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E dovrò pur fare un'osservazione, che non ho trovato in altri, che cioè delle cinque opinioni che ho esposte sopra, soltanto quella del Tommasèo e del Poletto e quella del Macrì-Leone ammettono che i dannati, gridando la morte seconda, non esprimano un desiderio; tutte le altre vogliono che i dannati invochino da Dio qualche cosa, che a torto o a ragione essi desiderano. Se così fosse, in tutta la prima cantica da nessuno spirito verrebbe mostrato un tale desiderio, mentre son pur tanti i desideri, che gli spiriti manifestano al poeta.

Ammessa la seconda morte per l'eterna dannazione, c'è chi ha creduto che la prima sia la vita nel peccato. Ed a questo proposito è stato citato Dante stesso, che nel Convivio dice: « Veramente morto il malvagio uomo dire si può »; e S. Tommaso, che nella Summa (22, 9) scrive: « Primi parentes senescendo incœperunt mori prima die, qua peccaverunt ». Ciò potrebbe essere. Ma, se ben si consideri, queste espressioni di Dante e di S. Tommaso sono piuttosto per estensione di significato che proprie. Invece nella Commedia, se non erro, Dante non ha mai usato un linguaggio simile, ma ha inteso sempre parlare delle due morti vere, la prima del corpo, la seconda dello spirito. La quale ultima dunque non è l'annichilamento, ma il dolore eterno. Anzi a me pare che si possa dir questo: che Dante immagina nel mondo di là una vita ed una morte, come una vita ed una morte sono nel mondo. nostro. Ma per noi la vita è un passaggio su questa terra, è, cioè, un correre alla morte (Purg., XXXIII, 54), e la morte poi è un attimo, è, cioè, la sola dissoluzione della vita animale, come dice S. Paolino; per il mondo di là invece sì la vita che la morte sono eterne. La vita eterna è dei beati e la morte eterna è dei dannati. Ora la morte eterna, essendo uno stato che continua, diventa necessariamente perfetto sinonimo di vita infernale.

Delle due vite nella Commedia sono frequenti accenni. A Nino Visconti, che domanda al poeta:

egli risponde:

Quant'è che tu venisti

a piè del monte per le lontan acque? (Purg., VIII, 56-57),

.. Per entro i lochi tristi

venni stamane, e sono in prima vita,

ancor che l'altra si andando si acquisti (ivi, 58-60).

Adriano V (Purg., XIX, 109-111), dopo aver manifestata la sua ambizione di salire in alto, nel nostro mondo, esclama :

1

Vidi che lì non si quetava il core,

nè più salir poteasi in quella vita,

perchè di questa in me s'accese amore.

Innanzi agli avari ed ai prodighi abbiam visto che Virgilio dice a Dante:

Tutti quanti fur guerci

sì della mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.

E questa vita primaia, o vita terrena, mentre nell' Inferno è chiamata lieta (XIX, 102), bella (XV, 5), serena (VI, 51; XV, 49); nel Purgatorio, invece, è detta un correre verso la morte; rispetto alla vita migliore, che è quella del purgatorio stesso (Purg., XXIII, 77), e alla vita dolce (Parad., XXV, 93) e intera (Parad., VII, 104), che è quella del paradiso soltanto.

Le due morti dunque, secondo me, sono in perfetta antitesi con queste due vite.

Ciò posto, non sorge più alcun dubbio che si possa attribuire il medesimo valore di morte seconda alla morte che non sperano gl'ignavi nel canto terzo dell' Inferno. È vero che il prof. Nicola Zingarelli in un suo recente articolo, pubblicato nel quaderno VI di questo periodico (1) vuole che nel canto III delInferno tanto la terzina vv. 40-42 (2) quanto l'altra vv. 46-48 si leggano in modo da intendere che Dante si riferisca a ciò che gl'ignavi fanno nel mondo e non a ciò che fanno nell'inferno; a questa conclusione io credo ch' egli sia venuto per avere accettata un pò troppo sicuramente l'interpretazione data alla seconda morte da coloro che la dicono l'annullamento dell' anima. Il prof. Zingarelli stesso non potrà non accorgersi che molta oscurità sarebbe in questo luogo del divino poema, se si dovesse pro

ma

(1) Vedi la nota a pag. 8.

(2) Egli legge questa terzina così, come leggesi anche in un buon numero di codici :

Caccianli i ciel per non esser men belli,

nè lo profondo inferno li riceve,

chè alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

Altrimenti, dice, se in luogo di càccianli si legga cacciàrli, non potremo renderci ragione del presente riceve, che vien dopo. Vedremo che non è così.

prio intendere com'egli l'intende: tanto vero che tutti i commentatori, da' primissimi agli ultimi, hanno compreso precisamente l'opposto. Nè è possibile accettare per questo luogo la comune interpretazione, ammessa anche dallo Scartazzini, che cioè (e son dello Scartazzini le parole che cito) gl' ignavi son certi che il loro misero e vile stato non avrà mai fine, perchè di ciò debbono essere certe anche tutte le altre anime dell'inferno. Lo Scartazzini stesso conviene in ciò, quando confuta l'interpretazione comune data alla seconda morte nel verso 117 del canto I, e più chiaramente ne conviene nella nota al verso 46 del III, che ha posta nella sua edizione scolastica della Commedia. Non era quindi il caso, mi pare, che Dante facesse per gl'ignavi una speciale considerazione (1).

Io vedo invece nelle terzine, nelle quali il poeta allude agl' ignavi, una serie di antitesi veramente stupende. Essi vissero senza infamia e senza lodo; e, come gli angeli, che non furono ribelli a Dio, ma neppure gli furon fedeli, per la qual cosa vennero cacciati dal paradiso, onde questo non perdesse di sua bellezza, e non sono ricevuti nel profondo inferno (2), perchè se ne vanterebbero i dannati; cosi anch'essi sono nel vestibolo, chè la Misericordia, cioè Iddio misericordioso, non li perdona, e la Giustizia, cioè Iddio giusto, non li condanna. Essi quindi non hanno neppure la speranza d'essere cacciati nel profondo inferno, in mezzo alle pene più atroci, alle pene estreme, non hanno, cioè, speranza di morte, essi, che pur sono invidiosi della sorte d'ogni altro. Tuttavia, se non patiscono le estreme pene, la loro vita è cieca egualmente, perchè priva egualmente della visione di Dio; e come per gli spiriti del limbo è pena il vivere in desio senza speme, per gl' ignavi è pena l'incertezza dello stato loro. Dice bene lo Zingarelli, Dante non esprime per queste anime nè odio, nè dispetto. Gli appellativi che usa per loro non avevano al suo tempo il significato che hanno assunto poi. Cattivo, tristo, sciagurato valevano quanto misero, me

(1) Non mi si citino i due versi a proposito dei lussuriosi:

Nulla speranza gli conforta mai

non che di posa, ma di minor pena (Inf. V, 44-45),

ne' quali la posa si riferisce più propriamente alla bufera, che trasporta questi dannati, e, in ogni modo, non indica cessazione di pena, ma semplice riposo.

(2) È giusto dunque, secondo me, la lezione cacciàrli, come è giusta la lezione riceve nella terzina vv. 40-42 del c. III. Vedi nota 2 a pag. 12.

schino, afflitto. E ci sarebbe da aggiungere che questi esseri non destano proprio per sè, come dicon tutti, un senso di fastidio. Questo senso di fastidio è prodotto dalla loro pena, che è simbolo della vita passata. Essi furon deboli nel mondo, e quindi furon vitdi malvagi e di speculatori (mosconi, vespe e fastidiosi vermi), i quali succhiarono il loro sangue, che uscì loro mescolato alle lacrime del dolore, da cui non seppero liberarsi (1).

time

tata

Ed ora, se son riuscito a persuadere che la morte rammenda Dante per gli spiriti dell'inferno, successiva alla morte che segna il fine della vita in questo mondo, debba intendersi per l'eterna dannazione, così che essa viene sempre ad avere, in ogni passo, il medesimo significato; innanzi di chiudere quest' articolo, già troppo lungo, mi piace di far notare che anche altri passi della Commedia vengono ad avere per ciò una più facile interpretazione. Innanzi tutto Dante, quando parla di morte per gli spiriti del purgatorio e del paradiso, parla sempre di morte corporale e quelli spiriti non chiama spiriti morti, ma ben finiti, ben creati, ben eletti; al contrario morti chiama gli spiriti dell' inferno, per i quali usa anche i vocaboli perduti, dannati, lasciando intendere facilmente così che questi tre appellativi erano per lui sinonimi. In secondo luogo l'epiteto di morto, che dà a tutto ciò che è infernale, sarà meglio spiegato, allorchè s'intenda per la qualità propria di tutto ciò che è eterno dolore, di tutto ciò che si può immaginare di più lontano dalla visione di Dio, che con gli aggettivi oscuro, triste, spaventevole, proposti finora dai commentatori. (Cf. scritta morta, Inf., VIII, 127; morta gora, Inf., VIII, 31; poesia morta, Purg., I, 7; aura morta, Purg., I, 17, ecc.). Inoltre nelle parole che Caronte dice a Dante:

E tu che sei costì, anima viva,

partiti da cotesti che son morti (Inf., III, 88-89),

sarà meglio intendere per morti i dannati, che i morti corporalmente. Infatti qui i morti sono le anime morte per antitesi con l'anima viva di Dante, la quale, come più sotto dirà Caronte stesso, deve giungere a piaggia per altre vie e per altri porti. Che quegli

(1) Tale interpretazione de' versi 64-69 del c. III, che non ho trovata in nessun com mento del poema, mi viene spontanea, e voglio sperare che sia bene accolta dai dantisti, per chè risponde meglio al sistema delle pene stabilito da Dante.

spiriti fossero morti corporalmente Dante sapeva da sè. Così ancora nelle parole de' demoni:

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l'espressione senza morte sarà da riferirsi alla morte del corpo, ma l'espressione morta gente indicherà senza dubbio i dannati. Infatti con lo regno della morta gente il poeta ha voluto significare l'inferno; e non si comprenderebbe ciò, se all' aggettivo morta avesse dato il valore di morte corporale; perchè in tal caso anche il purgatorio e il paradiso sono regni di gente che ha cessato di vivere per questa terra (1).

G. MARUFFI.

(1) Fra i commentatori della Commedia non è mancato chi ha voluto dar valore di morte spirituale anche alla morte che invoca Lano Sanese (Inf., XIII, 118). (Si veda specialmente: Blanc L. G., Saggio d'una interpretazione filologica della divina Commedia. Prima versione italiana di O. Occioni. Trieste, 1865, p. 15 e segg.). Ma se si ripensa che Lano Sanese, secondo il Boccaccio, cercò la morte alla Pieve del Toppo e che per il sistema delle pene infernali stabilito da Dante, il vero castigo per i dannati è nella continuazione del peccato stesso, Lano Sanese cerca nell'inferno la morte, come la cercò nel mondo nostro, e nulla più.

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