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Ma né Dante, né il Petrarca potevano cadere in errori tanto grossolani. Dante conosceva l'opinione eretica condannata dall'ottavo concilio ecumenico secondo la quale l'uomo avrebbe due anime, la razionale e la sensitiva; tanto bene, che la combatte nel principio del quarto canto della seconda cantica: ma ivi stesso distingue fra due potenze dell'anima: “.... altra potenzia è quella che.... ascolta, Ed altra quella che ha l'anima intera,,, distingue cioè secondo la teorica di Aristotele e scolastica la potenza o spirito della vita e la potenza o spirito animale, questa corrispondente al modo intellettivo, e quella al modo sensitivo avente sede del cuore,, lo spirito della vita.... dimora nella segretissima camera del cuore, dice egli stesso nel secondo paragrafo della Vita Nuova. Parimente il Petrarca era addentro in queste quistioni e distinzioni, e seguiva invece la teorica di Platone (cfr. Fam., XII, xiv), impugnata da Aristotile, secondo la quale l'anima aveva tre potenze e ciascuna potenza una sede diversa. Non è quindi da supporre mai e poi mai che l'Alighieri facesse risiedere la paura nel pensiero.

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Resta da intendere che la selva al solo pensarci rinnovava nel poeta la paura. Tale è infatti il concetto di lui, il quale distingue tre gradi nell'amaro cagionatogli dalla selva: il ricordarla involontario che rinnovava in lui la paura; il dire quale essa era, cioè l'insistere su quel ricordo e perciò in quel senso di paura, che era cosí ineffabilmente dura; e infine l'essercisi trovato, la qual cosa era tanto amara che poco è piú morte:

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
questa selva selvaggia ed aspra e forte,
che nel pensier rinnova la paura.

Tanto è amara, che poco è piú morte, ecc.

E se spiega che al solo pensarci sente rinnovare in sé la paura, è per far capire quanto dura cosa fosse il dire qual essa era. Lo stesso concetto, messo in bocca ad altri e ad altro proposito, ma nella stessa forma ellittica, incontrasi nel penultimo canto dell' Inferno:

... . Tu vuoi ch'io rinnovelli

disperato dolor che 'l cor mi preme,
già pur pensando, pria ch'io ne favelli,

ed è concetto naturalissimo. Lo troviamo, per esempio, in Giobbe (XXI, 6): "Io stesso, quando me ne ricordo, sono tutto attonito, e la carne mia ne prende orrore., Spesso lo troviamo anche nel Petrarca. Lo splendore degli occhi di Laura

d'ogni altra sua voglia

sol rimembrando, ancor l'anima spoglia;

delle sue pene amorose domanda:

Qual fu a sentir che 'l ricordar mi coce?

ripensando alla partenza da Laura, dice:

Che pur il rimembrar par mi consumi
qualor a quel dí torno, ripensando, ecc.;

e dopo la morte di Laura:

E vo, sol in pensar, cangiando 'l pelo,
qual ella è oggi e 'n qual parte dimora;

e del costume di lei;

Che mi fa vaneggiar pur del pensero;

e parlando sotto figura della morte di lei :

.... ancor doglia sento,

e sol de la memoria mi sgomento.

Ma tale concetto, ch'è certamente quello che l'Alighieri voleva esprimere, non può, ripeto, ragionevolmente dirsi espresso in quei versi, stando alla lezione comune, perché le parole nel pensier non possono avere se non un si gnificato locativo in senso proprio, e cioè non possono se non indicare la sede della paura.

E certamente nessuno pretenderà che nel pensier possa essere impiegato in cambio di col pensier. Né tampoco può trovarsi in forza di "nel pensare,, vale a dire nella vece di "pensando,. In con sostantivo che non implichi pel suo stesso significato l'idea di tempo, non ha che valore locativo in senso proprio (rispetto a spazio reale o ideale), e mai valore locativo-temporale, mentre gli accade il contrario coll'infinito e col gerundio dei verbi, perché nei verbi è sempre contenuta l'idea temporale (In o nel pensar; — In pensando). Né perché l'infinito dei verbi pieghisi a rimpiazzare il sostantivo, questo viceversa può prendere il posto dell'infinito; anche quando il verbo di modo infinito è impiegato come sostantivo, seguita sempre a conservare un valore temporalmente indefinito; ond'è che il pensiero e il pensare, l'amore e l'amare, l'opera e l'operare, ecc. non sono e non saranno mai la cosa medesima.

Abbiamo per tutto questo innanzi a noi una lezione che non può dare legittimamente se non un significato monco, falso e contrario alla mente di di Dante; e abbiamo dall'altra parte un concetto giusto, bello e vero, ch'è quello della mente di Dante, che non può assolutamente essere espresso e significato dalle parole impiegate nella lezione vulgata. Questa per conseguenza è erronea e non originale. Qual era la genuina? Due sono le emendazioni facilissime che possono proporsi. Una piú conforme all'indole della lingua allo stato attuale, cioè: nel pensar, che sarebbe stato poi alterato in nel pensier, o piú volentieri in nel penser. Anche il Petrarca disse:

E vo, solo in pensar, cangiando 'l pelo.

Pure per quanto l'emendazione sia allettatrice, l'alterazioze posteriore in nel penser non mi capacita, ammessa anche l'asinità dei copisti; perché ogni italiano, d'ogni dialetto, d'ogni secolo e d'ogni coltura avrebbe sentita o sentirebbe, anche a non intenderla, l'impossibilità di sostituire nel penser a nel

pensar. L'altra emendazione consiste nel leggere del penser o del pensier, che troviamo in forma identica in uno e molto simile in altro dei citati luoghi del Petrarca:

Che mi fa vaneggiar pur del pensero;

E sol de la memoria mi sgomento.

La supposizione del passaggio di del in nel è, in punto a grafia, piú che plausibile. È plausibile anche, perché il verso dovrebbe essere scritto cosí:

Che, del penser, rinnova la paura;

mentre colla trascurata e sciaurata ortografia del tempo scrivendo:

Che del penser rinnova la paura,

il senso non apparve chiaro, e preso del penser come genitivo, non si capí, come non si poteva capire, che cosa mai significasse.

* *

Il secondo passo di quel primo canto dove parmi che qualche cosa zoppichi, è questo:

Tempo era dal principio del mattino;

e il sol montava in su con quelle stelle
ch'eran con lui, quando l'amor divino

mosse da prima quelle cose belle;

sí ch' a bene sperar m'era cagione

di quella fera a la gaietta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione.

Prescindendo dal fatto che secondo alcuni va letto: "Di quella fera la gaietta pelle,, non posso convincermi che l'A. abbia scritto proprio "L'ora del tempo n Perché, a onor del vero, che mai può significare questa locuzione? Quello forse che potrebbe significare il punto del luogo, il sito del luogo, ecc., vale a dire, un bel nulla. A me pare, se non m'inganno, che il verso vada letto cosí:

o meglio:

L'ora ed el tempo e la dolce stagione,

L'ora et el tempo, ecc.

perché dall'agglutinamento etel, comune alle scritture di quell' età, sia potuto derivare del.

E qui mi si osserverà che nulla di meglio significherebbe il verso anche a cotesto modo. Il tempo, si dirà, comprende bene l'ora e la stagione, e non può mentovarsi come cosa alquanto diversa dall'una e dall'altra. E perciò occorre una distinzione:

E qui è uopo che ben si distingua.

Dalla più remota antichità il giorno, dall'alba all'imbrunire, venne diviso in quattro parti eguali: il che venne simbolicamente significato coi quattro cavalli tiranti il carro del sole. Di questo era inteso l'Alighieri, che ne parla nel Convivio (IV, 23). Nei tempi di mezzo queste quattro parti vennero chiamate dai poeti stagioni a simiglianza, osserva il Castelvetro, delle quattro parti dell'anno (cfr. p. es. il Petrarca, Canzon., canz. Ne la stagion, 1; son. Gia fiammeggiava, 7; Tr. della M. ij. 7; e Shakespeare, Tempest, I. ij). Ora a me par sicuro che quelle parti del giorno si chiamassero non solo stagioni, ma anche tempi; perché essendo quattro come le parti dell'anno, e venendo a simiglianza di queste chiamate con quel primo nome; a simiglianza pure di esse che si dissero tempestates o tempora (la Chiesa le designa ancora col nome di quattro tempora,) furono probabilmente dette anche tempi. Difatti presso il Petrarca, nel sonetto che cosí incomincia, leggiamo:

"

Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno

e la stagione e 'l tempo e l'ora e 'l punto, ecc.

nel qual luogo evidentemente il primo verso ci offre una enumerazione con successione ascendente, e il secondo una con successione discendente. Laonde nel secondo verso il tempo è meno di stagione e più di ora, come l'ora è più del punto, cioè dell'attimo. Se ivi la parola tempo valesse quel che vale adesso, non starebbe, espressione di spazio temporale indeterminato, in mezzo a tutte quelle altre designazioni di spazi temporali determinati. Ed è però che lo stesso Petrarca dice altrove:

I' benedico il loco e 'l tempo e l'ora.

Con tutto questo vengo a conchiudere che nel verso dantesco in esame, emendato come si è visto, debba ravvisarsi la forma enumerativa in successione ascendente:

L'ora et el tempo e la dolce stagione;

e cioè: l'ora prima del giorno (" dal principio del mattino,), il tempo del mattino, e la stagione di primavera, ecc. E difatti tutti e tre questi momenti che gli davano a bene sperare della lonza, sono espressi nei versi precedenti:

Tempo era dal principio del mattino,

era il mattino ed era la prima ora del giorno; che fosse primavera dice nei tre versi successivi.

Leggiamo ora il seguito di quei versi nella vulgata:

Sí che a bene sperar m'era cagione

di quella fera a la gaietta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione:

ma non sí che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venesse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sí che parea che l'aer ne temesse:
ed una lupa che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fe' già viver grame.

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Qual è il verbo che regge Ed una lupa? Nessuno. Secondo qualche interprete sarebbe "m'apparve. Ma "mi apparve, regge una proposizione complementare molto lontana, mentre questa è proposizione principale o coordinata ad altra principale. Bisogna dunque sottintendere il verbo della proposizione principale più prossima, di cui questa è coordinata, come dà a divedere la congiunzione copulativa ed. Tale verbo non è "parea,, perché in primo luogo non farebbe senso, e in secondo luogo i tre versi da "Questi parea, sino a "l'aer ne temesse formano come una specie di parentesi. Qual è dunque?

Leggasi invece: "E d'una lupa, ecc., e tutto fila diritto; perché il sentimento principale che regge tutto, è questo: "Ma l'ora ed il tempo e la dolce stagione non mi erano cagione a bene sperare si, che paura non mi desse la vista che mi apparve di un leone (il quale parea, ecc. ecc.), e di una lupa, la quale, ecc. ecc. Autorità di codici non manca a questa lezione vera: perché dunque insistere tanto sull'erronea?

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Seguitando, subito dopo leggesi:

E qual è quei che volentieri acquista,

e giugne il tempo che perder lo face,

che 'n tutt' i suoi pensier piange e s'attrista, ecc.

Qui la lezione dev'essere piú che manifestamente errata: secondo la stessa l'acquistare volentieri e il perdere non possono essere che rispetto a ricchezze e beni mondani; e per un altro verso quello che induce a perdere non può essere se non "il tempo,. Su queste basi la comparazione non sussiste e non può sussistere: il poeta canta la propria rigenerazione morale, ritardata e impedita dalle tre fiere, e specialmente dalla lupa, figura in gran parte di cupidigia e di avarizia; e pure paragonerebbe sé in questo caso a uno tutto inteso all'avidità del guadagno, ch'è la caratteristica più forte dell' avarizia! quello che indurrebbe a perdere sarebbe non cosa, non persona, ma il tempo, mentre al poeta erano cagione di danno non il tempo, ma le tre fiere, anzi il tempo eragli cagione a bene sperare di una almeno di quelle bestie! Tutte queste contraddizioni spariscono leggendo invece:

E qual è quei che volentieri acquista

e giugne il tempo chi perder li (o lui) face,

che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista, ecc.

Giornale dantesco

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