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È Polidoro che parla ad Enea; hanno comune la patria, la famiglia, e tante rimembranze, e tanti dolori; la pietà nasce da accidenti particolari. Ma in Dante è un ignoto che parla ad ignoto; e la pietà scaturisce da una fonte ben più profonda. È una pietà tutta umana: l'homo sum, la natura umana capovolta e declinata a pianta: l'uomo che, in luogo di dire: perché mi ferisci? perché mi trafiggi?... è ridotto a dire: perché mi schiante? perché mi scerpi? È una pietà che ha la sua radice nel fondo stesso della situazione, quale si sia l'uomo che parli. E la pietà si leva fino allo strazio, quando il concetto esce fuori in un vivace contrasto; è il qualis erat! quantum mutatus ab illo!... il fummo e il siamo fatti:

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Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi:

ben dovrebbe esser la tua man piú pia,

se state fossim' anime di serpi.

(Ivi, 37-39).

Interrompo qui la lettura del saggio critico per domandarmi: Ma, se la selva de' suicidi è, pur essa, una poetica creazione di Dante, quale n'è la idea genetica o la prima ispirazione? Ei stesso ci dice: Ogni erba si conosce per lo seme, (Purg., XVI, 114). Quale è, dunque, la radice di questa portentosa fantasia dantesca? Il De Sanctis, tutto inteso alla profonda intuizione ch' ei ne coglieva, non se ne dié pensiero. Ma io, che mi son proposto di scrutare la spontanea generazione delle forme nella mente stessa di lui, che le concepí ed espresse, ricorro subito alle fonti, che sono le sue opere minori e che trovo?

Trovo che Dante avea fatto sua la seguente dottrina di Aristotele: l'uomo va contemplato sotto un triplice aspetto: cioè di vegetale, con che partecipa delle piante; di animale, con che s'accosta a' bruti; e di razionale elettivo, con che si avvicina alle celesti creature: secondo che in lui predomina l'appetito, il senso, o la ragione, che solo costituisce l'eccellenza umana. Perciò Dante dice che nell' uomo sono tre anime, e in corrispondenza esso per tre sentieri cammina, a guisa che più lo consigliano l'utile che ha scavato l'inferno, o il diletto che ha innalzato il purgatorio, o l'onesto che solo al paradiso ci mena. Talché tutto quel che facciamo (ei ne deduce), pare che si faccia per queste tre cose: Per hæc tria quicquid agimus, agere videmur. (De vulg. eloq., II, 2). E siccome per Dante (giusta un altro principio fondamentale, da lui stabilito) le creature e cose tutte vanno diffinite dall'ultima qualità, e questa è sempre la più nobile, come quella che costituisce l'essenza di una data specie: ultimum costitutivum speciei (De Mon., I, 4); cosí vivere nelle piante è vegetare, negli animali

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è sentire, nell'uomo è ragione usare, con che spiega la sua potenza intellettiva, e si rivela, qual è, un razionale elettivo. Onde quell'inferirne con Boezio (perciò da lui ricordato nel Convito, II, 8) che chiunque, invece di sottostare alla ragione serve all'appetito e ubbidisce al senso, vegeta e non vive, o brutalmente vive. Ed invero: costui, piú non partecipando alla festa dello spirito, al convivio delle intelligenze, alla trasumanazione dell' essere, che solo è vita, è perciò relegato da Dante nella regione delle tenebre, fra le ombre della morte, i cui dolenti abitatori, venuti ciechi del lume della mente, non fruiscono piú della beatifica visione dell'eterno Vero ch'è Dio, immanente nell' anima o nella coscienza umana.

Nel caso presente, le due prime qualità umane, cioè la intelligenza e la volontà, sono soppresse: e che rimane? L'infima natura, la vegetale, ossia l'uomo-pianta. Ed ecco come si spiega che, invece d'una persona, ci troviamo davanti un tronco, che però sanguina e parla: Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi,

nuova e piú terribile deformazione della specie umana.

Or chi vuole,

continui pure a leggere il De Sanctis; dappoichè io n'ho già abbastanza, e passo oltre.

G. DE LEONARDIS.

CHIOSE DANTESCHE

Riflessioni sul verso: Ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

Egregio signor Direttore,

Mi permetta ch'io pure dica la mia opinione sul modo d'interpretare un passo di Dante, intorno al quale i commentatori non si trovano ancora d accordo, come appare eziandio da una nota stampata nel Giornale dantesco, diretto dalla S. V. Ma, innanzi ch'esponga le mie opinioni in proposito, è d'uopo le dichiari che tratterò la questione da semplice dilettante, poiché non ho qui la possibilltà di consultare codici antichi, ed anche se ciò mi fosse dato, mi mancherebbero forse e l'abilità e l'acume di valermene: in una parola in questo breve scritto, sarà mia guida il buon senso e non altro. Il passo è questo:

Cacciârli i ciel per non esser men belli;

né lo profondo inferno li riceve,
ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

La questione versa su quell'alcuna, cui certi commentatori danno il significato di qualche o qualcuna, ed altri di nessuna o niuna. Il Monti spiega: "Li cacciò il cielo per non perdere fiore di sua bellezza, ritenendo nel suo seno quei vili, (gli angeli inoperosi, che nella gran giornata de' celesti combattimenti non furon ribelli, Né fur fedeli a Dio, ma per sé fôro). “Non li riceve e li scaccia pure l'inferno, perché NIUNA gloria ne verrebbe ai dannati dall' averli in loro compagnia,.

Questo senso da dare ad alcuna il Monti sostiene con una tale ingegnosa argomentazione, che a bella prima fa rimanere in dubbio s'egli davvero non abbia ragione. Infatti l'eloquente cantor di Basville, descritto prima il supplizio materiale, a cui Dante condanna i vili, passa all'altro supplizio morale delle ignominiose sentenze di cui li grava, onde farli compiutamente disonorati: ed esamina le frasi sciaurati che mai non fur vivi, invidiosi d'ogni altra sorte, a Dio spiacenti ed ai nemici sui, misericordia e giustizia li sdegna, non ragioniam di lor, ma guarda e passa, parole tutte quante colle quali il poeta stillò tutta l'amarezza del vilipendio su quei pigri a cuor di gelo, abitanti il vestibolo dell'inferno. Ora, conchiude il Monti, dopo aver per

questa guisa sommersi nell'ignominia i poltroni e spogliatili d'ogni morale considerazione e sottrattili perfino agli sguardi della giustizia di Dio, sarà egli possibile che il fiero poeta, dimentico de' suoi detti, prorompa in una sentenza tutta contraria, e ne dica che la costoro compagnia tornerebbe a gloria dei dannati all'inferno, se vi fossero ricevuti? Qual gloria, domanda, qual onore può venire da gente, a sí alto segno disonorata? E a cui venire? A quei medesimi che li detestano? a quei medesimi che li rifiutano? Per ammettere dunque che alcuna gloria non significhi nessuna, bisognerebbe, secondo il Monti, cancellare il verso A Dio spiacenti ed ai nemici sui e poi l'altro Misericordia e giustizia li sdegna e l'altro ancora Né lo profondo inferno li

riceve.

Ma non basta. Il Monti fa un'altra osservazione. Dante, seguendo il sistema platonico, del suo maestro Virgilio, conserva ai dannati le stesse passioni, gli stessi caratteri che ognun di loro si ebbe mentre fu vivo. E, adducendo parecchie ragioni, dimostra che a questo mondo l'uomo infingardo è dispiacente all'uomo malvagio, egualmente che all'uomo dabbene. Per la qual cosa, mantenute a ciascuno, anche nell' altro mondo, le stesse brame, le stesse affezioni, ne consegue che quei medesimi, che nella prima vita sprezzarono e sfuggirono la compagnia degl' infingardi, la sfuggono pure e disprezzano nella seconda. E cosí Satana, conservando pur laggiú inalterabile il suo orgoglioso carattere, che lo spinse a muover guerra all' Altissimo, non potrà giammai tollerare la compagnia di quei codardi, che nel dí del conflitto non furono né per lui, né per Dio.... E chi potrebbe neppur credere che tanti re, tanti papi, tanti grandi uomini e di spada e di toga e di chierica e di gabinetto, cacciati dallo sdegnoso ghibellino in quelle sue bolge, e tanto fiore d'ingegni, ai quali ei parla laggiú con tante dimostrazioni di riverenza, possano stimarsi onorati e andar gloriosi della consorteria di anime sí vilipese?

Cosí il Monti, da quel grand' uomo che fu, imprese a ragionare su un articolo, inserito nel 1816 nel periodico La Biblioteca italiana, cui diede il titolo di Interpretazione d'un passo di Dante, MAL INTESO DA TUTTI GLI ESPO

SITORI.

Eppure, con tutto il rispetto e la venerazione dovuti a quell'intelletto, che fu veramente grande, è d'uopo dire che tutti gli espositori, che discordarono da lui sul passo in discorso, ben intesero e bene interpretarono e che forse egli solo prese abbaglio sul senso dell' alcuna.

Io della divina Commedia non ho studiato che pochi commenti, fra i quali il Cesari e il Tommasèo; ad ogni modo so che molti intendono alcuna per alcuna, non per niuna; e le ragioni, a mio parere, son queste.

Innanzi tutto, tra il verso Cacciarli i ciel per non esser men belli e gli altri due Né lo profondo inferno li riceve, Ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli, a me pare esista un'antitesi stupenda, come tante altre dantesche. I cieli, dice il poeta, cacciano i vigliacchi, per non esser MEN BELLI; l'inferno profondo non li riceve, perché i rei avrebber di essi ALCUNA gloria.

Giornale dantesco

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Inter

pretando alcuna per nessuna, l'antitesi verrebbe distrutta e con ciò sarebbe guasto il senso della magnifica terzina; non solo, ma si arriverebbe al punto da far dire a Dante poco meno che una bestemmia. Infatti, interpretando che i rei non potrebbero dalla compagnia dei vili ricevere alcuna gloria, dopo di aver detto che i cieli non li ricevono per non esser men belli, si verrebbe ad ammettere che santi e dannati sono degni dello stesso rispetto, degli stessi onori, in una parola sarebbero trattati alla pari. I santi cacciano i vili, perché loro FAREBBERO ONTA; i peccatori pur li cacciano, perché NON NE AVREBBERO GLORIA ALCUNA. In questo caso le due frasi aver onta e non aver gloria pressapoco si equivalgono. E Dante può mai aver avuto un simile concetto?

Ma non basta: esaminiamo il secondo e il terzo verso della terzina, indipendentemente dal primo. I ret dunque non avrebbero dai vili alcuna gloria. Cosí dicendo, si viene implicitamente ad ammettere che i dannati possano e debbano avere qualche gloria. E egli ciò conforme alla dottrina teologica dell' Alighieri? Non è più dunque suo il verso Qui vive la pietà quando è ben morta o più morta? Interpretando quindi alcuna per nessuna, come volle il Monti, vien naturale la domanda: ma qual gloria mai debbono avere i dannati?.... Gloria a Cristo, alla Vergine, ai santi, canta la Chiesa; gloria ai dannati, nessuno oserebbe.

Dante infatti, adoperando alcuna nel senso positivo, intese non essere dalla divina giustizia concesso alla morta gente sollievo di sorta, né morale né materiale; e non vale opporre che ciascuno, anche nell'altro mondo, conservi le stesse brame e le stesse affezioni, onde quei grandi uomini di spada, di toga, di chierica e di gabinetto, cacciati giú nelle bolge, sentirebbero vergogna dei codardi; ch'innanzi tutto, anche i re, i guerrieri, i duci, i cancellieri, i papi, i letterati e simil gente, dannati che siano, è per lo meno dubbio che conservino alcun che di nobile e di dignitoso, come quando furono in vita: ed anche volendo ammettere questo principio, essi grandi uomini dalla compagnia dei vili potrebbero tutt' al piú sentir vergogna, provar disdegno: ma in tal caso, nel profondo inferno i codardi dovrebbero essere accettati a compimento della pena di chi fu al mondo orgoglioso; non mai a motivo di gloria.

Ma per gloria, in questo caso, è da intendersi forse compiacimento e gu sto dell'altrui danno, il quale affetto ben germoglia, anzi approfondisce sue radici nell'animo dei tristi e dei maligni, quali sono i dannati. Onde il Monti fece male a porre innanzi i grandi uomini e di spada e di toga, ecc., poiché dessi son quelli con cui incontrossi il poeta; ma non formano la maggioranza, la gran moltitudine dei dannati, la plebe dei reprobi, di fronte ai quali Ulisse, Diomede, Farinata, Brunetto Latini ed altri pochi, che manifestano sentimenti nobili e generosi, anche essendo ombre possono considerarsi eccezioni alla regola.

I rei dunque dal consorzio dei vigliacchi, nella loro malnata natura, avrebbero certamente motivo di compiacersi. Dico i rei, la feccia dei barattieri,

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