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Buscaino-Campo Alberto. 1894, in-8°, di pagg. 12. Son quattro brevi note: una ancora sul piè fermo contro le interpretazioni del Taverna, dell'Andreoli, del Caverni e di Ildebrando della Giovanna; la seconda sul corto andare del bel monte (Giorn. dant., II, 8); la terza sul verso 138 del IX di Paradiso, che l'autore vorrebbe leggere Lá dove Gabriello appresse (invece di aperse) l'ali; l'ultima sul 37 del I d'Inferno, e qui con un esempio biblico (venne la mattina, ch'era ancor buio del vangelo di Giovanni, XX, 1) conforta la sua interpretazione (Studi danteschi, 106): che dal principio del mattino, quando Dante uscí dalla selva, al momento in cui egli si trovava a contrasto colla lonza sull'erta, era trascorso tanto tempo, che il sole, mostrato glisi da prima col semplice saettare de' raggi dietro la vetta del colle, ora montava in su non dall' emisfero inferiore al superiore, come altri intende, ma per gli aperti campi del cielo, dirigendosi col suo natural corso verso il meriggio. (367)

Giunta agli studi danteschi. Trapani, tip. fratelli Messina e c.,

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Cali Carmelo. Per la biografia di Celestino V. (In Bollettino della Società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi, An. VI, fasc. 11-12).

Di due nuove biografie di Celestino contenute una nel codice Marciano cl. V, 68 del secolo XV, l'altra nell'archivio Sorricchio di Atri. (368)

Campani Annibale.

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Giuseppe Mazzini e l'edizione foscoliana della divina Commedia. (In Natura ed arte. An. III, n. 8). Publica dodici lettere del Mazzini a Pietro Rolandi, che si conservano, fra altri autografi di insigni patrioti e scrittori, nel Museo civico di Varallo-Sesia. Da queste lettere, che non hanno data, ma che il Cappelli tiene scritte tra il 1841 e il 1842, si raccoglie quanto al tenace apostolo della libertà, pure in mezzo alle molteplici e ponderose cure politiche, stesse a cuore la buona riuscita della edizione foscoliana della divina Commedia, edizione della quale il Mazzini era stato promotore e che, nella mente di lui, doveva onorare cosí l'antico come il moderno poeta. (369)

Cardo Giulio.

Dell'arte della lana in Cologna veneta: controversia dantesca. Novara, tip. Miglio, 1894, in-24°, di pagg. 15.

Vuol provare che Dante nel verso 63 del XXIII d' Inferno allude a Cologna veronese, dove al tempo dell' Alighieri fioriva l'industria de' tessuti di lana. (370)

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Castorina Pasquale. La Madonna di Dante, studio critico del sac. Salvatore Romeo: osservazioni critiche. Catania, tip. di G. Pastore, 1893, in-8°, di pagg. 8.

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Sono otto pagine di contumelie contro l'opuscolo su La madonna di Dante del sacerdote Romeo, "censurabile al dire del Castorina, “e nel titolo, e nella dedica, e in tutto il contesto, essendo scritto da un sacerdote che vorrebbe, senza avere ancora imparato il nosce te ipsum, insegnare altrui il distillato della divina Commedia. Cfr. no. 190. (371) Celestino V ed il VI centenario della sua incoronazione: prima pubblicazione straordinaria del "Bollettino della società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi. „, Aquila, tip. di Giuseppe Mele, 1894, in-8°, di pagg. VII-512.

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Contiene: I. I. Ludovisi: Giudizio comparativo delle migliori biografie di P. Celestino scritte dal secolo XIII al XIX. II. N. Jorio: Il contado di Molise nel secolo XIII ed i primi anni di vita di Pietro d'Isernia. III. A. Cortelli: Pietro d' Isernia negli eremi del Morrone e della Maiella. IV. C. Pietropaoli: Il conclave di Perugia e l'elezione di Pier Celestino. V. E. Casti: L'Aquila degli Abruzzi ed il pontificato di Celestino V. VI. A. Roviglio: La rinuncia di Celestino V. (Cfr. il n. 191 di questo Bollettino). VII. F. Visca: Lo storico castello di Fumone e gli ultimi giorni di Celestino V. VIII. C. Borromeo: Avignone e la canonizzazione di Pier Celestino. IX. G. Vittori: Cenni biografici de' cardinali eletti da Celestino V. X. C. Carbone:

Gli opuscoli del V Celestino. XI. G. Ettorre: Sinopsi storica dell'ordine di Celestino V. XII. Ą. De Angeli: Jacopo Stefaneschi ed il suo Opus metricum. XIII. V. Moscondi: Il culto degli abruzzesi per s. Pietro Celestino attraverso sei secoli di storia. XIV. C. Cilleni-Nepis: Il tempio di Collemaggio. XV. I. Ludovisi: Celestino V nella mente di Buccio di Ranallo. XVI. E. Casti: Petri Celestini elogium. (372)

Cipolloni-Cannella Alfredo.

Quattro figure dantesche nell'incoronazione di Celestino V. (In Bollettino della società di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi. An. VI, fasc. 11-12). Le quattro figure sono il cardinale Caetani (poi Bonifacio VIII), Guido di Montefeltro, Carlo II lo zoppo e Carlo Martello dei quali son qui riferiti i giudizi di Dante nella divina Commedia. (373)

Cipolla Francesco.

Intorno al "Catone del "Purgatorio, dantesco: nota. (In Atti della r.

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Accademia delle scienze di Torino. Vol. XXX, disp. 2.).

Dopo di aver premesso che Dante non si parte mai dal domma cattolico, e che dove non c'è niente di dommatico s'attiene ad una buona ragione teologica, e dimostrato, coll'esempio di Rifeo, come e perché un infedele possa andare in luogo di salvazione, l'autore mostra l'alto concetto che ebbero di Catone gli antichi e quello, elevatissimo, che se ne formò Dante, il quale vide in lui il perfetto seguace della virtú naturale e il tutore della libertà, per la quale incontrò una morte gloriosa per concludere che il divino Alighieri pose quel magnanimo fra

i destinati all'eterna gloria, come affermò col noto verso 75 del I di Purgatorio.

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(374)

Il messo del cielo, del canto IX dell'“Inferno.„ (In Atti dell'Accademia degli Agiati di Rovereto, 1894).

Il messo è senza dubbio un angelo, ed anzi, perché spetta per proprio uffizio all'arcangelo Michele intervenire, quando si tratta di debellare le potenze infernali, in questo arcangelo deve scorgersi appunto colui che passa per li cerchi senza scorta. (375)

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De Chiara Stanislao.

Dante e la Calabria: studio. Cosenza, tipo-litografia L. Aprea, libraioeditore, 1894, in-16o, di pagg. 216.

Sommario: Introduzione. (Il primo calabrese che si occupò di Dante, se ne togli qualche fuggevole accenno del Quattromani, fu G. V. Gravina, vero restauratore non pure in Calabria ma in Italia del culto di Dante, prima che il divino poeta fosse stato difeso dal Gozzi e studiato dal Varano e dal Monti. Dal tempo del Gravina fino al 1840 l'autore non trova alcun calabrese che abbia scritto di Dante, se ne togli un Discorso del Giannone (Napoli, Gentile, 1830) un cenno su La divina Commedia col comento di G. Biagioli, publicato dall' abate Salfi nella Revue encyclopédique di Parigi nel 1819, e alcuni versi e prose con cui Giovanna De Nobili incitava i suoi concittadini di Catanzaro allo studio del poeta. Ma intorno al 1840 fiorí un bel gruppo di scrittori calabresi che dall'Alighieri trassero ispirazione e conforto allo studio. Già nel 1835 il Settembrini dalla cattedra di eloquenza nel collegio di Catanzaro insegnava e cospirava; e con lo studio del poema dantesco accendeva l'animo de' giovini calabresi a egregie cose: e nel 1840 il Mauro publicava un volumetto sulle Allegorie e bellezze della divina Commedia che preludeva a un'opera di maggior consistenza. Nel 1845 poi, Vincenzo Gallo, il chitarraro di Rogliano, iniziava nel Pitagora di Scigliano quella maravigliosa serie di traduzioni dell' Inferno, che è rimasta disgraziatamente incompiuta; e L. A. Forleo dava a luce, nello stesso periodico, un suo studio sul XXXIII dell' Inferno mentre Onofrio Simonetti publicava un dotto volume sulla Filosofia di Dante contenuta nella divina Commedia. Due anni più tardi Luigi Gal

lucci traduceva nel dialetto del suo paese il canto del conte Ugolino e Giuseppe Marzano dava a luce un cenno sul libro del Simonetti non privo di nuove e acute osservazioni. Dopo il 1848 abbiamo una nuova ecclissi, e bisogna arrivare al 1860 per avere una nuova fiorita di scritti danteschi. Nel 1861 Giuseppe Campagna s'inspirava a Dante per un suo poema, rimasto incompiuto, L'Abate Gioacchino; e nel 1863 Domenico Mauro dava a' torchi il suo Concetto e forma della divina Commedia. Nell'anno del centenario Ferdinando Balsano rinfrescava la memoria di Gian Vincenzo Gravina e Pio Giuseppe Caprè, Luigi Grimaldi, Lorenzo Greco e Luigi Stocchi publicavano versi e prose in onore del poeta: intanto che Francesco Fiorentino, innanzi alle tre deputazioni per la storia patria delle provincie di Emilia, ammoniva che alla gloria di Dante sarebbe scarsa ogni sorta di monumenti: e solo che sia degno dell' Alighieri è il disvelare al mondo il suo segreto, l'attuarne il pensiero, e il tradurre in opera i simboli delle cantiche divine, inaugurando un'Italia quale fu da lui vaticinata. Negli anni più vicini a noi il grande risveglio degli studi danteschi in tutto il mondo civile ha avuto anche un' eco in Calabria e parecchi lavori si son venuti man mano publicando). I. Il dialetto calabrese nella divina Commedia. (Riporta, con parecchie osservazioni e con qualche aggiunta, alcuno dei cinquantanove vocaboli calabresi notati nella Commedia dal compianto Apollo Lumini). II. I luoghi della Calabria citati da Dante. (Cotrone, Paradiso, III, 62; Cosenza, Purgatorio, III, 124; Scilla, Inferno, VII, 22). III. I personaggi calabresi rammentati da Dante. (L'abate Gioacchino, Paradiso, XII, 140-141; il pastor di Cosenza, Purgatorio III, 124) IV. Canti della divina Commedia tradotti in dialetto calabrese. (Inferno, I, trad. Francesco Toscani; III-VI, XIII e XXV, trad. Vincenzo Gallo; XXV, trad. Paolo Salione; XXXIII, trad. Luigi Gallucci). V. Opere dantesche di autori calabresi. (Volumi ed opuscoli danteschi di scrittori calabresi; discorsi, opuscoli e cenni bibliografici, articoli di giornali, recensioni; opere varie con accenni a cose dantesche; componimenti poetici e pitture, ecc., di argomento dantesco o inspirati da Dante; pitture). Documenti. (Si riferiscono a Bartolomeo Pignatelli arcivescovo di Cosenza, [1254], a Tommaso d'Agni successore del Pignatelli nella Chiesa di Cosenza, [1268] e a un Cesario Pignatelli, spogliato dei vassalli che aveva in Napoli e nei dintorni sub tirannide Manfridi. (376)

Del Balzo Carlo. Cfr. no. 400.

Del Noce G. Note dantesche: (Storni e gru. Anima fella!) bre 1894).

(In Piccola Antologia, 9 decem

Nella prima nota avvisa che le anime del secondo cerchio che girano a schiera larga e piena come gli storni, siano i libidinosi; e quelle che girano in lunga riga come le gru, gli innamorati, morti per causa di amore, e noti per fama.

Nella seconda, prendendo le mosse dalla spiegazione che Settimio Cipolla avea dato alla esclamazione di Flegias: Or se' giunta anima fella (Inf., VIII, 18): Finalmente t'ò colta, mostra preferire l'altra: Finalmente sei arrivata dove sconterai la pena. (377)

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Giovan Gasparo degli Orelli e le lettere italiane. Zurigo, Zürcher e Furer,

Tra le altre opere dell'Orelli, l'autore accenna allo studio sulla poesia italiana prima di Dante, alla vita di Dante (anno 1820-"22) e alla edizione delle Egloghe (1839). (378)

D'Ovidio Francesco. Della topografia morale dell'“Inferno, dantesco a proposito di una recente pubblicazione. (In Nuova Antologia. Anno XXIX, terza serie, vol. LIII, fasc. XVIII). Fino alla città di Dite se si tolgon gli ignavi dell'Antinferno e gli abitatori del Limbo non si trovan puniti se non peccati mortali, e soli cinque di essi: lussuria, gola, avarizia, ira, accidia: ma passata quella porta, ci si trova dinanzi ad una nuova casuistica penale. Quivi non si fa parola dell'invidia e della superbia: e vengono, invece, in campo l'eresia, la violenza, la frode semplice, il tradimento. Il fatto in apparenza strano dovea dare incentivo alle supposi

zioni e a' ragionamenti teologici e filosofici degli studiosi. Alcuni si son visti come in dovere di far un po' di largo ai superbi ed agli invidi nei cerchi anteriori alla città di Dite. Ma se fuori della detta città avesse Dante di già spesi tutti e sette i peccati mortali, come avrebbe poi potuto continuare con nuove categorie di dannati senza offendere gli insegnamenti della Chiesa? Or dunque, perché superbia ed invidia sono, per Dante e per la Chiesa, i peggiori e i capostipiti dei sette peccati mortali, e che di fatto nel Purgatorio occupano le due cornici piú basse, non posson mancare nell' Inferno, non resta che di metterli nella città di Dite, l'inferno dell'inferno. Lo Scherillo (in Nuova Antol. del 1o e del 16 di novembre 1888) con fina e dotta industria fiutò nel cerchio dei traditori la quintessenza della superbia e dell' invidia insieme: ma anche la sua ipotesi urta contro la mancanza d'una categorica menzione de' due peccati; e contro la supposizione eterodossa che, se non tutti i quattro cerchi di Dite, i tre primi di essi siano fuori dei peccati capitali, e vi si puniscano colpe soprannumerarie non riducibili né radducibili ai sette o a qualcun dei sette. Sicché, in fin de' conti, a una sola possibilità siam ridotti: che in tutta la città di Dite siano puniti, sotto forme derivate, i due peccati ultimi. Giovandosi del loro carattere fondamentale e germinativo, Dante ne fa come un complesso peccaminoso, ed applicandovi un nuovo criterio di classificazione e di suddivisione, sminuzza quel complesso e lo dirama in tante specialità. Senza presentar di fronte e nominativamente i due peccati che sono piú proprî di Lucifero, se li è tenuti in serbo per la città di Dite, e quivi li ha fusi, diluiti, stemperati in quella mirabile suddivisione del peggiore inferno e delle sue parti. Nella penombra in cui ivi restano penetrano dappertutto, e meglio che in ogni altro luogo traspaiono, come ben dice lo Scherillo, dal ghiaccio di Cocito. Ma costituiscono il sostrato ideale, più o men recondito, di tutte le malizie degli ultimi quattro cerchi. Il che non fu senza malizia dell'artista. Invece di attenersi sino in fondo alla sintetica classificazione criminale della Chiesa, che gli sarebbe riuscita troppo conforme e troppo monotonamente parallela alla cantica seconda, a dato punto Dante muta maniera, e mentre i cerchietti si van di mano in mano restringendo, egli s'attacca alla classificazione etica di Aristotele e ne cava una sua inaspettata suddivisione minutamente analitica, costruendosi cosí il teatro per una successione interminabile di spettacoli varî e strazianti, per una mostra maravigliosamente vivace, di tanti nuovi tormenti e tormentati, mascherando in modo assai abile il passaggio, un po' brusco, da l'uno a l'altro metodo crimi

un

nale. La tela dell' Inferno rassomiglia ad un nastro che, svoltosi intero per cinque palmi, è da ultimo sfioccato in diciotto pèneri o frangie. A non tenersi stretto al settemplice colore dell'iride criminale ecclesiastico, Dante ebbe certo, anche fuor dei motivi schiettamente estetici, ottimi pretesti d'indole storica e filosofica: ché l'inferno, preesistente al cristianesimo, era cosa già nota ai pagani, e benissimo gli si affaceva una spartizione non meno filosofica che teologica, non men desunta dalla morale classica che dal catechismo cattolico. Per concludere, tra l'inferno e il purgatorio dantesco v'è giusta conformità di schemi e insieme disuguaglianze cosí naturali come deliberatamente cercate. Lussuria, gola, avarizia con prodigalità sono nei cerchi piú alti di entrambi i regni; in entrambi accidia e ira stanno prossime, ma sol nell' inferno addirittura appaiate e di piú considerate come due specie d'incontinenza; in entrambi l'invidia e la superbia sono al fondo, ma sol nell'inferno son fuse e disciolte e poi ridivise in due specificazioni piú etiche che teologiche, cioè bestialità e malizia, che poi servon d'addentellato a un'ulteriore suddivisione. Nella parte dunque piú diabolica e piú pagana d'inferno trionfa veramente la dottrina di Aristotele e qualche sua propaggine ciceroniana. Se non che non solo lo sviluppo e l'applicazione analitica che Dante ne fa è assai libera e tirata a una gran precisione originale e poetica, ma la stessa illustrazione teorica dà luogo a piú di un dubbio. È ben chiaro soltanto che delle tre categorie aristoteliche: incontinenza, malizia, bestialità, l'incontinenza è tutta e sola al di qua di Dite; ma entro Dite come si distribuiscono le altre due? Degli eresiarchi (primo cerchio di Dite) che certo incontinenti non sono, tuttoché lor vengano appresso, il poeta non dice se siano maliziosi o bestiali: ci sorvola su, senza curiosità. Ma pure sugli abitanti dei tre cerchietti la lezione di Vergilio ha un fondamento non iscevro di equivoco. D'ogni malizia, si dice da prima, il fine è l'ingiuria, e l'ingiuria si fa o con forza o con frode; quindi i violenti nel settimo, i frodolenti nel cerchio ottavo e nell' ultimo. Ma, avremmo a concludere, se cosí la forza come la frode non son che suddivisioni della sola malizia, e

se con esse l'inferno è bell' e finito, perché poi sessanta versi piú sotto si distingue, come una terza disposizione al peccato, la bestialità? La sola interpretazione ragionevole del difficile passo è quella che in gran parte si deve al regale acume di Giovanni di Sassonia, quantunque alla sua voce molti altri interpreti sian rimasti sordi o ribellanti. La malizia dev'esser davvero nell'un verso in senso generico, nell' altro in senso tecnico. La violenza corrisponde alla bestialità, secondo Aristotele la specifica; che vi ascrive pure la crudeltà tirannica e la sodomía, due delle piú caratteristiche colpe del settimo cerchio. La vera malizia è giusto la frode, e quel che Dante dice della frode, cioè come sia il peggior dei peccati perché è tutto proprio dell' uomo, non comune all'animale, non è che la sintesi di quanto Aristotele scrive della malizia. A ribadire codeste tre ultime conclusioni è venuto or ora il prof. Fraccaroli, la cui argomentazione è sottile. Egli torna, in fondo in fondo, a quella del Todeschini, per il quale l'antinferno, il limbo, il sesto cerchio, ospitano i manchevoli di virtù teologali; i manchevoli di carità l'antinferno, di fede il limbo di speranza il cerchio sesto. Certo, il silenzio del poeta non può ascriversi a distrazione, e qualche sottinteso o secondo fine qui ci deve essere. Se la classificazione fosse data in uno dei primi cerchi non avrebbe potuto schivare di catalogare il sesto: data sull'orlo del settimo, il discorso si concentra sui tre ultimi e solo sotto forma di quesito vi si considerano poi i primi cinque. Cosí quel di mezzo ha potuto essere pretermesso senza scandalo. Ma perché questo sotterfugio? perché mentre Dante chiede della collocazione degli usurai non domanda al maestro notizie anche di quella degli eresiarchi? Il Fraccaroli insinua con molto riserbo che forse a Dante parve difficile dichiarare senza odiosità che gli eresiarchi non fossero i peccatori più neri. Ma in un poeta cosí coraggioso e baldo, e che della sua ortodossia veniva dando cosí cospicue prove, e che, in fine, metteva gli eretici in uno stato tutt'altro che delizioso, un timore tale non è verosimile. Bisogna concludere che il cerchio degli eretici è uno dei passi piú scabros: per chi si fa a studiare l'ordinamento criminale dell'inferno dantesco; che la disinvoltura con cui il poeta lo sottintende apre l'adito a congetture diverse; ma che insieme, per non peccare noi di troppa disinvoltura col supporre una soluzione di continuità nella scala dantesca dei peccati, bisogna forse riconoscere negli eretici un primo grado di lor malizia, e alla vaga analogia coi perduti del limbo non dare almeno troppa precisione di contorni e di colorito.

(379) Diemand Anton. Das Ceremoniell der Kaiserkrönungen von Otto I bis Friedrich II. München, H. Lüneburg, 1894, in-8°, di pagg. 151. (380)

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Ferri Luigi.

Il misticismo in una recente vita di s. Francesco d'Assisi. (In Fanfulla della domenica. Anno XVI, n. 41).

Recensione del libro del Sabatier.

(381)

Favorevole, con osservazioni.

Fiammazzo Antonio. Il codice dantesco della Biblioteca di Bergamo, illustrato. dalla tip. di G. B. Doretti, 1894, in-8°, di pagg. 67.

In Udine,

Indice: Descrizione ed esame del testo. Bibliografia. Varianti dalla lezione di Carlo Witte (Berlino, 1862). Appendici: Varianti alle frasi del commento ed alle didascalie del codice di Bergamo desunte dagli italiani 538 e 79 e lat. 8701 della Bibliothèque Nationale di Parigi: Principali differenze fra i versi del testo e le frasi del commento. (382)

Filomusi-Guelfi Lorenzo.

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"Colui, che dimostra a Dante "il primo amore di tutte le sustanzie sempiterne„ (“Par. „ XXVI, 38 e 39). Verona, Donato Tedeschi e figlio, editori (Stab. G. Civelli), 1893, in-16o picc., di pagg. 13.

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