IL TIMEO,, NELL' OPERA DI DANTE Augusto Conti nel suo ottimo lavoro La filosofia di Dante ((Dante e il suo secolo, 271) afferma recisamente che il grande poeta lesse e studiò le opere di Platone: "Conosceva del secondo (Platone) la traduzione del Timeo, e ciò che Aristotele o qualche padre della Chiesa ne riferisce „. Il Paganini, nel suo studio sulla teologia di Dante, (Dante e il suo secolo, 126) dice: "Le condizioni di quei tempi non consentirono al poeta di conoscere la platonica filosofia quasi in altro modo che per le opere di scrittori antichi, che, o, come Boezio, avevano attinto qualcosa a quel fonte, o ne riferivano brevemente alcune dottrine coll'intento di confutarle, come Aristotele e san Tommaso. „ Queste due affermazioni, me lo permettano gli illustri autori, non suffragate da alcuna prova diretta ed intrinseca, mi spinsero ad esaminare e studiare la questione, e dovetti convincermi che il Paganini aveva intuita la verità. I passi di Dante, nei quali si sentono riminiscenze platoniche, si possono dividere in tre gruppi: I, riminiscenze platoniche senza citazione. II, riminiscenze platoniche con citazione del solo nome del filosofo. III, riminiscenze platoniche con citazioni del filosofo e del Timco. Facciamoci ad esaminare le prime; ed innanzi tutto osserviamo che in questo nostro studio dovremo far capo al Convito, come all'opera piú scientitifica di Dante, e nella forma e nel contenuto, e nella quale le teorie platoniche dovrebbero essere piú sistematicamente esposte e con maggior precisione discusse. C, t. I, c. I. Dante afferma che la scienza è l'ultima perfezione della nostra anima, e che in essa sta la nostra ultima felicità. In Platone occorre parecchie volte questo concetto, e trascurando il cap. 45 del Timeo, in cui. il grande filosofo afferma che la filosofia è il più nobile regalo che il genere umano abbia mai ricevuto dagli Dei; al cap. 67 abbiamo questa dichiarazione, che perfettamente concorda colla dantesca: "Dobbiamo ricercare in ogni cosa la causa divina, per godere di una vita felice per quanto lo permette la nostra natura Ma anche in Aristotele noi troviamo una simile afferma zione. Difatti nell'Etica, lib. II. c. VII, egli ci dimostra come la scienza sia l'ottima di tutte le cose che noi possediamo. C., t. II, c. IV. Dante distribuisce i dieci cieli negli otto dei piane ti, il primo mobile e l'empireo. Il primo mobile ha velocissimo movimento per lo ferventissimo appetito che ha ciascuna sua parte per essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo cielo quieto: il che pure vediamo nell'ordinamento dei cieli a cap. 39 del Timeo. Ma qui Dante, oltre a non citare Platone, dichiara che questa sua distribuzione assomiglia a quella d'Aristotele. Il cap. VI del t. II del Conv. ci mostra le gerarchie degli angioli, nove, e citato il salmo: "I cieli narrano la gloria di Dio l'opera delle sue mani, annunzia lo firmamento,, conclude, che è ragionevole credere che i movitori del cielo della luna siano dell'ordine degli angioli, e quelli di Mercurio siano degli arcangeli, e quelli di Venere li troni, ecc.;, il che concorda con quanto disse Platone al capo 41 del Timeo, in cui ci mostra come gli astri ánλavý e navý altro non sono che gli Dei. Dante poi, come naturale conseguenza di quest'ordinamento dei cieli, ci dice al C., t. II, cap. IV, che dal cielo di Venere "scende un ardore virtuoso per il quale le anime di quaggiú si accendono ad amare secondo le loro disposizioni,, (Vedi Purg., XVI, 73-75; Par. XIII, 64-67) e Platone al e Platone al cap. 42" ogni anima è posta in quello degli organi del tempo (cielo) che più conviene alla sua natura, ei‡ τà пробй×оvτα εἰς προβήκοντα ἑκάστοις ἔκαῦτα ἔργανα Χρόνων, mostrandoci cosi quanta corrispondenza sia tra i cieli e le qualità dell'anima umana. Or bene, tutto ciò, come ci dice Dante stesso nel C., t. II, c. III, si trova anche nel лɛрi oùрávoυ di Aristotele, e noi possiamo leggere un'identica teoria nel De Mundo c. II, c. 1, nel Problemata I, 3 e nel fram. aristotelico 35, b. Tutto ciò è pure spiegato da s. Tommaso, Sum. theol. p. I. qu. c. XV, art. 4, Ibid. p. II. 2a qu. X, c. V, art. 5° dove dice "Corpora coelestia non possunt esse per se causa operationum liberi arbitrii, possunt tamen ad hoc dispositive inclinare in quantum imprimunt in corpus humanum et per consequens in vires sensitivas quae sunt actus corporatium organorum quae inclinant ad humanos actus e del Cont. Gent. I, III, c. 85. Platone al cap. 87 del Timeo afferma la corrispondenza tra il bello ed il buono πᾶνδε τὸ ἀγαθὸν καλὸν τὸ δὲ καλὸν οὐκ ἄμετρον, ossia ciò che è buono e bello, e nulla è bello senza armonia; e Dante C., t. IV, c. 25: "l'anima opera bene (se) il corpo è bene per le sue parti ordinato e disposto, e allora egli è bello per tutto e per le parti,. Qui davvero è impressionante il concordare non solo nella sostanza, ma anche nella forma, nell'espressione di queste due affermazioni, ma non è meno simile la formola colla quale Aristotele esprime l'identico concetto al cap. II del libro III del πɛρí ʊxs. Nel Convito, t. IV, c. XXVIII leggiamo che “la nobile anima, nell'ultima età, cioè nel senio, fa due cose, l'una, che ella ritorna a Dio, siccome a quella parte onde ella si partío quando venne ad entrare nel mare di questa vita; l'altra si è, ch'ella benedice il cammino, che ha fatto, perché è stato diritto e buono senza amaritudine di tempesta,, e, citando Cicerone, De senect. “la naturale morte è quasi porto a noi di lunga navigazione e riposo, ed in essa cotal morte non è dolore, né acerbità alcuna, onde è senza tristizia la morte nella vecchiezza,. Tutto ciò è detto pure da Platone, t. 42: "Colui che passerà onestamente il tempo che gli è dato a vivere, ritornerà dopo la sua morte all'astro che gli tocco e sarà beato βίον εὐδαίμον καί συνήθη ἕξοι; ripetuto a c. 80. "Perciocché tutto quello che si fa contro natura è molesto, e ciò che si fa secondo natura è giocondo. La morte ancora similmente, la quale le infermità e le ferite apportano, è violenta e molesta. E quella, che con la vecchiezza naturalmente viene, e a poco a poco conduce al fine, fra tutte le maniere di morte è leggerissima, ed è piuttosto di piacere che di dolore སྐ* Ma anche Aristotele nel περὶ Ζωων γενέσεως, ΙΙ, 3, dimostra come la morte nella vecchiaia sia priva di dolore e come sia solo dolorosa quella che ci è portata da violenza o da malattia. Nel cap. IV, 22, ci dice: " Cosí appare la nostra beatitudine, questa felicità di cui si parla, prima trovare potemo imperfetta nella vita attiva, cioè nelle operazioni delle mortali virtú, eppoi quasi perfetta nelle operazioni delle intellettuali, le quali due operazioni sono vie spedite e direttissime a menare alla somma beatitudine,. E Platone nel Timeo, 90: "Colui che tutto arderà di desiderio di apprendere la verità e che spenderà principalmente in questo solo tutta l'opera sua, egli è affatto necessario, se tocchi la verità, che le morali e le infinite cose comprenda, ed in quanto la mortale natura può l'immortalità conseguire, intanto costui affatto diventare immortale. Ed appresso avendo sempre la divinità in riverenza, in sé avendo eziandio il famigliare demone molto bene ornato, lui principalmente deve essere beato „. I due passi concordano in tutto e per tutto, per quanto il pensiero pagano può armonizzare col cristiano; ma ciò non ci obbliga a credere, che Dante abbia tutto ciò attinto direttamente da Platone, giacché le identiche cose afferma Aristotele nell' Etica, c. 7, cap. XIV. C. III, 7: "La divina bontà si move da semplicissimo principio, e diversamente si riceve secondo piú o meno delle cose riceventi, (Vedi Par., I, 1-3), il che ci richiama il capo 41 del Timeo dove fa la graduazione degli iddii, degli uomini, degli animali, e ancora l'VIII, 7 dell' Etica di Aristotele ed il Met., XI, VI, dove è esposta la stessa teoria. C., t. III, c. 3: "Per la quinta ed ultima natura, cioè per la vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale ha l'uomo amore alla verità ed alla virtú e qui concorda con quanto disse Platone al cap. 90; ma Dante stesso cita Aristotele a sostegno di quanto afferma. ossia l'uomo agisce sempre per amore tanto nella virtú che nel peccato, ossia amore è origine della virtú e dei peccati. Questo concetto è tutto pla tonico; qui piú che altrove si sente l'alta ed armonica corrispondenza di questi due grandi. Infatti Platone nel Convito, VI, dice períoτwv äɣadový μiv xitios dotiv e nel Leges, V, 731, afferma che è pure la causa di tutti i peccati quando è eccessivo. A questo concetto si accenna pure al cap. 42 del Timeo e nel Convito, 25 e nel De republica, X, 572. Ma sull'influsso d'amore nel dirigere gli atti umani, Dante lesse certamente la Teologia mistica di san Bonaventura al cap. II., De triplici anagogia, particula 2a, ed al cap. III, particula 1a, dove si mostra come amore sia il motore di ogni cosa, come pure nello Stimulus divini amoris, al cap. 18. Di ciò tratta, e quasi negli stessi termini di Dante si esprime san Tommaso, Sum. Theol. p. I, 2a qu. XXVIII art. 6, in cui si dice: "Omne agens quodcumque sit, agit quamcumque actionem ex aliquo amore, Ibidem, p. I. qu. XX, art. I. "Primus motus voluntatis et cujus libet appetivae virtutis est amor Ed ibid. qu. LX: "In ommis autem motus ad aliquid vel quies in aliquo ex aliqua connaturalitate vel captatione procedit quae pertinet ad rationem amoris,, poi ib., p. I, 2a qu. XXVII: “Omnis actio quae procedit e quacumque passione procedit etiam ex amore sicut ex prima causa, cosí al qu. XXVIII art. 6. ed al qu. XLI, art. 2, ed al LXX, art. 3. Pietro di Dante poi ci dice che ad hoc ait Augustinus sicut virtus est amor ordinatus sic vitium amor non ordinatus, (cfr. Ozanam, Dante et la phil. cat., 93) e sant'Agostino ancora afferma: "Boni aut mali mores sunt boni aut mali amores, (Oz. l. c., p 126). Dagli scolastici e dai padri della Chiesa ricavò dunque Dante la famosa teoria platonica dell'amore. Paradiso, X, 29 e XXVIII, 37. Dante ci dice che dal cielo l'uomo acquista la forza di fare il bene, e quindi di fuggire il male, e Platone nel Timeo pure ci dice che tutti coloro i quali vogliono fare alcun che di grande e di buono devono ricorrere al cielo. Ma ciò noi troviamo in Boezio, De cons. Philosoph. III, 9, 30. Paradiso, XXIX, 5: Dante ci mostra come la bontà divina sia sterminata, tanto che Dio creò il mondo, per avere intorno a sé qualche cosa che nella perfezione gli assomigliasse. Ciò abbiamo nel Timco 42, ed in sant'Agostino, De civ. Dei, lib. VIII, cap. 8 e 10. Il concetto tanto comune in Dante, che devono governare solamente coloro che san farlo con sapienza e con forza, (vedi in genere i passi del Purg. e Par. su Firenze) è tutto platonico, come si può subito riconoscere dalla lettura del De republica, ma è pure esposto da Severino Boezio, De cons. Phil., I, 3 e 4. Platone nell' Epinomis dice che è necessaria all'uomo per sopire gli insoddisfatti vóti, e trovar merito delle buone opere, l'immortalità (Ozanam, Dante et la phil. cat., 217) il che occorre pure in Dante, Convito, IV, 22; ma tale concetto è pure nella parte I, lib. IV del De cons. Phil. di Boezio. Ognuno ben conosce l'amor platonico come esso sia, un sentimento tutto casto ed intimo, il vero amore del sapiente; a questo amore accenna Dante, (Purg., XVIII, 13), e ciò noi vediamo però trattato anche nel De cons. Phil., II m-VIII (vedi anche sant'Agostino, De civ. Dei, XV, 22). Dante, Convito, III, 2, ci dice in che differisca la vera scienza dalla semplice opinione, (vedi Purg., XXVII, 19-21; Parad., II, 15) in modo conforme a quanto su questo argomento dice Platone nel De republica, 5. Ma le identiche cose sono dette anche da Boezio nell' Interpretatio posteriorum analyticorum Aristotelis, c. XXVI. Dante, nel Paradiso, XV, 25, ci mostra come Dio sia immutabile e non soggetto mai a pentimenti, il che è pure sostenuto da Platone nel De rep., 1. II, e quelle stesse idee a questo proposito vediamo esposte in Boezio, De Trinitate liber, c. V. Dante, Purgat., XXIX, 44 e nel De monarchia, III, ci dice che vi sono quattro specie di virtú: la fortezza, la giustizia, la temperanza, la prudenza. Questa classificazione è platonica e noi infatti la troviamo nel De leg., I, di Platone; ma non fu trascurata dai padri della Chiesa e facilmente da questi l'apprese Dante. Infatti sant'Agostino, nel De civitate Dei, lib. IV, cap. XX trattando De virtute et fide, dice "virtutem in quatuor species distribuendam esse, viderunt; prudentiam, justitiam, fortitudinem, temperantiam. „ Nel breve tempo che ho dato a questo mio lavoro, solo questi pochi brani mi occorse raccogliere; ma ad ogni modo credo di non aver troppo ardito, affermando che tutti i passi danteschi, nei quali, senza che si citi Platone ed alcuna sua opera, pure si sente l'influenza platonica, non derivarono dalla lettura diretta di Platone, o che, per lo meno, tutti si possono trovare in Aristotele, o in qualche padre della Chiesa e che quindi molti facilmente Dante li ricavò da essi. E si noti che neanche Aristotele cita, nei passi da me scelti, Platone, e che appunto dove Aristotele concorda con questo, Dante lo cita, mentre, come vedremo in seguito, il più delle volte, quando lo cita, abbiamo discrepanza tra i due filosofi. Ciò è naturale: quando Aristotele accetta i principî di Platone, non troviamo per lo piú citazione alcuna, mentre quando vuol dimostrare erronea una teoria del maestro, la citazione è indispensabile. Ed ora passiamo al secondo gruppo: reminiscenze platoniche con citazione del solo nome del filosofo. Nel Convito, t. III, c. IX, troviamo un rimprovero a Platone perché afferma "che il nostro vedere non era perché il visibile venisse all'occhio ma perché la virtú visiva andava al visibile,. Platone al cap. 67 dice, che fra le parti che sortono dagli altri corpi e vengono a colpire la nostra vista, le une sono più piccole, le altre più grandi, etc. È adunque evidente che in Dante si ha un difetto d'interpretazione; ora la stessa inesattezza troviamo anche in Aristotele De sensu et sens., c. II. Evidentemente l'interpretazione dantesca è derivata dall' aristotelica o meglio Dante non fa altro che riportare il brano d'Aristotele. C., t., II, c. IV, Dante ci dice che Platone afferma «che i cieli per virtú dei motori inducono perfezione alle disposte cose». Questo concetto capita spesso nelle opere di Aristotele, cosí nel De an. generat., 4, 9; nel De plantis, II, 4, ma quasi nell'identica forma l'abbiamo nel De an. gen., II, 3, in cui si mostra come lo spirito ed il colore del seme dipendano dai cieli. Qui veramente Aristotele non cita Platone, ma, siccome questi fu con Ari |