ciascun

Dante, nel quarto trattato del Convito cap. VII, a spiegazione del verso “E tocca tal ch'è morto e va per terra,,, scrive: "È da sapere che veramente morto il malvagio uomo dire si può.... Vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque se vivere è l'essere dell'uomo; e cosí da quell'uso partire è partire da essere e cosí è essere morto. E non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona il fine della sua vita ?„, San Francesco, tra i versetti del Cantico del Sole, ha questi:

Laudato si' per nostra sora morte corporale,
dalla quale nullo homo vivente pò skappare;
guai a quei ke more in peccato mortale,

beati que' ke se trovano in le tue sante volontate

ka la morte secunda non li farà male.

Ciò è d'accordo con l'Apocalisse (II, 11) che dice: Qui vicerit non laedetur morte secunda e col passo di san Paolino che riporta il Tommasèo: “Prima mors est naturae animantium dissolutio: secunda mors est aeterni doloris perpessie. E piú esplicitamente in De Civitate Dei (lib. XIII, cap. XII) sant'Agostino scrive: "Quoniam prima (mors) constat ex duabus: una animae, altera corporis: ut fit prima totius hominis mors, cum anima sine Deo et sine corpore ad tempus poenas luit: secunda vero ubi anima sine Deo cum corpore poenas aeternas luit., Dal che si ricava che la prima morte è vivere in peccato, cioè senza Dio, e la seconda rispetto ai peccatori è proprio la morte corporale per la quale si diviene dannati. 1

i versi

Vedrai gli antichi spiriti, dolenti

che la seconda morte ciascun grida

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Laonde

si risolvono in: vedrai gli antichi spiriti che si dolgono che ciascun peccatore aneli la seconda morte, o meglio che ciascuno si ostini a voler morire ribellante alla legge di

Quello imperador che lassú regna.

Se alla nota terzina si dà il vero senso che io ho esposto, quanta magnanimità acquistano gli antichi spiriti! Dante se non li avesse ritenuti compassionevoli verso i ribellanti non avrebbe potuto prendere tanta cura di loro fin dal primo accenno di Virgilio a cui dice:

Si ch'io vegga la porta di san Pietro

e color che tu fai cotanto mesti.

Tutto nella Commedia procede con perfetta regolarità e con un crescendo esplicativo che talora desta meraviglia. Il poeta è conforme sempre a quanto ei stesso intende nel verso famoso

Poca favilla gran fiamma seconda.

Dapprima, come ho detto, sente inclinazione per gli spiriti antichi, e poi, saputo chi stesse nel limbo e che senza speme vi si viveva in desio, prova dolore ed esclama:

Gran duol mi prese al cor quando lo intesi,
perocché gente di molto valore

conobbi che in quel limbo eran sospesi.

E finalmente Dante, pieno d'orgoglio, scrive:

Roma, gennaio 1894.

Colà diritto sopra il verde smalto

mi fur mostrati gli spiriti magni

che nel vederli in me stesso m'esalto.

COSTANTINO CARBONI.

santo ne grida mercede. All'obiezione, nulla per sé stessa, che Dante non usi l'indicativo pel soggiuntivo, oppongo i versi: Ell'è quanto di ben può far natura. Io non so ben ridir come

v'entrai.

1 Francesco Pasqualigo, profondo conoscitore di Dante, cosí scriveva: "Per Dante la prima morte è l'essere in vita senza Dio e la seconda è l'essere dannato., Alighieri, rivista di cose dantesche, anno I, pag. 111.

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