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versetto nel Voluspa (Il canto della Sibilla): La nave della morte forzerà il passaggio. Questa nave si appella: Naglfar da nagl (unghia) e far, (nave); nave fatta co' ritagli delle unghie de' morti, secondo lo Snorda-Edda, pag. 71. Antonio Schiefner nella nota 1a, pag. 143 alle sue Mittheilungen nel Bulletin de l'Academie imperiale des sciences de Saint-Petersbourg, II, pag. 293 ne dice che nella Lituania, in Samogizia, dura tuttavia il costume di non gettar via le unghie tagliate, ma di lasciarle crescere sulle dita per difesa; altrimenti il diavolo potrebbe raccoglierle e farsene un cappello (che occorre pure nella tradizione popolare di quei paesi). E vige ancora l'uso colà che, quando altri si è tagliato le unghie delle mani e dei piedi, sulle unghie tagliate, con un coltello vi segni una croce, appena gettatele via; se no il diavolo potrebbe servirsene tosto per farsene una berretta per il suo capo; secondo un'altra superstizione poi si raccomanda alla gente di tagliarsi le unghie per impedire l'arrivo della nave Naglfar.

Sessa Aurunca, 27 marzo 1894.

STANISLAO PRATO.

1 Histoire de la poésie scandinave, Prolegomènes par M. Edélestand Du Meril, Paris, Brockhaus et Avenarius, 1839: Le chant de la Sibylle, pag. 108 e nota.

གི་རིག་པ་ ལ་ ལ་སོ་

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI.

Bollettino della Società dantesca italiana: nuova serie Firenze, giugno e luglio 1894, vol. I, fasc. 9° e 10o.

Ho letto con piacere nel Bollettino di giugno l'accurata recensione del Barbi all'opera del Leynardi La psicologia nell'arte della divina Commedia; ma l' opera probabilmente non la leggerò. Non che la recensione non la faccia apprezzare, o ch'io disconosca il valore della psicologia applicata allo studio del poema, essendomi anzi l' Alighieri apparso sempre come uno dei psicologi più profondi: ma non mi pare che il tempo impiegato in somiglianti sintesi corrisponda a l'utile che se ne ritrae per la piena comprensione del poeta. Ma che si canzona? 510 pagine in-8°! Preferisco rileggere quattro volte la divina Commedia.

Con ciò sono ben lontano dall' affermare che l'autore abbia fatto un lavoro inutile. Sarà al contrario lavoro utilissimo, e lo leggeranno certamente i cultori della psicologia e dell'arte, e formerà una parte importante della enciclopedia dantesca: ma pei dantisti probabilmente rimarrà solo un'opera da consultare, un repertorio sistematico della materia.

Giacché quanto a me sono fermo nella vecchia idea, che per la comprensione di Dante giovi bensí che uno si accinga alla sua lettura con una preparazione sufficente; ma non sino al punto da digerirsi prima tanti trattati e di lingua e di storia e di filosofia, etc.... i quali poi gli facciano scappare la voglia del testo, come gli antipasti talvolta sciupano l'appetito pel desinare. Una discreta cultura classica, un manuale di prolegomeni che la integri, una buona parafrasi di fronte al testo, e un comento continuo dopo, al quale uno possa ricorrere quando vuole, o prima o durante o dopo la lettura, e dove principalmente siano, ad ogni passo, riuniti i luoghi paralleli, secondo i suoi diversi punti di vista: e il lettore ha già tutto quello che gli abbisogna. E non dubito un istante, stando a l'analisi del Barbi, che alla formazione di questo comento molto potrà tesoreggiarsi dell'opera del Leynardi.

Ma poiché non è di questa veramente, ma della sua recensione che, io dovrei ora occuparmi, avrò detto tutto, e nello stesso tempo nulla che già non si sapesse, soggiungendo ch'essa leg

Giornale dantesco

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gesi con moltissima istruzione e diletto. Una osservazione sola, piú che altro a scrupolo di coscienza, e a prova dell'attenzione con cui l'ho letta. A pag. 166 a metà, ove trovo: nel cenno dato da Barbariccia a' suoi dieci, avrebbe forse dovuto dirsi, a' suoi nove, giacché al XXII, 13, D. dice: Noi andavam con li dieci dimoni; e fra i dieci è pur compreso Barbariccia. L'equivoco può nascere facilmente dal v.: E Barbariccia guidi la decina, al XXI, 120, e potrebbe trovar conferma due versi dopo in chi legga Cirïatto, Sannuto in luogo del volgato Ciriatto sannuto: ma, come dissi, ogni dubbio è tolto dal XXII 13 sopracitato.

Tien dietro nel Bollettino una diligente disamina del Fornaciari a due articoli usciti in questo Giornale, uno del dott. Filomusi-Guelfi su La struttura morale dell'“ Inferno „ di Dante, l'altro di Giorgio Trenta, Gli ignavi e gli accidiosi dell'“Inferno „, dantesco: e rilevo, con piacere da una parte, che il recensore accolga l'avviso dei molti (trai quali anche il Fraccaroli di cui dirò più avanti) che per la bestialitade del c. XI intendono la violenza, con dispiacere dall' altra, ch' egli non ammetta che nel c. VII accidioso fummo (o meglio forse acidioso) si riferisca tassativamente agl' invidiosi, ma nello Stige devano trovarsi insieme ira, accidia, invidia e superbia.

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In questo io sono impenitente. Non riesco a persuadermi come D. possa aver relegato i superbi nello Stige senza dirne una sola parola (il Quei fu al mondo persona orgogliosa dell' VIII, 46 riferendosi a l'Argenti che è tra L'anime di color cui vinse l'ira, e se è tra queste, non può essere dei superbi; a meno di volere che superbia e ira siano la medesima cosa). Né mi so disdire che gli accidiosi dello Stige non sarebbero altro che una pura e semplice ripetizione degli ignavi dell' Antinferno.

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Ma il pr. Fornaciari vi trova differenza in questo che gli accidiosi peccarono per troppa freddezza ne l'operare: ma infine una passione l'ebbero, mentre agli ignavi appartiene la gran turba di quelli che non sanno di vivere, e non lasciano traccia di sé. - A me pare una sottigliezza. O papa Celestino dunque, colui Che fece per viltade il gran rifiuto, uno, che se non fosse stato chiamato al papato, D. avrebbe pur dovuto collocare fra i beati contemplanti, anch'esso fra l'inutile vulgus? È vero che a pag. 177 egli dice aver peccato per ignoranza e cecità di mente: ma lo dice lui: Dante col suo contegno lo mostra reo di ben altro che d'ignoranza: e viltade del resto non è ignoranza, è poltroneria e pusillanimità bell' e buona. E ancora: per quanto pur vogliasi fare D. di spiriti aristocratici, perché mai egli, cosí amante della giustizia, dovrebbe dannare all'inferno tutta la schiera di coloro che astretti al lavoro quotidiano non possono certo aspirare né alla sapienza né alla fama? i tre quarti, si può dire, del genere umano?

Un'altra inesattezza nella quale mi pare che il recensore sia trascorso (sempre nel lodevole intento di volere un D. perfettamente loico, anche là dove la poesia può averlo tentato a fare alla logica un qualche strappo) si è là dove, premesso che l'incontinente cerca il placere, il malizioso l'ingiuria, alla obiezione, perché Didone e Semiramide siano tra i lussuriosi, e non tra i maliziosi violenti, l'una come suicida, l'altra come incestuosa, risponde ch' esse in ciò furono vinte dal proprio temperamento, furono incontinenti. Sta bene. Ma ciò non potrà dirsi allora di tutti i suicidi, di tutti gli incestuosi, di tutti i sodomiti? O che altro cercano tutti questi se non la sodisfazione del proprio piacere, alla quale la ingiuria non è che il mezzo di arrivare? Secondo me una ragione completa del sistema penale dantesco non potrà aversi mai, se non vi si pone per base il fondamento sociale, per cui le colpe, tanto sono piú gravi, quanto piú profondamente feriscono il concetto della umanità: di che già diedi un qualche cenno in questo Giornale, ma mi riservo di meglio dimostrarlo in apposito scritto che già tengo in pronto, in attesa del tempo di dargli l'ultima mano.

Giusta quel mio sistema, gli eretici sarebbero stati scelti da D. come campioni della superbia, potendosi qualificare di incontinenti superbi contro Dio: e posti come sono nello stesso piano degli incontinenti, ma dentro della città roggia, essi starebbero, quali rei del peccato d'incontinenza il piú grave, a rappresentare il punto di passaggio, la linea di separazione tra gli incontinenti e i maliziosi; al modo quasi che gli usurai, che sono i violenti piú gravi, rappresentano l'anello di congiunzione tra le due classi dei maliziosi, i violenti e i fraudolenti. Mancherebbe sempre, è vero, la rappresentanza fra gl'incontinenti della classe di superbi più comune,

quella contro il prossimo: ma perché non potrà anche D. invocare qualche volta il proverbiale Pictoribus atque poetis...?

Confesso però che in questa convinzione mi avrebbe fatto alquanto vacillare il Fraccaroli, stando alla recensione che del suo lavoro Il cerchio degli eresiarchi lessi del Fiammazzo. L'idea per la quale il cerchio degli eretici, ribellanti volontarii a Dio, sarebbe atrio al basso inferno, al modo che il cerchio degl' infedeli, ribellanti involontarii, lo sarebbe all'inferno superiore, mi sembra certo molto ingegnosa, e merita in ogni modo di essere ben ponderata e discussa.

Non entrerò terzo a discutere sulla interpretazione che il Taverna diede del famigerato Si che il pié fermo sempr'era il più basso, di che si occupa pure il Fiammazzo a proposito del cenno fattone in questo Giornale dal prof. Della Giovanna; giacché trattasi di un di que' luoghi che a dritto o a torto hanno la stessa cattiva riputazione dei problemi della quadratura del circolo o della trisezione dell'angolo, che mille credono aver risolto, e a niuno persuade la soluzione dell' altro. Al Taverna, p. es., come al Fiammazzo, come al Della Giovanna, persuade la spiegazione (ch'è pressapoco la stessa del Fraticelli): Io camminavo sí lentamente che nel mutare il passo mi fermavo sempre in sul piede di dietro, onde vedere se cosa o persona o animale alcuno appariva. Io confesso di non avervi trovato ragion sufficente di staccarmi dalla spiegazione piú antica, della quale già credetti dare un'analisi gramaticale e logica, parafrasando: ripresi il mio cammino in quel luogo deserto, per modo che quello dei due piedi il quale nel movere del passo si riman fermo, si ritrovava poi sempre posare su di una superfice più bassa di quella ov'era andato a mettersi il piede in cammino; quest' ultimo, vale a dire, saliva.

Passando al Bullettino di luglio, troviamo un bell'articolo di Flaminio Pellegrini che garbatamente contradicendo a una Nota dantesca di Rocco Murari ci rassicura nell'opinione corrente circa la data della nascita di D. nel 1265.

Segue una lunga disquisizione dello Zingarelli sullo studio dell' Antognoni intitolato Il dolore di Cavalcante. Esso deriverebbe dal timore, nel padre, di vedere il suo Guido dannato, sapendolo epicureo, timore che sarebbe più forte dello stesso desiderio di averlo vicino; e sarebbe in pari tempo un'eco del dolore che per tal morte avrebbe provato l'amicissimo suo Dante. Può darsi che questi concetti siano impliciti, ma non mai tanto da surrogare il principale; e questo, data la non assoluta certezza dell'epicureismo di Guido, e data specialmente nel Cavalcanti la figura di epicureo impenitente, pel quale l'unico vero bene è la vita mondana, mi pare non potrà mal essere (e sarà a mille doppi piú poetico e patetico) se non il dolore di un padre al saper morto il proprio figliuolo.

Per incidenza si viene anche a parlare del significato da attribuirsi al noto verso Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno, appoggiando la opinione che Guido abbia disdegnato in Virgilio la filosofia fondata sulla fede e sulla grazia (da cui anche Stazio avrebbe tratto la sua conversione al cristianesimo). A me pare stiracchiata: oh di fronte alla luce del Vangelo, quella di Virgilio non doveva eclissarsi come stella al sole? Più naturale mi parve sempre l'intendere piuttosto impersonata in Virgilio tutta la letteratura classica, della quale Guido appassionato per la nuova lingua (nella quale eccitò pure l'amico suo a scrivere di preferenza), e noto pel fervore delle sue passioni (una specie di Cavallotti di quell'epoca) non si sarebbe mostrato affatto curante: mentre invece l'Alighieri, pur persuaso della utilità di coltivare la nuova lingua, non credeva però disgiungere quel culto da quello dell'antichità, ma anzi con lo studio e la ricerca degli antichi volumi, tendeva a ricollegare con l'antica la civiltà rinascente, a ricreare e continuare le tradizioni del nobile impero latino; ond'è, che dovendo accingersi ad opera di gran lena, come la d. C., non credette poterlo fare se non prendendo a suo maestro e autore Virgilio. Ma anche questo avrebbe bisogno di ben più largo sviluppo, che però devo lasciare a migliore opportunità.

Dirà per ultimo della recensione del Fornaciari sui due scritti, di Del Noce e del Carboni, L'ironia di Caronte e Il passaggio dell'Acheronte, già apparsi in questo Giornale.

Dopo quanto se n'è disputato, e che fu cosí ben riassunto dall' Antona-Traversi nel suo opuscolo Il greve tuono dantesco, e dopo quello che ne scrissi io pure (in Pensiero dei giovani,

1 apr., 16 giug. e 1 ottobre 1887) ho appena bisogno di aggiungere com' io approvi in tutto l'avviso del Carboni circa il passaggio di Dante per mezzo di un angelo, e il suo risvegliarsi per l'effetto dei guai infernali. L'opinione poi del Del Noce che a spiegare questo passaggio lo suppone seguito, essendo D. svenuto, sulla stessa barca di Caronte, mi pare la piú strana di tutte. O se a questo si dovea venire, a che allora tutto quel tramenio, tremoto, vento, luce vermiglia, svenimento? Sarebbero premesse senza illazione né logica né estetica.

Quello che ammetto col Del Noce (né giurerei che qualche altro comentatore già non l'avesse detto prima) si è la ironia del detto di Caronte: Per altre vie, per altri porti Verrai a piaggia..., quando si sa che altre vie, altri porti non ci sono. Dal che però egli non si è curato di cavare tutto il costrutto possibile, omettendo di osservare come tale ironia si convertisse senza volerlo in buon augurio, venendo appunto a profetizzar quasi a D. il suo trasporto sul piú lieve navicello e dal ben augurato porto di Ostia. Ciò ben avverte il Fornaciari; ma sia detto con reverenza verso l'illustre uomo, egli ha poi il torto di supporre un tale augurio, in Caronte, intenzionale, anziché del tutto inconsapevole. In bocca di un diavolo sarebbe cortesia troppo spinta.

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Egli tenta pure oppugnare il Carboni là dove nota la somiglianza dei fenomeni che accompagnano l'intervento di un celeste messaggero nei c. III e IX, in entrambi i luoghi entrando il terremoto, che, come si sa, gli antichi credevano prodotto per vento che in terra si nasconda; e lo fa osservando che al c. III c'è il vento e al IX no, non potendo il vento del c. III essere una cosa col terremoto, giacché esso è accennato dopo che già si è accennato al terremoto, ciò che prova essere due fenomeni diversi. E sia pure; ma quello che il Carboni mi par che sostenga, e non saprei dargli torto, si è che il vento Che balenò una luce vermiglia al c. III, non è già il vento Impetuoso per gli avversi ardori, il vento insomma quale lo intendiamo noi oggidí, bensí è il medesimo vento che dopo avere agitato la terra e prodotto il terremoto, trovando un adito, se ne scappa fuori con un bagliore: ciò che lascia credere aver D. intuito quasi nei terremoti una causa elettrica comune coi temporali, quali egli pur descrive in quella terzina dell'VIII, 22, di Par.: Di fredda nube non disceser venti, O visibili o no, tanto festini, ecc.

Mi consolo però vedendo che il Fornaciari in conclusione non insiste piú tanto nella sua idea del tuono udito in sogno, ch' egli contrappose una volta a quella del Puccianti (anzi del Bargigi), del tuono che tien dietro al baleno.

Ma egli dà ora la cosa per disperata; il che io veramente non crederei. Senza ricorrere (per non contraddirmi) ad altra novità che or mi si gira pel capo, per cui il tuono sarebbe dovuto al partire de l'angelo, come il tremuoto al suo apparire, a me pare anche qui che l'aver voluto abbandonare il comento per cosí dire tradizionale abbia recato tenebre e confusione là dove tutto prima andava liscio e piano come un olio. Non come un olio propriamente, giacché allora non sarebbe venuta la smania del cambiamento; ma a qualche cosa si sa che bisogna pur sorpassare; non si può pretendere da un poeta che nelle sue invenzioni tutto corra come una dimostrazione geometrica; e ciò tanto piú in un poema, del quale non vi ha forse altro piú complesso, come la divina Commedia. Cosa accade il più delle volte? Che per evitare una piccola difficoltà che presenta una vecchia interpretazione, per non voler confessare un difetto, una oscurità del poeta, si va a pescare una interpetrazione nuova, che avrà tutti i pregi di questo mondo, ma a cui nessuno leva il peccato originale di far subito esclamare al lettore non letterato: Povero Dante, quante gliene fanno dire!

Nello stesso caso credo che sia l'altro luogo tanto dibattuto Chi per lungo silenzio parea fioco, del quale si occupa pure senza però pronunziarsi apertamente, il Fiammazzo a proposito di un opuscolo di A. Mazzoleni: ma avendo già avuto occasione di discorrerne in un precedente numero del Giornale, credo bene di risparmiare ai lettori un bis in idem probabilmente non richiesto.

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Roma, settembre 1894.

FERDINANDo Ronchetti,

BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

Alighieri Dante. La divine Comédie: traduction libre par Max Durand-Fardel. Paris, Plon et Nourrit, 1894, in-18o, di pagg. xxxv-307. (362)

Tutte le opere nuovamente rivedute nel testo da dr. E. Moore. Oxford, nella stamperia dell'Università (Londra, E. Frowde, edit.), 1894, in-16o, di pagg. XII-491.

Accoglie tutte le opere di Dante, anche quelle tenute generalmente per apocrife: la Quaestio de aqua et terra, tutte le rime, tutte le epistole (eccetto quella volgare a Guido da Polenta), il Credo e i sette Salmi. Il testo della Vita nova e del trattato di Monarchia son riprodotti, quasi letteralmente, delle edizioni wittiane, la Quacstio, le Epistole e i poemi minori dal testo del Fraticelli. Per la Volgare eloquenza il Moore si serve anche del codice di Grenoble, recentemente riprodotto in facsimile dal dott. Prompt. Il testo del Canzoniere, in questa nuova edizione, è virtualmente quello fraticelliano, con leggere modificazioni del Powell: il testo del Convivio è fondato sopra i due codici che sono in Inghilterra, uno presso il Moore, uno nella Bodleiana di Oxford, sulle notizie delle lezioni di parecchi altri codici somministrate in piú luoghi controversi dalle edizioni anteriori, e specie da quelle del Fraticelli e del Giuliani, e sulle Centuriae correctionum wittiane, ecc. Per la Commedia il Moore si serve generalmente dell'edizione del Witte, megliorata sulla scorta dei più importanti lavori che sul testo sono stati fatti in questi ultimi tempi. Fra questi, l'editore si vale largamente delle lezioni raccolte nel suo recente lavoro intitolato Textual Criticism of the divina Commedia e di molte altre da lui messe insieme dopo la publicazione di quell'opera pregievolissima. L'indice del volume è stato compilato dal sig. Paget Toynbee. (363)

Barbi Michele. Il trattatello sull'origine di Firenze di Giambattista Gelli. Firenze, tip. Carnesecchi, 1894, in-4o, di pagg. 13.

Del trattatello del Gelli sull' origine di Firenze si aveva notizia solo per testimonianze del Giambullari e del Borghini. Il libretto divenne cosí raro, e in cosí breve tempo, che quarant'anni dopo la sua publicazione non era piú possibile di trovarne una copia. Ora il Barbi ha trovata e riconosciuta l'operetta del Gelli nella Magliabechiana, dove il trattatello si ritrova manoscritto nel codice XXV, 25. (364)

Bencivenni Ildebrando.

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"Dentro dalla muda„: studio dantesco. Catania, Niccolò Giannotta, editore, (tip. di Lorenzo Rizzo,) 1894, in-16o, di pagg. 221.

Intorno al verso: Poscia più che il dolor poté il digiuno, che l'autore intende: vinto dalla fame addentai le carni dei figlioli... (365)

Bonci Francesco. Antonio Cesari precursore degli irredentisti. Pesaro, prem. stab. tipo-lit. Federici, 1893, in-16° picc., di pagg. 84.

Contiene: I. Il Cesari precursore degl' irredentisti per tre orazioni contro agli stranieri. II. Il Cesari precursore degl' irredentisti per la diffusione delle sue opere letterarie e della lingua italiana in terre di confine. III. Il Cesari precursore delle società Dante Allighieri. (I sodalizi Dante Allighieri; Dante nella Deutsche Rundschau; Dante e il Cesari; Verona e Dante; Verona, Dante e il Cesari; Le Bellezze della divina Commedia; I commentatori di Dante; Estetica antica e metodo moderno; Andrea Scartazzini; Francesco De Sanctis; Adolfo Bartoli). III. Papa Leone XII rifiuta la dedica delle Bellezze di Dante fattagli dal Cesari. IV. Il Cesari precursore degl' irredentisti in morte e dopo morte.

(366)

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