quella contro il prossimo: ma perché non potrà anche D. invocare qualche volta il proverbiale Pictoribus atque poetis...? Confesso però che in questa convinzione mi avrebbe fatto alquanto vacillare il Fraccaroli, stando alla recensione che del suo lavoro Il cerchio degli eresiarchi lessi del Fiammazzo. L'idea per la quale il cerchio degli eretici, ribellanti volontarii a Dio, sarebbe atrio al basso inferno, al modo che il cerchio degl' infedeli, ribellanti involontarii, lo sarebbe all'inferno superiore, mi sembra certo molto ingegnosa, e merita in ogni modo di essere ben ponderata e discussa. Non entrerò terzo a discutere sulla interpretazione che il Taverna diede del famigerato Si che il pié fermo sempr'era il più basso, di che si occupa pure il Fiammazzo a proposito del cenno fattone in questo Giornale dal prof. Della Giovanna; giacché trattasi di un di que' luoghi che a dritto o a torto hanno la stessa cattiva riputazione dei problemi della quadratura del circolo o della trisezione dell'angolo, che mille credono aver risolto, e a niuno persuade la soluzione dell' altro. Al Taverna, p. es., come al Fiammazzo, come al Della Giovanna, persuade la spiegazione (ch'è pressa poco la stessa del Fraticelli): Io camminavo sí lentamente che nel mutare il passo mi fermavo sempre in sul piede di dietro, onde vedere se cosa o persona o animale alcuno appariva. Io confesso di non avervi trovato ragion sufficente di staccarmi dalla spiegazione piú antica, della quale già credetti dare un'analisi gramaticale e logica, parafrasando: ripresi il mio cammino in quel luogo deserto, per modo che quello dei due piedi il quale nel movere del passo si riman fermo, si ritrovava poi sempre posare su di una superfice piú bassa di quella ov'era andato a mettersi il piede in cammino; quest' ultimo, vale a dire, saliva. Passando al Bullettino di luglio, troviamo un bell'articolo di Flaminio Pellegrini che garbatamente contradicendo a una Nota dantesca di Rocco Murari ci rassicura nell'opinione corrente circa la data della nascita di D. nel 1265. Segue una lunga disquisizione dello Zingarelli sullo studio dell' Antognoni intitolato Il dolore di Cavalcante. Esso deriverebbe dal timore, nel padre, di vedere il suo Guido dannato, sapendolo epicureo, timore che sarebbe più forte dello stesso desiderio di averlo vicino; e sarebbe in pari tempo un'eco del dolore che per tal morte avrebbe provato l'amicissimo suo Dante. Può darsi che questi concetti siano impliciti, ma non mai tanto da surrogare il principale; e questo, data la non assoluta certezza dell' epicureismo di Guido, e data specialmente nel Cavalcanti la figura di epicureo impenitente, pel quale l'unico vero bene è la vita mondana, mi pare non potrà mal essere (e sarà a mille doppi piú poetico e patetico) se non il dolore di un padre al saper morto il proprio figliuolo. Per incidenza si viene anche a parlare del significato da attribuirsi al noto verso Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno, appoggiando la opinione che Guido abbia disdegnato in Virgilio la filosofia fondata sulla fede e sulla grazia (da cui anche Stazio avrebbe tratto la sua conversione al cristianesimo). A me pare stiracchiata: oh di fronte alla luce del Vangelo, quella di Virgilio non doveva eclissarsi come stella al sole? Piú naturale mi parve sempre l'intendere piuttosto impersonata in Virgilio tutta la letteratura classica, della quale Guido appassionato per la nuova lingua (nella quale eccitò pure l'amico suo a scrivere di preferenza), e noto pel fervore delle sue passioni (una specie di Cavallotti di quell' epoca) non si sarebbe mostrato affatto curante: mentre invece l'Alighieri, pur persuaso della utilità di coltivare la nuova lingua, non credeva però disgiungere quel culto da quello dell' antichità, ma anzi con lo studio e la ricerca degli antichi volumi, tendeva a ricollegare con l'antica la civiltà rinascente, a ricreare e continuare le tradizioni del nobile impero latino; ond' è, che dovendo accingersi ad opera di gran lena, come la d. C., non credette poterlo fare se non prendendo a suo maestro e autore Virgilio. Ma anche questo avrebbe bisogno di ben più largo sviluppo, che però devo lasciare a migliore opportunità. Dirà per ultimo della recensione del Fornaciari sui due scritti, di Del Noce e del Carboni, L'ironia di Caronte e Il passaggio dell'Acheronte, già apparsi in questo Giornale. Dopo quanto se n'è disputato, e che fu cosí ben riassunto dall' Antona-Traversi nel suo opuscolo Il greve tuono dantesco, e dopo quello che ne scrissi io pure (in Pensiero dei giovani, 1 apr., 16 giug. e 1 ottobre 1887) ho appena bisogno di aggiungere com' io approvi in tutto l'avviso del Carboni circa il passaggio di Dante per mezzo di un angelo, e il suo risvegliarsi per l'effetto dei guai infernali. L'opinione poi del Del Noce che a spiegare questo passaggio lo suppone seguito, essendo D. svenuto, sulla stessa barca di Caronte, mi pare la piú strana di tutte. O se a questo si dovea venire, a che allora tutto quel tramenio, tremoto, vento, luce vermiglia, svenimento? Sarebbero premesse senza illazione né logica né estetica. Quello che ammetto col Del Noce (né giurerei che qualche altro comentatore già non l'avesse detto prima) si è la ironia del detto di Caronte: Per altre vie, per altri porti Verrai a piaggia..., quando si sa che altre vie, altri porti non ci sono. Dal che però egli non si è curato di cavare tutto il costrutto possibile, omettendo di osservare come tale ironia si convertisse senza volerlo in buon augurio, venendo appunto a profetizzar quasi a D. il suo trasporto sul piú lieve navicello e dal ben augurato porto di Ostia. Ciò ben avverte il Fornaciari; ma sia detto con reverenza verso l'illustre uomo, egli ha poi il torto di supporre un tale augurio, in Caronte, intenzionale, anziché del tutto inconsapevole. In bocca di un diavolo sarebbe cortesia troppo spinta. Egli tenta pure oppugnare il Carboni là dove nota la somiglianza dei fenomeni che accompagnano l'intervento di un celeste messaggero nei c. III e IX, in entrambi i luoghi entrando il terremoto, che, come si sa, gli antichi credevano prodotto per vento che in terra si nasconda; e lo fa osservando che al c. III c'è il vento e al IX no, non potendo il vento del c. III essere una cosa col terremoto, giacché esso è accennato dopo che già si è accennato al terremoto, ciò che prova essere due fenomeni diversi. E sia pure; ma quello che il Carboni mi par che sostenga, e non saprei dargli torto, si è che il vento Che balenò una luce vermiglia al c. III, non è già il vento Impetuoso per gli avversi ardori, il vento insomma quale lo intendiamo noi oggidí, bensí è il medesimo vento che dopo avere agitato la terra e prodotto il terremoto, trovando un adito, se ne scappa fuori con un bagliore: ciò che lascia credere aver D. intuito quasi nei terremoti una causa elettrica comune coi temporali, quali egli pur descrive in quella terzina dell'VIII, 22, di Par.: Di fredda nube non disceser venti, O visibili o no, tanto festini, ecc. Mi consolo però vedendo che il Fornaciari in conclusione non insiste piú tanto nella sua idea del tuono udito in sogno, ch' egli contrappose una volta a quella del Puccianti (anzi del Bargigi), del tuono che tien dietro al baleno. Ma egli dà ora la cosa per disperata; il che io veramente non crederei. Senza ricorrere (per non contraddirmi) ad altra novità che or mi si gira pel capo, per cui il tuono sarebbe dovuto al partire de l'angelo, come il tremuoto al suo apparire, a me pare anche qui che l'aver voluto abbandonare il comento per cosí dire tradizionale abbia recato tenebre e confusione là dove tutto prima andava liscio e piano come un olio. Non come un olio propriamente, giacché allora non sarebbe venuta la smania del cambiamento; ma a qualche cosa si sa che bisogna pur sorpassare; non si può pretendere da un poeta che nelle sue invenzioni tutto corra come una dimostrazione geometrica; e ciò tanto piú in un poema, del quale non vi ha forse altro piú complesso, come la divina Commedia. Cosa accade il più delle volte? Che per evitare una piccola difficoltà che presenta una vecchia interpretazione, per non voler confessare un difetto, una oscurità del poeta, si va a pescare una interpetrazione nuova, che avrà tutti i pregi di questo mondo, ma a cui nessuno leva il peccato originale di far subito esclamare al lettore non letterato: Povero Dante, quante gliene fanno dire! Nello stesso caso credo che sia l'altro luogo tanto dibattuto Chi per lungo silenzio parea fioco, del quale si occupa pure senza però pronunziarsi apertamente, il Fiammazzo a proposito di un opuscolo di A. Mazzoleni: ma avendo già avuto occasione di discorrerne in un precedente numero del Giornale, credo bene di risparmiare ai lettori un bis in idem probabilmente non richiesto. Roma, settembre 1894. FERDINANDO RONCHETTI, BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Alighieri Dante. La divine Comédie: traduction libre par Max Durand-Fardel. Paris, Plon et Nourrit, 1894, in-18o, di pagg. xxxv-307. (362) Tutte le opere nuovamente rivedute nel testo da dr. E. Moore. Oxford, nella stamperia dell'Università (Londra, E. Frowde, edit.), 1894, in-16o, di pagg. x11-491. Accoglie tutte le opere di Dante, anche quelle tenute generalmente per apocrife: la Quaestio de aqua et terra, tutte le rime, tutte le epistole (eccetto quella volgare a Guido da Polenta), il Credo e i sette Salmi. Il testo della Vita nova e del trattato di Monarchia son riprodotti, quasi letteralmente, delle edizioni wittiane, la Quaestio, le Epistole e i poemi minori dal testo del Fraticelli. Per la Volgare eloquenza il Moore si serve anche del codice di Grenoble, recentemente riprodotto in facsimile dal dott. Prompt. Il testo del Canzoniere, in questa nuova edizione, è virtualmente quello fraticelliano, con leggere modificazioni del Powell: il testo del Convivio è fondato sopra i due codici che sono in Inghilterra, uno presso il Moore, uno nella Bodleiana di Oxford, sulle notizie delle lezioni di parecchi altri codici somministrate in piú luoghi controversi dalle edizioni anteriori, e specie da quelle del Fraticelli e del Giuliani, e sulle Centuriae correctionum wittiane, ecc. Per la Commedia il Moore si serve generalmente dell'edizione del Witte, megliorata sulla scorta dei più importanti lavori che sul testo sono stati fatti in questi ultimi tempi. Fra questi, l'editore si vale largamente delle lezioni raccolte nel suo recente lavoro intitolato Textual Criticism of the divina Commedia e di molte altre da lui messe insieme dopo la publicazione di quell'opera pregievolissima. L'indice del volume è stato compilato dal sig. Paget Toynbee. (363) Barbi Michele. Il trattatello sull'origine di Firenze di Giambattista Gelli. Firenze, tip. Carnesecchi, 1894, in-4o, di pagg. 13. Del trattatello del Gelli sull' origine di Firenze si aveva notizia solo per testimonianze del Giambullari e del Borghini. Il libretto divenne cosí raro, e in cosí breve tempo, che quarant' anni dopo la sua publicazione non era più possibile di trovarne una copia. Ora il Barbi ha trovata e riconosciuta l'operetta del Gelli nella Magliabechiana, dove il trattatello si ritrova manoscritto nel codice XXV, 25. (364) Bencivenni Ildebrando. แ Dentro dalla muda„: studio dantesco, Catania, Niccolò Giannotta, editore, (tip. di Lorenzo Rizzo,) 1894, in-16°, di pagg. 221. Intorno al verso: Poscia più che il dolor poté il digiuno, che l'autore intende: vinto dalla fame addentai le carni dei figlioli... (365) Bonci Francesco. - Antonio Cesari precursore degli irredentisti. Pesaro, prem. stab. tipo-lit. Federici, 1893, in-16° picc., di pagg. 84. Contiene: I. Il Cesari precursore degl' irredentisti per tre orazioni contro agli stranieri. II. Il Cesari precursore degl' irredentisti per la diffusione delle sue opere letterarie e della lingua italiana in terre di confine. III. Il Cesari precursore delle società Dante Allighieri. (I sodalizi Dante Allighieri; Dante nella Deutsche Rundschau; Dante e il Cesari; Verona e Dante; Verona, Dante e il Cesari; Le Bellezze della divina Commedia; I commentatori di Dante; Estetica antica e metodo moderno; Andrea Scartazzini; Francesco De Sanctis; Adolfo Bartoli). III. Papa Leone XII rifiuta la dedica delle Bellezze di Dante fattagli dal Cesari. IV. Il Cesari precursore degl' irredentisti in morte e dopo morte. (366) Buscaino-Campo Alberto. 1894, in-8°, di pagg. 12. Son quattro brevi note: una ancora sul piè fermo contro le interpretazioni del Taverna, dell'Andreoli, del Caverni e di Ildebrando della Giovanna; la seconda sul corto andare del bel monte (Giorn. dant., II, 8); la terza sul verso 138 del IX di Paradiso, che l'autore vorrebbe leggere Lá dove Gabriello appresse (invece di aperse) l'ali; l'ultima sul 37 del I d'Inferno, e qui con un esempio biblico (venne la mattina, ch'era ancor buio del vangelo di Giovanni, XX, 1) conforta la sua interpretazione (Studi danteschi, 106): che dal principio del mattino, quando Dante uscí dalla selva, al momento in cui egli si trovava a contrasto colla lonza sull'erta, era trascorso tanto tempo, che il sole, mostrato glisi da prima col semplice saettare de' raggi dietro la vetta del colle, ora montava in su non dall' emisfero inferiore al superiore, come altri intende, ma per gli aperti campi del cielo, dirigendosi col suo natural corso verso il meriggio. (367) Giunta agli studi danteschi. Trapani, tip. fratelli Messina e c., Cali Carmelo. Per la biografia di Celestino V. (In Bollettino della Società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi. An. VI, fasc. 11-12). Di due nuove biografie di Celestino contenute una nel codice Marciano cl. V, 68 del secolo XV, l'altra nell'archivio Sorricchio di Atri. (368) Campani Annibale. Giuseppe Mazzini e l'edizione foscoliana della divina Commedia. (In Natura ed arte. An. III, n. 8). Publica dodici lettere del Mazzini a Pietro Rolandi, che si conservano, fra altri autografi di insigni patrioti e scrittori, nel Museo civico di Varallo-Sesia. Da queste lettere, che non hanno data, ma che il Cappelli tiene scritte tra il 1841 e il 1842, si raccoglie quanto al tenace apostolo della libertà, pure in mezzo alle molteplici e ponderose cure politiche, stesse a cuore la buona riuscita della edizione foscoliana della divina Commedia, edizione della quale il Mazzini era stato promotore e che, nella mente di lui, doveva onorare cosí l'antico come il moderno poeta. (369) Cardo Giulio. Dell'arte della lana in Cologna veneta: controversia dantesca. Novara, tip. Miglio, 1894, in-24o, di pagg. 15. Vuol provare che Dante nel verso 63 del XXIII d' Inferno allude a Cologna veronese, dove al tempo dell' Alighieri fioriva l'industria de' tessuti di lana. (370) Castorina Pasquale. La Madonna di Dante, studio critico del sac. Salvatore Romeo: osservazioni critiche. Catania, tip. di G. Pastore, 1893, in-8°, di pagg. 8. Sono otto pagine di contumelie contro l'opuscolo su La madonna di Dante del sacerdote Romeo, "censurabile,,, al dire del Castorina, "e nel titolo, e nella dedica, e in tutto il contesto, essendo scritto da un sacerdote che vorrebbe, senza avere ancora imparato il nosce te ipsum, insegnare altrui il distillato della divina Commedia. Cfr. no. 190. (371) Celestino V ed il VI centenario della sua incoronazione: prima pubblicazione straordinaria del "Bollettino della società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi. „ Aquila, tip. di Giuseppe Mele, 1894, in-8°, di pagg. VII-512. Contiene: I. I. Ludovisi: Giudizio comparativo delle migliori biografie di P. Celestino scritte dal secolo XIII al XIX. II. N. Jorio: Il contado di Molise nel secolo XIII ed i primi anni di vita di Pietro d'Isernia. III. A. Cortelli Pietro d' Isernia negli eremi del Morrone e della Maiella. IV. C. Pietropaoli: Il conclave di Perugia e l'elezione di Pier Celestino. V. E. Casti: L'Aquila degli Abruzzi ed il pontificato di Celestino V. VI. A. Roviglio: La rinuncia di Celestino V. (Cfr. il n. 191 di questo Bollettino). VII. F. Visca: Lo storico castello di Fumone e gli ultimi giorni di Celestino V. VIII. C. Borromeo: Avignone e la canonizzazione di Pier Celestino. IX. G. Vittori: Cenni biografici de' cardinali eletti da Celestino V. X. C. Carbone: Gli opuscoli del V Celestino. XI. G. Ettorre: Sinopsi storica dell'ordine di Celestino V. XII. A. De Angeli: Jacopo Stefaneschi ed il suo Opus metricum. XIII. V. Moscondi: Il culto degli abruzzesi per s. Pietro Celestino attraverso sei secoli di storia. XIV. C. Cilleni-Nepis: Il tempio di Collemaggio. XV. I. Ludovisi : Celestino V nella mente di Buccio di Ranallo. XVI. E. Casti: Petri Celestini elogium. (372) Quattro figure dantesche nell'incoronazione di Celestino V. (In Bollettino della società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi. An. VI, fasc. 11-12). Le quattro figure sono il cardinale Caetani (poi Bonifacio VIII), Guido di Montefeltro, Carlo II lo zoppo e Carlo Martello dei quali son qui riferiti i giudizi di Dante nella divina Commedia. (373) Cipolloni-Cannella Alfredo. -- Cipolla Francesco. Intorno al "Catone del "Purgatorio, dantesco: nota. (In Atti della r. Accademia delle scienze di Torino. Vol. XXX, disp. 2.). Dopo di aver premesso che Dante non si parte mai dal domma cattolico, e che dove non c'è niente di dommatico s' attiene ad una buona ragione teologica, e dimostrato, coll'esempio di Rifeo, come e perché un infedele possa andare in luogo di salvazione, l'autore mostra l'alto concetto che ebbero di Catone gli antichi e quello, elevatissimo, che se ne formò Dante, il quale vide in lui il perfetto seguace della virtú naturale e il tutore della libertà, per la quale incontrò una morte gloriosa per concludere che il divino Alighieri pose quel magnanimo fra i destinati all'eterna gloria, come affermò col noto verso 75 del I di Purgatorio. (374) Il messo del cielo, del canto IX dell'“Inferno. (In Atti dell'Accademia degli Agiati di Rovereto, 1894). Il messo è senza dubbio un angelo, ed anzi, perché spetta per proprio uffizio all'arcangelo Michele intervenire, quando si tratta di debellare le potenze infernali, in questo arcangelo deve scorgersi appunto colui che passa per li cerchi senza scorta. De Chiara Stanislao. Cfr. no. 416. Cfr. no. 404. - (375) Dante e la Calabria: studio. Cosenza, tipo-litografia L. Aprea, libraioeditore, 1894, in-16o, di pagg. 216. Sommario: Introduzione. (Il primo calabrese che si occupò di Dante, se ne togli qualche fuggevole accenno del Quattromani, fu G. V. Gravina, vero restauratore non pure in Calabria ma in Italia del culto di Dante, prima che il divino poeta fosse stato difeso dal Gozzi e studiato dal Varano e dal Monti. Dal tempo del Gravina fino al 1840 l'autore non trova alcun calabrese che abbia scritto di Dante, se ne togli un Discorso del Giannone (Napoli, Gentile, 1830) un cenno su La divina Commedia col comento di G. Biagioli, publicato dall' abate Salfi nella Revue encyclopédique di Parigi nel 1819, e alcuni versi e prose con cui Giovanna De Nobili incitava i suoi concittadini di Catanzaro allo studio del poeta. Ma intorno al 1840 fiorí un bel gruppo di scrittori calabresi che dall'Alighieri trassero ispirazione e conforto allo studio. Già nel 1835 il Settembrini dalla cattedra di eloquenza nel collegio di Catanzaro insegnava e cospirava; e con lo studio del poema dantesco accendeva l'animo de' giovini calabresi a egregie cose: e nel 1840 il Mauro publicava un volumetto sulle Allegorie e bellezze della divina Commedia che preludeva a un'opera di maggior consistenza. Nel 1845 poi, Vincenzo Gallo, il chitarraro di Rogliano, iniziava nel Pitagora di Scigliano quella maravigliosa serie di traduzioni dell' Inferno, che è rimasta disgraziatamente incompiuta; e L. A. Forleo dava a luce, nello stesso periodico, un suo studio sul XXXIII dell' Inferno mentre Onofrio Simonetti publicava un dotto volume sulla Filosofia di Dante contenuta nella divina Commedia. Due anni piú tardi Luigi Gal |