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Tutto questo a me non pare che possa essere ragionevolmente discusso e negato. E se è vero che la rivoluzione italiana sia un prodotto letterario, come io penso, Dante che die' forma stabile e sicura alla lingua volgare comune, è, sotto questo aspetto, il più grande. se non il più antico cooperatore del nostro risorgimento. Ma non bisogna dimenticare che l'unità d'Italia era per Dante nell' unità dell'Impero restaurato, come afferma da par șuo Alessandro d'Ancona : unità di giurisdizione suprema, più che materiale e di unico stato. Lo stesso illustre professore aggiunse: Se tal concetto poteva mai avverarsi, e, avverandosi giovare all' Italia, non cercheremo; ben diremo come Dante ebbe a credere un momento che dall'altezza della filosofica disputazione questo concetto potesse essere recato in atto quando Arrigo di Lussemburgo scese giù dalle Alpi...n È a notarsi però che questo Arrigo, nel qnale Dante pose tant'impeto di speranza politica, non venne in Italia per fare l'unità d'Italia; sibbene per affermare in Italia l'autorità imperiale.

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Non erra dunque colui che, in considerazione dell'unità letteraria compiuta da Dante specialmente nel Volgare eloquio, pone l'Alighieri tra' più antichi cooperatori ed iniziatori dell'Unità italiana: ma, a scanso d'ogni equivoco, deve in proposito affermare il senso ch'egli dà a questo concetto, e come Dante non poté averlo intero nella mente, tale e quale esso si è svolto miracolosamente di poi e compiuto dopo tanti secoli. E questa spiegazione a me pare che debbano avere quelle parole scritte dal compianto prof. Francesco Fiorentino, e che forse han tratto in errore l'egregio avvocato di Bucarest, Monsieur Disescu: “... Dante fu volonteroso di comporre la penisola ad unità politica, né potendovi adoperare le armi, ei ch'era nato privato e popolano, prescelse una via piú lunga, ma più sicura, e diessi ad unificare la lingua...,, 2

Roma.

MARIO MANDALARI.

1 Cfr. D'ANCONA, Il concetto dell'unità politica ne' poeti italiani. Pisa, Nistri, 1876.

2 Cfr. FIORENTINO, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli, Morano, 1876, pag. 214.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI.

Dott. Lorenzo Filomusi-Guelfi

Colui che dimostra a Dante il primo amore di tutte le sustanzie sempiterne (Par. 26° 38, 39) Estratto dalla Biblioteca delle Scuole italiane (Vol. V, N. to) Verona, Donato Tedeschi e figlio, editori in-16o, di pagg. 13.

Veniamo un poco in ritardo a parlare di questo lavoro, perché avremmo amato trattarne di proposito, come esso si merita: ma poiché la scarsezza del tempo ce lo impedisce, vediamo di dirne quel tanto che possa almeno invogliare alcuno ad approfondire l'argomento, e togliere cosí, se ciò è possibile, un altro dei campi aperti ai dissensi e alle disputazioni tra la falange dei commentatori.

Io convengo per prima cosa coll'autore nell'escludere a Colui che mi dimostra il primo amore Di tutte le sustanzie sempiterne i significati più comunemente attribuitigli di Platone o di Aristotele: ma non per le ragioni da lui addotte, le quali non mi sembrano troppo esaurienti. A pag. 8 egli dice che Dante non avrebbe mai fatta precedere l'autorità di alcuno di questi filosofi alla stessa autorità di Dio. A me pare al contrario che ciò facendo egli non avrebbe che proceduto con tutte le regole di una giusta gradazione a minori ad maius: prima i filosofi, poi il vecchio Testamento, poi il nuovo.

L'autore accenna pure che avendo il poeta esplicitamente dichiarato che intende parlare Di tutte le sustanzie sempiterne, che, come si sa, sono gli angeli, i cieli e le anime umane, nessuno degli autori citati può essere colui al quale Dante si riferisce, perché nessuno parla dei cieli. Ma sta poi a vedere se Dante certamente ve li comprese: forse che è bello mettere sullo stesso piede gli angeli e le anime umane? le anime umane e i cieli? e si può dire poi che anche i cieli amino Dio? Lo dice l'autore, ma per me stento un poco a capacitarmene.

Né piú valide mi sembrano altre delle opposizioni che l'autore fa ai sostenitori di quei due filosofi. Dice a pag. 7 che questi mostrano, non dimostrano, essere Dio il primo amore di tutte le sustanzie sempiterne. Ammettiamolo pure; ma chi non sa quante volte questi due verbi, anzi queste due forme di uno stesso verbo, si scambiano tra di loro? Quante volte infatti non vediamo in Dante dimostrare per mostrare, e, reciprocamente (come nel dialetto piemontese), mostrare per insegnare! Esempi di quest' ultimo: XXIX, 115 Volle ch' io gli mostrassi l'arte: XXXV, 107 Lo Sol vi mostrerà.... Prendere il monte....: XVI, 62 Sí ch' io la vegga e ch'io la mostri altrui. Del dimostrare poi per mostrare sono anzi in Dante più frequenti i luoghi, che non siano quelli ove esso ha il senso attuale: basta aprire il Vocabolario del Blanc. E chi non ricorda, p. es.: Che ne dimostri là dove si guada al XII, 94 Inf., o La spera ottava vi dimostra molti Lumi del II, 64 di Paradiso?

Al Costa, che, seguendo il Lombardi, chiosò "tal verità me la fa conoscere Platone il quale dimostra nel suo Simposio, Amore essere il primo di tutti gli Dei. Noi per le sustanzie sempiterne intenderemo gli Angeli e le anime umane egli oppone a pag. 4 n. 2 "sicché anche le anime umane son Dei?, quasiché anche Dante fosse obbligato a intender Platone ad literam;

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e mancassero i luoghi ov' egli dà prova invece d'intenderlo ad discretionem, spiegando, p. es. nel Conv., per intelligenze quelle che Platone chiama le idee! E quasiché, anche Dante non chiamasse Dee le gerarchie angeliche, e come Dii i beati! L'appunto da farsi al Costa sarebbe piuttosto ch'egli, mentre citava la opinione di Platone, dava poi a sustanzie sempiterne un significato che con quella opinione non aveva nulla affatto che vedere. Ma la ragione principale di escludere Platone e Aristotele e Pitagora e quanti altri filosofi si vogliano, per me è la seguente (prego chi mi fa l'onore di tenermi dietro, di farlo con un Dante aperto davanti). Interrogato da s. Giovanni qual era l'oggetto del suo amore, Dante risponde: è Dio. Interrogato poi, chi fece volgere l'amor suo a Dio, risponde: Per filosofici argomenti E per autorità che quinci scende Cotale amor convien che in me s'imprenti. E qui egli sfodera prima, in tre terzine, i filosofici argomenti, che riduconsi al seguente sillogismo: il bene suscita amore, quanto più il bene è grande: Dio è il sommo bene: dunque Dio suscita pure il sommo amore. Viene poi (lasciando la maggiore che forse gli pare evidente) a provare la minore, essere Dio sommo bene, minore ch'egli chiama Lo vero in che si fonda questa prova; e lo fa (con una forma di simetria a lui frequentissima) mediante tre altre terzine; nella prima delle quali chi ciò prova è Colui che mi dimostra il primo amore, etc., nella seconda, un autore del vecchio Testamento, nella terza, uno scrittore del nuovo. Come c'entrerebbero dunque Platone ed Aristotele? Si possono questi classificare come autorità che scende dal cielo (v. 26)? come autorità concorde all' intelletto umano (v. 47)?

Ma si dirà: Dante qui non è ancora entrato a parlare dell'autorità che quinci scende; egli è ancora nei filosofici argomenti. Impossibile, giacché quello ch'egli addurrebbe di Platone o di Aristotele non sarebbe mai un argomento, ma semplicemente un' autorità, e Dante qui non parla di altra autorità se non di quella che viene dal cielo.

Ed eccomi cosí condotto a malincuore a concludere anche contro la opinione dall' egregio Filomusi manifestata, che Colui che mi dimostra, etc., sia il Sole. Si può egli forse il Sole chiamare un'autorità che scende dal cielo, un autorità concorde all' intelletto? O lo si dovrebbe forse collocare fra gli argomenti? In tutte le maniere, per me sarebbe sempre un po' forte da intendere; come lo sarebbe anche che il Sole, ciò che pur vedemmo reputarsi da l'autore necessario per le altre interpretazioni, desse non una mera indicazione, ma una rigorosa dimostrazione dell'essere Dio sommo bene.

Il Filomusi, prendendo il primo amore Di tutte le sustanzie sempiterne come una semplice perifrasi in luogo di Dio (supposto a che lo stile di Dante nulla ha veramente che si opponga), viene a dire che l'essere Dio sommo bene gli viene dimostrato da quelio stesso che gli dimostra l'esistenza di Dio; giacché, come il Sole con la sua forza e bellezza, e l'armonia de' suoi movimenti dimostra l'infinita sapienza e potenza di chi lo ha creato, cosí coi benefici effetti che produce ne dimostra pure la immensa bontà. Tutte cose bellissime; ma sono a luogo loro? e se anche Dante avesse scritto, come vuole l'autore: Che Dio sia sommo bene me lo appiana allo intelletto quello stesso che me ne dimostra l'esistenza; sarebbe discreto pretendere che chi legge corra a pensare che questo tale sia propriamente il Sole?

O chi dunque allora dovrebbe essere? Io non lo dirò assertivamente, perché, come premisi, mi manca il tempo di appurarlo; ma tutto mi fa propendere nell' avviso di quello, o quelli, non so, che votarono per Dionisio l'areopagita, il creduto autore della celeste gerarchia, colui che Dante colloca frai sapienti al X, 115 di Paradiso, e sulla scorta del quale al XXVIII, 130 egli corregge un errore commesso nel Convito circa la enumerazione dei cori angelici (una volta si occupavano anche di queste correzioni!). Da tutto ciò è ben lecito arguire che scrivendo il Paradiso egli ne fosse ancora fresco di lettura; e quindi in tale disposizione di mente da fargli ritenere che la sua perifrasi dovesse a tutti riescire cosí evidente come era a lui quando la dettava.

A questo modo egli verrebbe in conclusione a dire: Che Dio sia sommo bene me lo mostra Dionisio, descrivendomelo come primo amore di tutte le gerarchie angeliche; me lo mostra Mosè che facendo parlare Dio gli mette in bocca le parole: Ostendam tibi omne bonum; me lo mostri tu stesso, o Giovanni, il cui Vangelo non è dal principio alla fine che una continua glorificazione dell'amor di Dio del quale per ciò appunto sei divenuto figura. Egli verrebbe cosí ad

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associare all'autorità del vecchio e del nuovo Testamento quella dei Padri della Chiesa, compenetrati nell' Areopagita; al modo quasi che nel V, 77 di Paradiso egli vi aggiunse invece quella del Pastor della Chiesa che vi guida: e non vi sarebbe veramente nulla di singolare né di

straordinario.

Vi si opporrebbe bensí quello che disse l'autore, doversi in tutte le sustanzie sempiterne, comprendere anche i cieli. Ma a ciò in parte già risposi; ed ora vi aggiungo, che anche la parola sustanzia (come tante altre e in Dante e nella lingua in genere) si può ben prendere vuoi in senso largo, vuoi in senso ristretto: e nel primo, sustanzia sempiterna (cioè immortale) potrebbe comprendere anime, angeli e cieli, nel secondo potrebbe, per antonomasia, a seconda che il senso lo richieda, applicarsi ad una sola di queste tre categorie; come per beate anime soltanto s'in tendono le novelle sussistenze del XIV, 73 di Paradiso, per angeli o per cieli (i comentatori non s' accordano) le nove sussistenze del precedente XIII, 59.

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Un'altra difficoltà a intendere Dionisio, ma che si presenta piuttosto quale argomento favorevole al suo preferito Aristotele, muove il Venturi; ed è, che “citando prima un autore gentile, e seguitando poi coll'autorità sacra, Dante viene insistendo nella proposta partizione: Per filosofici argomenti E per autorità che quinci scende Ma oltre che ciò non dà nessun motivo prevalente per collocare Colui che mi dimostra, etc. piuttosto con gli autori gentili che con le autorità sacre, io mostrai non potersi dire filosofico argomento l'allegazione di un passo di Aristotele: passo che, tra parentesi, i comentatori non sanno poi nemmeno precisare quale sia; che dimostri, intendiamo, Dio essere sommo bene; che è appunto il quod demonstrandum.

A ciò, non è a negarsi, riesce meglio Platone, scovato dal Lombardi, in quel suo passo del Convito... perspicuum esse aio, Amorem, Deorum omnium antiquissimum augustissimumque esse ; con che, volendo adattare Platone alla teologia, Dante verrebbe a dire, Amore essere la prima di tutte le divine prerogative; e poiché Dio sostanzialmente ama, cosí sostanzialmente deve essere amato (il concetto, in fondo, dei noti Amor che a nullo amato amar perdona, Inf., V, 103, e Amore Acceso di virtú sempre altri accese, Purg., XXII, 11). Ma per ingegnosa che fosse, non cesserebbe anche questa versione di essere meno congrua col ragionamento, il quale, come vedemmo, non richiede che Dio deva essere amato, ma che Dio sia sommo bene. Che Dio deva essere amato, ci arriva Dante, ma da sé, per mezzo dei filosofici argomenti.

Rimane contro Dionisio la obiezione del Lombardi: che malamente darebbesi agli scritti di lui luogo anteriore all'Esodo o al Vangelo. Ma anche qui io domando. O se Dante voleva proprio citare Dionisio, dove lo dovea mettere? Se si va in linea d'importanza, e si procede dal meno al piú, egli si troverebbe precisamente al suo posto. E al suo posto si troverebbe anche guardando al contenuto degli autori citati: prima Dio, sommo bene degli angeli; poi Dio, sommo bene per gli uomini della vecchia legge; da ultimo Dio, sommo bene per gli uomini della nuova.

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Non so se in questa esumazione di una interpretazione dimenticata avrò meco la maggioranza dei lettori: né lo presumo, mio scopo non essendo che di provocare sull'argomento una indagine piú profonda. Al Filomusi in ogni modo rimarrà sempre il merito di avervi aperta la strada, sgombrandola dalle interpretazioni che fin qui tenevano il campo: e si sa che in letteratura come in milizia, le avanguardie, se anche non colgono la palma, la preparano e ne dividono la gloria.

FERDINANDO RONCHETTI.

Francesco d'Ovidio, Della topografia morale dell'“Inferno, dantesco: a proposito di una recente pubblicazione. (Nella Nuova Antologia, fasc. del 15 di settembre 1894, pagg. 193-210).

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Il D'Ovidio scrive: "Fino alla città di Dite se si prescinde dagl' ignavi dell'Antinferno, che non entran nel conto, e dagli abitatori del Limbo, che non son veri dannati non si trovano puniti se non peccati mortali, e soli cinque di essi lussuria, gola, avarizia, ira, accidia.... Dei due peccati che rimarrebbero da smaltire, la superbia e l'invidia, non si fa parola.... Ma come nel Purgatorio c'è, e suppergiú con la stessa gradazione che nell' Inferno, la lussuria, la gola e via via, cosí anche nell' Inferno ci devono essere l'invidia e la superbia, le quali anzi

sɔno.... le capitalissime tra le colpe capitali ..... i peggiori e i capostipiti dei sette peccati mortali,, essi adunque devono "tener la parte peggiore, dell' Inferno, la città di Dite. Osservo, in primo luogo, che l'A. sembra confondere i vizii capitali che sono sette, con i peccati mortali, che sono in numero molto maggiore; in secondo luogo, che accanto alla superbia, “initium omnis peccati,,, secondo l'Ecclesiastico," o "regina omnium vitiorum,,, secondo s. Gregorio, va collocata, come seconda colpa capitalissima tra le capitali, o, se si vuole, come secondo capostipite, non l'invidia, ma l'avarizia, "radix omnium vitiorum,, come scrive s. Paolo. 3 Inoltre l'invidia è "tristitia de alienis bonis,,, e la tristitia è passione ; dunque arbitrariamente avrebbe Dante esclusa l'invidia dalla compagnia degli altri peccati d'incontinenza che son puniti fuori della città roggia.

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"Se fuor di Dite avesse Dante già spesi tutti e sette i peccati capitali, come avrebbe potuto poi continuare con nuove categorie di dannati, senza offendere gl' insegnamenti della Chiesa? Il D'Ovidio chiama "veramente formidabile,, quest'obiezione alla ipotesi di coloro, che ritengono tutt'i peccati capitali esser puniti fuori della città di Dite. Che non tutti i sette vizii capitali sieno puniti fuori della città di Dite, è verissimo: ma l'obiezione formidabile è ben altra: come poteva Dante punir tra i peccati d'incontinenza la superbia, che è peccato di malizia? "In aliis peccatis homo a Deo avertitur vel propter ignorantiam, vel propter infirmitatem, sive propter desiderium cujuscumque alterius boni: sed superbia habet aversionem a Deo ex hoc ipso, quod non vult ejus regulae subjici„." Quanto poi all'obiezione del D'Ovidio (come a quella del Comello, che è qualcosa di simile), si risponde, che, se anche il poeta avesse collocati fuor di Dite tutt' e sette i vizii capitali, avrebbe poi potuto benissimo continuare, destinando ai cerchi inferiori quei peccati che dai sette capitali hanno origine ("vitium capitale dicitur ex quo alia vitia oriantur,,). Non è qui il caso di fare una compiuta analisi di tutti i peccati puniti ne' quattro ultimi cerchi : accennerò solo, che l'eresia "oritur ex superbia vel cupiditate,, ; che lo stupro e la sodomia hanno origine dalla lussuria; 10 e, infine, che sei delle sette figlie, che s. Gregorio assegna all'avarizia (“proditio, fraus, fallacia, periuria, inquietudo, violentia,,) 11 occupano tutto il 9° cerchio e gran parte del 7° e dell'8°.

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Ma su questo concetto, che, oltre i sette capitali, la Chiesa non distingua altri peccati, il D'Ovidio c'insiste con tutta l'arte del suo bello stile, e piú volte ci torna sopra in tutto il suo scritto. "Attenendosi fino in fondo alla sintetica classificazione criminale della Chiesa, che nella sua asciutta semplicità non si prestava a rinfrangersi in molte sfumature ed era acconcia a peccati appunto semplici, come la gola, l'ira e simili, egli si sarebbe sbrigato troppo presto, e preclusa la via ad empire tutte le carte or ite alla sua prima cantica „. E che cosa sono i tanti peccati, la cui trattazione è sí gran parte di voluminose Somme teologiche, se non appunto sfumature, per dirla col D'Ovidio, de' sette vizi capitali? Altro che asciutta semplicità; ed altro che sbrigarsi troppo presto: ci voleva Dante, per compendiare tanti peccati, quanti i teologi ne distinsero, in una sintesi cosí meravigliosa, come quella contenuta nella prima cantica della Commedia.

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"Sicché, in fin de' conti,, ripete il D'Ovidio, a una sola possibilità siam ridotti che in

1 La stessa ipotesi han pure sostenuta il Comello (Nota al c. VIII dell'Inf.,, dant., in Biblioteca delle sc. it. del 1° giugno 1893) e lo Scartazzini nell' ediz. min. del suo Commento (Milano, Hoepli, 1893).

X, 15 Cf. S. Tomm., Summa, I, II, Q. LXXXIV, art. 2o.

3 I, ad Timoth. Cf. S. Tomm., ivi, art. 1o.

4 S. Tomm. ivi, Q. XXXVI, art. 1o.

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5 "passiones terminantur ad delectationes et tristitias, ut patet per philos. in 2 Ethic S. Tomm. Summa, II, II, 9. CXVIII, art. 6o.

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" Ivi, II, II, 9. XI, art. 1o.

10 Ivi, Q. CLIV, art. 6o e 12o.

11 S. Tomm., Su uma, II, II, 9. CXVIII, art. 8o, ove s. Tomm. dimostra che alla classificazione di s. Gregorio si riducono anche quelle d' Isidoro e d'Aristotile.

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