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sí famigliare ed intima, risale fino alle corti d'amore: nacque spontaneamente, per un mio primo sonetto a quell' accolta di anime gentili: e si conservò sempre pura per oltre a quindici anni, cioè da quel dí avventurato fino agl' infausti comizî, che mi condussero al priorato della repubblica fiorentina. Ma, se la poesia ci aveva uniti, la politica ci divise e per sempre; né so, se mi sarà dato di più rivederlo su la Tuo figlio non fu, come me, barbaramente tradito dalla curia di Roma: ei non fu, come me, condannato innocentemente, prima a pagare una multa cospicua, e poscia ad essere bruciato vivo, se fossi caduto o capitassi in potere del Comune. Qual maraviglia, quindi, se l'animo mio si è alienato dalla teocrazia romana ? Il tuo Guido l'è rimasto fedele, e, quindi, è guelfo; io le ho voltate le spalle, e sono perciò divenuto ghibellino; sebbene in fondo io non sia né l'uno né l'altro, ma italiano; e faccia parte per me stesso. È però innegabile: per quanto io sia sempre ossequente alla Chiesa, detesto ed abborro il papismo: e, pur troppo, or sono uno de' più caldi fautori dell'im pero, come quello che fu, ab initio, preordinato da Dio per dare pace ed unità al mondo. Il mio duca e maestro è, perciò, Virgilio, il cantore di Enea, padre augusto di tutta la schiatta latina: quel Virgilio, cui forse il tuo Giudo "ebbe a disdegno E Dante attenua con un forse l'avversione, che i guelfi, in generale, avevano per quel poeta

latino.

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Come dunque è chiaro, Dante sentiva profonda commiserazione per un povero padre, che piangeva amaramente; e quindi non voleva maggiormente inacerbire il dolore d'uno spirito, già, per sé, tanto infelice. Quel silenzio è, dunque, un sentimento di gentilezza o di umanità. È meglio (in altri termini par che dica l'Alighieri), è meglio che quel povero padre non sappia nulla, e resti al buio di tutto. E questo episodio, che tanto intenerisce, fa mirabile contrasto alla fierezza di Farinata; onde la lotta delle passioni, e quindi l'erompere del sublime in arte.

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Ma, se Dante sen

Se non che, mi si potrebbe qui domandare: tiva tanta pietà pel padre d'un suo diletto amico, almeno d'una volta, perché trattarlo in siffatta guisa? Non avrebbe potuto concedergli miglior luogo, o pena piú tenue? Ed io rispondo: No, perché Dante è logico sempre nelle sue poetiche creazioni; né v' ha pericolo che si smentisca mai. Qual era, di fatto, il suo principio sovrano? Omai è risaputissimo: l'Uno eterno. El padre di Guido neppure ei

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l'ammetteva, anzi (come abbiamo da Benvenuto) agli amici andava spesso ripetendo quel versetto dell' Ecclesiaste: Unus interitus est hominis et iumentorum, et aqua utriusque conditio (III, 19); come se nello stesso Ecclesiaste non si leggessero queste altre due sentenze: Dies mortis die nativitatis (VII, 2): Memento Creatoris tui.... antequam rumpatur funiculus argenteus.... et revertatur pulvis in terram suam, unde erat, et spiritus redeat ad Deum, qui sedit illum. (XII, 1, 6, 7). Ma l'arte de' retori o de' sofisti è, per lo appunto, questa dire una cosa e nasconder l'altra, per farsi credere. Non cosí Dante Alighieri: ed egli, che in giusta lance libra meriti e demeriti, colloca Cavalcante Cavalcanti nel luogo che gli era dovuto: cioè, tra gli eresiarchi ed atei. L'uomo può dolorarne la orribile sventura, il poeta si può commuovere a quella vista pietosa; ma il filosofo, il moralista, il giudice, bisogna che faccia il suo dovere, alla stregua sempre di quella nozione suprema: Cuncta mensurantur Uno.

È

tempo, omai, di tornare a Farinata.

Ma quell'altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,

né mosse collo, né piegò sua costa.

(Inf., X, 73-75).

Ei, dunque, non si era neppure accorto del diverbio, ch'era avvenuto tra Dante e 'l padre di Guido. Le parole, che come punte di pugnali gli erano rimaste confitte nel cuore, erano quell'una e l'altra fiata. Sicché, ripigliando il discorso dice:

E se, continuando al primo detto,

egli han quell'arte, disse, male appresa,
ciò mi tormenta piú che questo letto."

(Ivi, 76-78).

L'episodio continua; ma io qui mi arresto, perché il mio scopo è omai raggiunto. L'inferno, di fatto, non è piú fuori, ma nell'anima del dannato: concetto epico, incomparabilmente grande, e di cui, perciò, restò tanto ammirato il Milton, che, soffiandovi dentro, poi ne trasse l'anima del suo Lucifero, allorché con tanta verità lo fa prorompere in tali accenti: "Io sono, Io son l'inferno „ Paradiso perduto, IV, 985). Chi non sente qui l'alito di Satana, cui, piú e piú sempre, ci avviciniamo?

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V.

PIER DELLE VIGNE.

La sesta figura che grandeggia, ora è Pier delle Vigne, il celebre segretario di Federico II lo Svevo, al par di lui poeta gentile, e canonista insigne contro le pretese di Roma papale: è uno de' canti piú giustamente celebrati, e che perciò fa degno riscontro a' precedenti. Sul quale argomento, io qui, memore del De Sanctis, stimo riprodurne il saggio quasi per intero, sí per onorare la memoria di chi ci precesse nell'arduo aringo del bello, sí per non defraudare la scuola d' un vero capolavoro d'arte e di critica. Ed esso, tolta la modesta introduzione e le vuote generalità, è il seguente:

Innanzi al poeta non vi sono idee, ma corpi; non vi è il suicidio, ma il suicida. E che cosa è l'Inferno di Dante? E la riproduzione del peccato; la natura non tutta intera qual è, ma la natura colpevole nell'atto della colpa. E l'inferno del suicidio è il suicida còlto nel punto ch'egli inferocisce in sé, che separa violentemente quello che natura ha congiunto. Questa separazione contro natura, che in vita è opera di un solo istante di cieca passione, Dante te la rende eterna; questa ferita che il suicida si fa, Dante te la rende eterna. L'anima, separatasi violentemente dal corpo, non lo riavrà piú mai:

Ché non è giusto aver ciò che uom si toglie,

(Inf., XIII, 105).

e riman chiusa in corpo estraneo, di natura inferiore, in una pianta; e la pianta sentirà ad ogni ora la trafittura che il suicida si fece in vita:

Le Arpie, pascendo poi delle sue foglie,
fanno dolore, ed al dolor finestra.

(Ivi, 101-102).

La separazione è eterna, la ferita è eterna; l'inferno de' suicidi è il suicidio ripetuto eternamente in ogni istante.

Questo non è il concetto, ma la concezione, il contenuto corporale e visibile a' sensi, proprio della poesia e proprio di Dante. Ora, prima di concepire, voi siete libero; ma, quando una concezione qualsiasi vi fluttua dinanzi, voi non potete dalla concezione di un uomo cavarmi un animale, salvo che mi facciate un aborto per manco di calore e di forza. Se avete ingegno, se vi sentite uomo da fecondarla e portarla ad una vita perfetta, voi dovete accettare la situazione ch'ella v'impone.

E qual è la situazione, in che ella vi mette? cioè a dire, quali sono le leggi estetiche, le condizioni secondo le quali ella si dee disnodare, e procedere ad una vita ulteriore? Vi è innanzi una pianta, che, avendo in sé incarcerata un' anima d'uomo, geme e sanguina e parla: or tutto ciò che si allontana dalle forme naturali, è detto in estetica un fantastico, come un ca

vallo alato, un centauro, una pianta che parla: il fantastico è dunque la prima legge estetica di questa concezione. E qual è il sentimento che ne rampolla? Il suicida non è un eroe secondo il concetto pagano, ma neppure uno scellerato: è un uomo debole e talora anche giusto, che si uccide per impazienza del dolore, per disdegnoso gusto; e perciò non disgusto, né orrore, ma desta pietà, profonda pietà! La situazione adunque per rispetto alla immaginazione è fantastica, per rispetto al sentimento è patetica.

La situazione determina la rappresentazione, la quale non dee proporsi altro che di porre in mostra e dar rilievo a quello che nella concezione è di fantastico e di poetico, di maraviglioso e di affettuoso.

Il fantastico è tale, perché noi lo troviamo difforme da' nostri tipi naturali. Immaginiamo, cosa probabile, che nella luna siano abitanti e che essi sieno piante animate: certo per costoro le piante animate di Dante non sarebbero un fantastico. La selva de' suicidi è per noi fantastica, perché si dimostra dalle forme terrene: e piú date rilievo a questo contrasto, e più cresce la meraviglia. Qui sta tutta l'arte della rappresentazione.

E

Per far ciò, Dante non ha bisogno di osservazioni, o di esclamazioni, o di apostrofi; non di gittar grandi frasi, i capelli che si drizzano per lo spavento, il sangue che si agghiaccia nelle vene, ecc. Nella stessa situazione egli trova la sua ispirazione. Poiché, chi è lo spettatore? È un uomo, è Dante stesso; e le sue impressioni sono un contrasto vivente tra quello che ricorda in terra e quello che vede nell'inferno. Come pone il pié nella selva, lo spettacolo innaturale che gli si para davanti, gli ricorda la natura e scoppia il contrasto:

Non frondi verdi ma di color fosco;

non rami schietti, ina nodosi e involti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.

(Ivi, 4-6).

Fatti pochi passi, gemiti umani gli giungono all'orecchio, senza veder persone: il contrasto scoppia di nuovo, e non in frasi ed antitesi; il contrasto divien drammatico; e tu lo trovi in ogni pensiero, in ogni azione di Dante. Quando si odono gemiti, per un istinto naturale l'uomo si guarda dattorno, non potendo concepire gemiti senza persone che gemono: Dante ode e guarda nessuno! Il sentimento dell'innaturale lo percuote, e si arresta smarrito:

Io sentía d'ogni parte tragger guai;

e non vedea persona che il facesse ;
ond'io tutto smarrito m'arrestai.

(Ivi, 22-24).

Questa è la prima impressione. Nella seconda impressione l'uomo si sforza di spiegare il fatto e suppone che le persone gementi sieno nascoste: Io credo ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser tra quei tronchi per gente che da noi si nascondesse.

(Ivi, 25-27).

Dante non accetta l'innaturale; la sua natura di uomo vi resiste; e di tanto piú gagliarda sarà l'impressione sulla incredula sua fantasia, quando, ad istanza di Virgilio, coglie un ramoscello da un gran pruno:

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Qui il fantastico prorompe da tutte le parti; non solo voce, ma sangue e voce esce insieme dal tronco; Dante è sopraffatto, ed il maraviglioso giunge insino al suo estremo. Si è osservato che il concetto di questo tronco è tolto da Virgilio. Ma ecco la differenza. In Virgilio il contrasto è implicito, e si rivela in impressioni: Mihi frigidus horror membra quatit. Eloquar, an sileam? E vi vedi quel liscio di stile, tutto virgiliano, che rende elegante anche l'orrore. A Dante basta il semplice collocamento, il disporre in modo la scena, che il naturale, messo avanti, renda irresistibile l'impressione del fantastico. Di che, ecco qui un nuovo e stupendo esempio. Credete voi che porga orecchio alle parole dello spirito? ch'egli senta pietà? ch'egli risponda? Punto del mondo. Lo spettacolo incredibile ch'egli ha innanzi, tiene a sé avvinti i suoi sguardi, e gli ruba le parole: lo spirito parla; e Dante guarda:

Come d'un tizzo verde, che arso sia
dall' un de' capi, che dall'altro geme,
e cigola per vento che va via;
cosí di quella scheggia usciva insieme
parole e sangue: ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.

(Ivi, 40-45).

Ciò che colpisce Dante, non è il significato delle parole, ma che una pianta parli e sanguini; la qual vista fa sopra lui un effetto tanto potente, che tira a sé lo sguardo, e gli chiude l'adito ad ogni altra impressione: tutta la sua anima è raccolta nell'occhio. Esempio perfettissimo di rappresentazione diretta; poiché il poeta, senza cavar nulla di fuori, senza osservazioni, solo narrando, con sole gradazioni tratte dal fondo stesso della situazione, porta il maraviglioso a poco a poco e seco l'impressione che vi corrisponde, insino alla sua ultima punta.

In questo fantastico, quanto vi è di patetico! quanta malinconia in quelle frondi di color fosco! e in quel gemere misterioso, che, come dice il Tasso: Un non so che confuso instilla al core

ecc.

di pietà, di spavento, e di dolore!

Ma perché qui questi particolari patetici sono lasciati nell'ombra, ed il poeta appena appena li accenna? di color fosco, fanno lamenti, tragger guai, Perché lo sguardo qui usurpa il luogo di tutte le altre facoltà; perché la meraviglia impedisce ogni altro sentimento; perché io non sento i primi suoni di un istrumento nuovo e bizzarro che mi faccia attonito. Ma, quando il fantastico è esausto, e l'occhio si ausa alla scena, nuovi sentimenti succedono, ed il patetico vi si può dispiegare. E già un primo saggio ne avete nelle parole dello spirito. Anche Virgilio fa parlare la sua pianta:

Quid miserum... laceras? Jam parce sepulto
parce pias scelerare manus....

nam Polydorus ego,

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