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CHIOSE DANTESCHE

Riflessioni sul verso: Ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

Egregio signor Direttore,

Mi permetta ch'io pure dica la mia opinione sul modo d'interpretare un passo di Dante, intorno al quale i commentatori non si trovano ancora d accordo, come appare eziandio da una nota stampata nel Giornale dantesco, diretto dalla S. V. Ma, innanzi ch'esponga le mie opinioni in proposito, è d'uopo le dichiari che tratterò la questione da semplice dilettante, poiché non ho qui la possibilltà di consultare codici antichi, ed anche se ciò mi fosse dato, mi mancherebbero forse e l'abilità e l'acume di valermene: in una parola in questo breve scritto, sarà mia guida il buon senso e non altro. Il passo è questo:

Cacciârli i ciel per non esser men belli;

né lo profondo inferno li riceve,
ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

La questione versa su quell'alcuna, cui certi commentatori danno il significato di qualche o qualcuna, ed altri di nessuna o niuna. Il Monti spiega: "Li cacciò il cielo per non perdere fiore di sua bellezza, ritenendo nel suo seno quei vili, (gli angeli inoperosi, che nella gran giornata de' celesti combattimenti non furon ribelli, Ne fur fedeli a Dio, ma per sé fôro). “Non li riceve e li scaccia pure l'inferno, perché NIUNA gloria ne verrebbe ai dannati dall' averli in loro compagnia,

Questo senso da dare ad alcuna il Monti sostiene con una tale ingegnosa argomentazione, che a bella prima fa rimanere in dubbio s'egli davvero non abbia ragione. Infatti l'eloquente cantor di Basville, descritto prima il supplizio materiale, a cui Dante condanna i vili, passa all'altro supplizio morale delle ignominiose sentenze di cui li grava, onde farli compiutamente disonorati: ed esamina le frasi sciaurati che mai non fur vivi, invidiosi d'ogni altra sorte, a Dio spiacenti ed ai nemici sui, misericordia e giustizia li sdegna, non ragioniam di lor, ma guarda e passa, parole tutte quante colle quali il poeta stillò tutta l'amarezza del vilipendio su quei pigri a cuor di gelo, abitanti il vestibolo dell'inferno. Ora, conchiude il Monti, dopo aver per

questa guisa sommersi nell'ignominia i poltroni e spogliatili d'ogni morale considerazione e sottrattili perfino agli sguardi della giustizia di Dio, sarà egli possibile che il fiero poeta, dimentico de' suoi detti, prorompa in una sentenza tutta contraria, e ne dica che la costoro compagnia tornerebbe a gloria dei dannati all'inferno, se vi fossero ricevuti? Qual gloria, domanda, qual onore può venire da gente, a si alto segno disonorata? E a cui venire? A quei medesimi che li detestano? a quei medesimi che li rifiutano? Per ammettere dunque che alcuna gloria non significhi nessuna, bisognerebbe, secondo il Monti, cancellare il verso A Dio spiacenti ed ai nemici sui e poi l'altro Misericordia e giustizia li sdegna e l'altro ancora Né lo profondo inferno li

riceve.

Ma non basta. Il Monti fa un'altra osservazione. Dante, seguendo il sistema platonico, del suo maestro Virgilio, conserva ai dannati le stesse passioni, gli stessi caratteri che ognun di loro si ebbe mentre fu vivo. E, adducendo parecchie ragioni, dimostra che a questo mondo l'uomo infingardo è dispiacente all'uomo malvagio, egualmente che all'uomo dabbene. Per la qual cosa, mantenute a ciascuno, anche nell' altro mondo, le stesse brame, le stesse affezioni, ne consegue che quei medesimi, che nella prima vita sprezzarono e sfuggirono la compagnia degl'infingardi, la sfuggono pure e disprezzano nella seconda. E cosí Satana, conservando pur laggiú inalterabile il suo orgoglioso carattere, che lo spinse a muover guerra all' Altissimo, non potrà giammai tollerare la compagnia di quei codardi, che nel dí del conflitto non furono né per lui, né per Dio........ E chi potrebbe neppur credere che tanti re, tanti papi, tanti grandi uomini e di spada e di toga e di chierica e di gabinetto, cacciati dallo sdegnoso ghibellino in quelle sue bolge, e tanto fiore d'ingegni, ai quali ei parla laggiú con tante dimostrazioni di riverenza, possano stimarsi onorati e andar gloriosi della consorteria di anime sí vilipese?

Cosí il Monti, da quel grand'uomo che fu, imprese a ragionare su un articolo, inserito nel 1816 nel periodico La Biblioteca italiana, cui diede il titolo di Interpretazione d'un passo di Dante, MAL INTESO DA TUTTI GLI ESPO

SITORI.

Eppure, con tutto il rispetto e la venerazione dovuti a quell'intelletto, che fu veramente grande, è d'uopo dire che tutti gli espositori, che discordarono da lui sul passo in discorso, ben intesero e bene interpretarono e che forse egli solo prese abbaglio sul senso dell' alcuna.

Io della divina Commedia non ho studiato che pochi commenti, fra i quali il Cesari e il Tommasèo; ad ogni modo so che molti intendono alcuna per alcuna, non per niuna; e le ragioni, a mio parere, son queste.

Innanzi tutto, tra il verso Cacciarli i ciel per non esser men belli e gli altri due Né lo profondo inferno li riceve, Ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli, a me pare esista un'antitesi stupenda, come tante altre dantesche. I cieli, dice il poeta, cacciano i vigliacchi, per non esser MEN BELLI; l'inferno profondo non li riceve, perché i rei avrebber di essi ALCUNa gloria.

Giornale dantesco

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Inter

pretando alcuna per nessuna, l'antitesi verrebbe distrutta e con ciò sarebbe guasto il senso della magnifica terzina; non solo, ma si arriverebbe al punto da far dire a Dante poco meno che una bestemmia. Infatti, interpretando che i rei non potrebbero dalla compagnia dei vili ricevere alcuna gloria, dopo di aver detto che i cieli non li ricevono per non esser men belli, si verrebbe ad ammettere che santi e dannati sono degni dello stesso rispetto, degli stessi onori, in una parola sarebbero trattati alla pari. I santi cacciano i vili, perche loro FAREBBERO ONTA; i peccatori pur li cacciano, perché NON NE AVREBBERO GLORIA ALCUNA. In questo caso le due frasi aver onta e non aver gloria pressapoco si equivalgono. E Dante può mai aver avuto un simile concetto?

Ma non basta: esaminiamo il secondo e il terzo verso della terzina, indipendentemente dal primo. I ret dunque non avrebbero dai vili alcuna gloria. Cosí dicendo, si viene implicitamente ad ammettere che i dannati possano e debbano avere qualche gloria. E egli ciò conforme alla dottrina teologica dell' Alighieri? Non è più dunque suo il verso Qui vive la pietà quando è ben morta o più morta? Interpretando quindi alcuna per nessuna, come volle il Monti, vien naturale la domanda: ma qual gloria mai debbono avere i dannati?.... Gloria a Cristo, alla Vergine, ai santi, canta la Chiesa; gloria ai dannati, nessuno oserebbe.

Dante infatti, adoperando alcuna nel senso positivo, intese non essere dalla divina giustizia concesso alla morta gente sollievo di sorta, né morale né materiale; e non vale opporre che ciascuno, anche nell'altro mondo, conservi le stesse brame e le stesse affezioni, onde quei grandi uomini di spada, di toga, di chierica e di gabinetto, cacciati giú nelle bolge, sentirebbero vergogna dei codardi; ch'innanzi tutto, anche i re, i guerrieri, i duci, i cancellieri, i papi, i letterati e simil gente, dannati che siano, è per lo meno dubbio che conservino alcun che di nobile e di dignitoso, come quando furono in vita: ed anche volendo ammettere questo principio, essi grandi uomini dalla compagnia dei vili potrebbero tutt' al piú sentir vergogna, provar disdegno: ma in tal caso, nel profondo inferno i codardi dovrebbero essere accettati a compimento della pena di chi fu al mondo orgoglioso; non mai a motivo di gloria.

Ma per gloria, in questo caso, è da intendersi forse compiacimento e gu sto dell'altrui danno, il quale affetto ben germoglia, anzi approfondisce sue radici nell'animo dei tristi e dei maligni, quali sono i dannati. Onde il Monti fece male a porre innanzi i grandi uomini e di spada e di toga, ecc., poiché dessi son quelli con cui incontrossi il poeta; ma non formano la maggioranza, la gran moltitudine dei dannati, la plebe dei reprobi, di fronte ai quali Ulisse, Diomede, Farinata, Brunetto Latini ed altri pochi, che manifestano sentimenti nobili e generosi, anche essendo ombre possono considerarsi eccezioni alla regola.

I rei dunque dal consorzio dei vigliacchi, nella loro malnata natura, avrebbero certamente motivo di compiacersi. Dico i rei, la feccia dei barattieri,

E

dei crudeli, dei sodomiti, al paragone dei quali, a voler esser giusti, i vili, per quanto tristi siano, son sempre qualche cosa di buono; "almeno quei tristi, dice il Cesari, si perdettero per non aver fatto nulla che nulla valesse per quanto sian terribili le frasi, con le quali Dante investe gl'infingardi, non varranno mai le altre, di cui fa uso per bollare le anime piú nere, aggravate piú verso il fondo, per colpe maggiori: e ricordiamo che prima ha detto semplicemente: Cacciarli i ciel, per non esser men belli.... Men belli!.... Anche al Monti e a tutti quelli che con lui la pensano questa frase dev'essere parsa eccessivamente mite.

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Il Tommasèo commenta che i rei “si glorierebbero e del vedere in pari pena spiriti men rei, e dell' essere stati men vili., Ma il senso di quest'ultima interpretazione mi par troppo sottile non dico stiracchiato, per rispetto al grand'uomo il quale poi ottimamente aggiunge: "Alcuno qui non vale niuno. Volere che gli angeli tiepidi non fossero messi in inferno per rispettare l'orgoglio degli angeli ribelli, è un fare Dio troppo cerimonioso con Lucifero e i suoi compagni. Se questo fosse, E' poteva non li cacciare all'inferno. Basterebbe quest' argutissima riflessione per risolvere i dubbi, se alcuno ancora ne avesse, sull'interpretazione da darsi al passo dantesco, di cui parliamo.

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Del resto, il dire che gli scrittori del buon secolo hanno fatto uso moltissime volte di alcuno in senso negativo, deducendo questa parola dal provenzale aucun, per me non toglie né aggiunge un ette alla questione. È vero che Dante nel poema e in altre opere usò alcuno per nessuno, esempio chiarissimo il verso

Che alcuna via darebbe a chi su fosse ;

ma ciò non prova menomamente, secondo il mio debole parere, che altre volte non intendesse usare alcuno nel senso positivo, ed esempio per me magnifico è, appunto, il verso

Ché alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

E con questo fo punto.

Sono, con la massima stima, di Lei

Chieti, decembre 1894.

dev.mo e obbl.mo LORENZO BETTINI.

Intorno al verso: Chi per lungo silenzio parea fioco

Dante erra smarrito nella selva aspra del vizio, e lo rispingon dal colle soleggiato della virtù le tre simboliche fiere, quando gli appare una strana inaspettata figura:

Mentre ch'io ruinava in basso loco,
dinanzi agli occhi mi si fu offerto

chi per lungo silenzio parea fioco.

L'ultimo verso della non astrusa terzina merita d'essere chiarito.

Sul più o meno recondito significato suo allegorico arzigogolarono, al solito, i commentatori. Non abbastanza invece, a mio giudizio, si fermarono sull' interpretazione letterale (che dev'essere fondamento d'ogni altra) e sull'impressione tutta fisica e materiale dal poeta espressa.

Vuole una opinione (e il Fraticelli, fra altri moderni, la sostiene) che il fioco di Dante accenni alla "noncuranza in cui era fino ai suoi tempi giaciuta l'opera di Virgilio,. Ma non è probabile, perché nel medio evo Virgilio (e non insisto, trattandosi di cose note) fu tra i pochi scrittori sornuotanti al naufragio ed all'oblio della classicità.

Vuole un'altra opinione (e lo Scartazzini e il Casini, tra i più recenti, l'appoggiano) che la voce della ragione illuminata, rappresentata da Virgilio, sia o sembri al primo svegliarsi del peccatore assai bassa e sommessa, cosí che egli appena ne intende alcuni indistinti accenti: essa diventa poi piú alta e distinta mano mano che l' uomo va risvegliandosi dal peccaminoso suo sonno La quale spiegazione certo parmi piú razionale ed esatta della prima: ma è come questa allegorica, e suppone anch'essa che Dante riconosca in alcun modo Virgilio nell'ignota figura, e già gli attribuisca i suoi caratteri non umani, anzi di fredda personificazione.

..

Vero è che la scena, drammaticamente svolgentesi sotto i nostri occhi, era prestabilita e preordinata nella mente di Dante, ed i personaggi varî a noi si presentano già prima di parlare e di operare con le loro caratteristiche reali insieme e simboliche: ma, ripeto, il verso deve pure anzitutto interpretarsi letteralmente in qualche maniera ed esprimere una certa impressione fisica del poeta. Del resto, come mai può il lettore, a questo punto, sapere od indovinare che si tratta di Virgilio? Come mai può Dante stesso saperlo od indovinarlo? Come, se lo sapesse, direbbe in seguito quello che dice? Egli evidentemente è solo commosso e stupito dalla parvenza corporea di colui che gli si affaccia improvviso. Vediamo dunque di commentare adagino.

Fioco significa comunemente debole di voce, rauco: ma la figura non ha ancora parlato, e quindi l'interpretazione non è sostenibile. Potrebbe forse

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