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e piú innanzi, v. 34:

Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire......

Quando giungono innanzi alla ruina

quivi le strida, il compianto, il lamento,
bestemmian quivi la virtú divina.

In tutti questi modi non ci è chiaramente manifestata la condizione di quelle anime?

In tal modo si potrebbe seguitare per molti e molti canti: vedete i losi che urlano come cani, i prodighi e gli avari che, oltre a gridare la loro pena, si scherniscono amaramente :

Percotevansi incontro, e poscia pur li

si rivolgea ciascun voltando retro,

gridando: "Perché tieni,, e "Perché burli?„ :

piú avanti le genti fangose faranno qualche cosa di piú:

Questi si percotean non pur con mano,

ma con la testa, col petto e coi piedi,
troncandosi coi denti a brano a brano.

Anche i dannati sepolti giú nel pantano si gorgogliano un inno nella strozza; e si sforzano per dirci chi sono, e che fecero, quantunque nol possano fare con parola integra:

Tristi fummo

ne l'aer dolce che dal sol s'allegra portando dentro accidioso fummo; or ci attristiam nella belletta negra.

Persino nella selva dei suicidi, il poeta che non vede nessuna persona (XIII, 22)

sentia d'ogni parte traer guai:

i violenti contro sé stessi, mutati in piante, traggono guai, dalle ferite annunciando la loro presenza colà, la loro colpa, la loro pena eterna.

Quello che io faccio è una rassegna velocissima: tocco qua e colà e tiro via.

Le anime dannate spesso manifestano il loro stato di dannazione deridendo tutto: appunto nella loro superbia sta il loro tormento: questo sforzo di ira, di rabbia, di odio forma la maggiore pena. Capaneo, a pena si accorge che si parla di lui, grida :

1

Qual io fui vivo, tal son morto;

E continua con la impotente sfida a Dio:

Se Giove stanchi il suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore acuta, ecc.

' SCARTAZZINI, Inferno, p. 134, e CIPOLLA, art. cit., passim.

Vergilio lo fa tacere con un feroce sarcasmo.

O Capanéo in ciò che non s'ammorza

la tua superbia, se' tu píú punito.

Nullo martirio fuor che la tua rabbia
sarebbe al tuo furor dolor compito.

Si potrebbero in tal modo prendere in esame i violenti contro natura, gli adulatori, i simoniaci, gli indovini, che non parlano, ma camminano lagrimando in modo che lo scoperto fondo appare al poeta bagnato di angoscioso pianto. Sarebbe superfluo osservare che i peccatori testimoniano la loro dannazione oltre che con le parole e con le ire e con le bestemmie, anche con la qualità della pena, sia li trascini la bufera o li ferisca la pioggia, o li abbruci il fuoco, o cagne li inseguano, o tra loro si accapiglino, o siano morti da serpi.

Alle parole provocatrici di Capaneo fa degno riscontro l'atto villano di Vanni Fucci, bestia cui Pistoia fu degna tana:

Al fine delle sue parole il ladro

le mani alzò con ambedue le fiche

gridando: Togli, Dio, che a te le squadro !

E in quale stato orribile o raccapricciante ci presenta il poeta gli scismatici e fa parlare Maometto:

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com'io vidi un, cosí non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla:

tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva, e il tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre Dante osserva, dolorosamente stupito, il dannato

.. con le man s'aperse il petto,
dicendo: Or vedi com' io mi dilacco;
vedi come storpiato è Maometto.

Dinanzi a me sen va piangendo Alí
fesso sul volto dal mento al ciuffetto.

Dopo tutto questo chi potrebbe negare il bando che della loro dannazione fanno i dannati sull'inferno dantesco?

Devesi adunque definitivamente abbandonare la interpretazione comune, e spiegare in questo modo più naturale, piú consentaneo alla religione e ai dogmi e dimostrato poi certissimo dalle parole del poeta stesso.

Ma non sempre avviene che le interpretazioni più semplici e piú ovvie siano universalmente accettate: questa volta almeno mi sia lecito sperarlo.

DR. RICCARDO TRUFFI.

Quattro errori di lezione nel primo canto dell'Inferno
e tre puntini fuori posto nel nono.

Non senza riluttanza mi accingo in un articolo di giornale a proporre o riproporre emendamenti al testo vulgato della divina Commedia. Fin troppo il dilettantesimo ha osato con leggerezza inescusabile metter le mani profane e inesperte nei testi piú venerandi; onde chi studia per davvero, teme in casi come questo mio di essere annoverato fra le mosche carducciane, le quali lasciano i segni del loro passaggio su i marmi e i bronzi di Donatello e di Michelangelo e su le tele di Leonardo e di Raffaello solo per una necessità di cui sono inconscie.

Ma perchè coscienza m'assecura, prendendo il coraggio a due mani entrerò senz'altro in argomento.

Sin dal principio del primo canto dell'Inferno, c'imbattiamo in questi versi:

Ahi quanto a dir qual era é cosa dura

questa selva selvaggia ed aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura.

Cosí leggendo, ragionevolmente non può intendersi se non che la selva rinnovava la paura nel pensiero del poeta. Ora tal concetto è monco, indegno dell'Alighieri ed erroneo in sé e secondo la dottrina di lui. Monco, perchè, se la paura non era continua, dal momento che si rinnovava, quando mai ella si rinnovava? forse quando il poeta accingevasi " a dir qual era, la selva? Ciò non può essere, perché l'ultima proposizione ("Che nel pensier„, ecc.) è complementare di "Quella selva,, ecc.; e viene affermata in modo assoluto come di fatto costante, senza nessuna parola espressiva di tempo che la riallacci al primo dei tre versi; onde non può assolutamente intendersi come se l'A. avesse detto: "Ahi quanto dura cosa è a dire qual era quella selva, ecc., che allora (cioè nel dire qual era) rinnova nel pensiero la paura. „ Monco è dunque il concetto. Esso è poi erroneo, perché il pensiero non è la sede piú propria della paura: il pensiero non è tutta l'anima, e meno ancora la parte affettiva dell'anima. È lo stesso sproposito che il Bembo, il quale curò l'ortografia del Canzoniere petrarchesco, e dietro a lui tutti gli altri, fanno dire a Francesco Petrarca in quest'altro luogo celebre:

Da' bei rami scendea

(dolce ne la memoria)

una pioggia di fior sovra 'l suo grembo, ecc.

quasi che la memoria senta e non più presto cagioni dolcezza o amaritudine: mentre doveva leggersi :

Dolce n'è la memoria.

Ma né Dante, né il Petrarca potevano cadere in errori tanto grossolani. Dante conosceva l'opinione eretica condannata dall'ottavo concilio ecumenico secondo la quale l'uomo avrebbe due anime, la razionale e la sensitiva; tanto bene, che la combatte nel principio del quarto canto della seconda cantica: ma ivi stesso distingue fra due potenze dell'anima: ".... altra potenzia è quella che....... ascolta, Ed altra quella che ha l'anima intera,„ distingue cioè secondo la teorica di Aristotele e scolastica la potenza o spirito della vita e la potenza o spirito animale, questa corrispondente al modo intellettivo, e quella al modo sensitivo avente sede del cuore,, lo spirito della vita.......... dimora nella segretissima camera del cuore,, dice egli stesso nel secondo paragrafo della Vita Nuova. Parimente il Petrarca era addentro in queste quistioni e distinzioni, e seguiva invece la teorica di Platone (cfr. Fam., XII, xiv), impugnata da Aristotile, secondo la quale l'anima aveva tre potenze e ciascuna potenza una sede diversa. Non è quindi da supporre mai e poi mai che l'Alighieri facesse risiedere la paura nel pensiero.

Resta da intendere che la selva al solo pensarci rinnovava nel poeta la paura. Tale è infatti il concetto di lui, il quale distingue tre gradi nell'amaro cagionatogli dalla selva: il ricordarla involontario che rinnovava in lui la paura; il dire quale essa era, cioè l'insistere su quel ricordo e perciò in quel senso di paura, che era cosí ineffabilmente dura; e infine l'essercisi trovato, la qual cosa era tanto amara che poco è più morte:

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

questa selva selvaggia ed aspra e forte,
che nel pensier rinnova la paura.

Tanto è amara, che poco è più morte, ecc.

E se spiega che al solo pensarci sente rinnovare in sé la paura, è per far capire quanto dura cosa fosse il dire qual essa era. Lo stesso concetto, messo in bocca ad altri e ad altro proposito, ma nella stessa forma ellittica, incontrasi nel penultimo canto dell' Inferno:

. . . Tu vuoi ch'io rinnovelli

disperato dolor che 'l cor mi preme,

già pur pensando, pria ch'io ne favelli,

ed è concetto naturalissimo. Lo troviamo, per esempio, in Giobbe (XXI, 6): "Io stesso, quando me ne ricordo, sono tutto attonito, e la carne mia ne prende orrore., Spesso lo troviamo anche nel Petrarca. Lo splendore degli occhi di Laura

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Che pur il rimembrar par mi consumi
qualor a quel dí torno, ripensando, ecc.;

e dopo la morte di Laura:

E vo, sol in pensar, cangiando 'l pelo,
qual ella è oggi e 'n qual parte dimora;

e del costume di lei;

Che mi fa vaneggiar pur del pensero;

e parlando sotto figura della morte di lei:

ancor doglia sento,

e sol de la memoria mi sgomento.

Ma tale concetto, ch'è certamente quello che l'Alighieri voleva esprimere, non può, ripeto, ragionevolmente dirsi espresso in quei versi, stando alla lezione comune, perché le parole nel pensier non possono avere se non un significato locativo in senso proprio, e cioè non possono se non indicare la sede della paura.

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E certamente nessuno pretenderà che nel pensier possa essere impiegato in cambio di col pensier. Né tampoco può trovarsi in forza di "nel pensare,, vale a dire nella vece di "pensando In con sostantivo che non implichi pel suo stesso significato l'idea di tempo, non ha che valore locativo in senso proprio (rispetto a spazio reale o ideale), e mai valore locativo-temporale, mentre gli accade il contrario coll'infinito e col gerundio dei verbi, perché nei verbi è sempre contenuta l'idea temporale (In o nel pensar; — In pensando). Né perché l'infinito dei verbi pieghisi a rimpiazzare il sostantivo, questo viceversa può prendere il posto dell'infinito; anche quando il verbo di modo infinito è impiegato come sostantivo, seguita sempre a conservare un valore temporalmente indefinito; ond'è che il pensiero e il pensare, l'amore e l'amare, l'opera e l'operare, ecc. non sono e non saranno mai la cosa medesima.

Abbiamo per tutto questo innanzi a noi una lezione che non può dare legittimamente se non un significato monco, falso e contrario alla mente di di Dante; e abbiamo dall'altra parte un concetto giusto, bello e vero, ch'è quello della mente di Dante, che non può assolutamente essere espresso e significato dalle parole impiegate nella lezione vulgata. Questa per conseguenza è erronea e non originale. Qual era la genuina? Due sono le emendazioni facilissime che possono proporsi. Una piú conforme all'indole della lingua allo stato attuale, cioè: nel pensar, che sarebbe stato poi alterato in nel pensier, o piú volentieri in nel penser. Anche il Petrarca disse:

E vo, solo in pensar, cangiando 'l pelo.

Pure per quanto l'emendazione sia allettatrice, l'alterazioze posteriore in nel penser non mi capacita, ammessa anche l'asinità dei copisti; perché ogni italiano, d'ogni dialetto, d'ogni secolo e d'ogni coltura avrebbe sentita o sentirebbe, anche a non intenderla, l'impossibilità di sostituire nel penser a nel

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