e ci uccise. Ma si può spegnere forse lo spirito, e con esso l'amore? Le anime nostre si confusero in un sol bacio; e, siccome vedi, siamo tuttora teneramente abbracciati per tutta la eternità. Lanciotto fù brutale con noi: se l'uccidere un fratello è orribile, spegnere una donna è viltà. Ei, così, disonorò la sua casa, coverta di vergogna; e quindi, sol che vi ripensi, mi sento tuttora offesa da quel barbaro modo. La bolgia di Caino o de' cainiti ora l'attende. E questo appello alla coscienza pubblica, in ultimo, è grande: è un tratto più che degno di Dante, che da sè costituivasi vindice della oltraggiata umanità. Da ch'io intesi quell' anime offense, chinai ' viso; e tanto il tenni basso, La impressione che Dante ne riceve è triste, perchè moralmente partecipa dell' offesa fatta dal marito alla sua compagna e regina; talchè resta meditabondo ed a capo chino, fino a che Virgilio così lo riscuote: Che pensi? E Dante : Quando risposi, cominciai: Oh lasso! (Ivi, 112-114). E qui, per bene intendere la mente del divino poeta e tutti que' punti ammirativi, quasi punte di pugnali addossati gli uni agli altri, fa d' uopo riprodurre per intero la cronistoria della povera Francesca, quale fu raccolta o dissepolta da quell' insigne istoriografo che fu Cesare Balbo, e contro cui mal si accampa, in certi casi, la critica storica moderna. Essa, dunque, in testimonio del vero, dice così: «Nell'oste fiorentina, all'impresa contro Arezzo, e così forse anche a quella che seguì immediatamente contro Pisa, era Bernardino da Polenta, capitano de' pistoiesi (V. Veltro, pag. 32), cognito così certamente a Dante. >> Bernardino era figliuolo di Guido da Polenta, cittadino principale, signore e tiranno di Ravenna. E figliuola pure a Guido, sorella a Bernardino, era la gentile Francesca, data dodici anni prima in isposa a Giovanni figliuol primogenito del Malatesta da Verrucchio, un potente signore guelfo, già vicario di re Carlo a Firenze, e allora podestà di Rimini. » Ma Giovanni era di que' giovani, più buoni tra uomini che tra donne; ardito ed attivo in quelle parti e quelle ambizioni, onde speravasi succe desse alla potenza paterna; ma zoppo, mal concio e mal curante della peronde chiamato Giovanni lo zoppo, Gianciotto, e Giovanni lo scian cato sembra che mai non piacesse alla fanciulla. A farlo piacere anche meno, s'aggiungeva l'aver esso un, fratello chiamato Paolo, giovane (dice Benvenuto) « bello della persona, e pulito, e più dato all'ozio, che alla fatica; » tutto l'opposto, come si vede, del fratello. Presersi quindi d'amore i due cognati, o dopo, o forse anche prima delle nozze; trovandosi narrato dal Boccaccio, essere stato mandato il bel Paolo invece dello sciancato Giovanni a corteggiare Francesca novizza, ed ignara dello scambio fino al mattino dopo le nozze compiute. » Ad ogni modo, moglie era, da dodici anni, madre già di un figliuolo perduto e di una figlia sopravvivente; era Francesca, nel 1289, col marito Gianciotto e il bel cognato e lo suocero, da due anni cacciati tutti da Rimini, a Pesaro. Ed ivi, aiutata dagli ozî dell' esilio, o incominciava o continuava la dimestichezza de' due cognati che Boccaccio sembra voler iscusare dall'ultimo fallo. Ma, rinchiusi insieme una volta, furono traditi da un servo, che condusse a spiarli il marito. Il quale, forzato l'úscio, e insieme trovandoli, insieme li ammazzò (addì 4 settembre 1289). Ed insieme poscia, restituiti in Rimini i Malatesta, furono i due corpi là riportati, insieme sepolti, insieme due secoli dopo ritrovati, intere ancora le loro seriche vesti; e insieme cantati e immortalati da Dante ». (Vita di Dante, Firenze 1853, libro I, capo VI, 1289, pag. 82-83). Dante, adunque, avea risaputo la dolente istoria di Francesca, recentissima allora, dalla bocca stessa del fratello di lei Bernardino, commilitone con lui, prima contro i ghibellini di Arezzo e poi di Pisa sotto le mura del castello di Caprona; e la impressione che ne avea ricevuto, fu di pietà: impressione che si riproduce come forma di arte. E, in altri termini, pare che il poeta dicesse così: Povera Francesca...... fu tradita da tutti, anche dal padre, che, per timore d'una repulsa da parte della figlia, avea custodito gelosamente il tranello; e fu una infamia delle più inaudite. A corte, di fatto, era apparso, non lo sciancato Giovanni: ma Paolo, il bel giovine aitante della persona, dal vestire elegante, da' modi gentili da principe; e Francesca, in buona fede, credeva di sposare il suo Paolo, fior di grazia e di cortesia. Qual maraviglia, quindi, se n' era perdutamente innamorata? E non fu che una vittima innocente, coronata di fiori d'arancio, e menata all'altare, o, meglio, al supplizio. Nè s'avvide dell'inganno, se non quando le nozze erano compiute. Qual dolore non fu il suo quando, invece di Paolo, trovossi a fianco un mostriciattolo, dalle maniere burbere, dal piglio soldatesco, tirannico? Ben ella dovette esserne desolata. Chi sa quante lagrime avrà sparso! Chi sa quante volte, vedendo Paolo, avrà sospirato in se Giornale dantesco greto! E chi sa quante volte avrà imprecato al suo destino! Così si spiegano tutti gli ammirativi di Dante. Pure la poverina, facendo di necessità virtù, avea saputo contenersi; nè mai, per ben dodici anni, ruppe fede al suo sposo e sire. Ma v'hanno momenti fatali nella vita: espulsi ì Malatesta da Rimini, si rifugiarono a Pesaro; e qui, nell' esilio, avvenne la catastrofe orrenda. Bisogna dire che qualche lampo sinistro fosse già balenato alla mente del marito, se, su le orme degli amanti, avea già messo una spia; e questa, fedele al padrone, li faceva sorprendere, mentre erano chiusi in camera. Forzato l'uscio, ne seguì la tragedia tremenda; e tuttora a Pesaro, quando ricorre quella data nefasta del 4 di settembre, i popolani dicono che in quella stanza sentonsi lamenti: tanto la fantasia, anche oggidì, si commuove a quel pietoso episodio! Ed ora, è tempo di tornare alla poesia. Poi mi rivolsi a loro, e parla' io, e cominciai: Francesca, i tuoi martìri Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri, (Ivi, 115-120). È chiaro: Dante, per rendere più poetico il suo racconto, immagina che i due cognati non si sieno innamorati prima delle nozze, ma dopo; e sia: Pictoribus atque poetis, quidlibet audendi, semper fuit aequa potestas (giusta l'antica sentenza di Orazio, sempre nuova). Ed ella a me: Nessun maggior dolore, che ricordarsi del tempo felice Ma, s' a conoscer la prima radice Del nostro amor tu hai cotanto affetto, (Ivi, 121-126). Come è bella la introduzione a questa seconda parte del racconto! A Dante, ch'è triste e commosso fino alle lagrime, Francesca risponde piangendo, o sono più lagrime che parole; sicchè la commozione cresce nell'animo di tutti e due o, meglio, di tutti e tre, dappoichè anche Paolo non fa che piangere e sospirare, quasi eco fedele della sua diletta. Ed è vero, verissimo: meglio non aver mai gustato la felicità, anzichè averne delibato appena il nappo, ed essere poi come inabissata in fondo d'ogni miseria: è infelicità a cento doppi maggiore (e ciò sa il tuo dottore, il tuo « Savio gentile », maestro ed interprete d'ogni più delicato sentimento). Ma, se tanta premura hai di conoscere la prima radice d'un amore sì miserando, farò come colui che parla e piange, nè mai sazio è di spargere lagrime amare. Noi leggevamo un giorno per diletto quella lettura, e scolorocci 'l viso: esser baciato da cotanto amante, la bocca mi baciò tutto tremante: Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante. (Ivi, 127-138) Era già avvenuta l' espulsione de' Malatesta da Rimini. Noi tutti, compreso mio suocero, ci eravamo rifugiati a Pesaro. Eravamo dunque in esilio; e quindi non paggi o valletti, nè dame di onore o di compagnìa: ci rimaneva qualche servo appena, e questi ci spiò, ci tradì. Per vincere le lunghe ore di noia, ci eravamo dati a leggere qualche romanzo; e quel giorno (4 settembre 1289) avevamo tra mani gli amori di Lancilotto (quasi omonimo di Lanciotto o di Cian Ciotto), famoso cavaliere della « Tavola rotonda », per la sua Ginevra. Eravamo soli, anzi chiusi in camera, senza neppure sospettare che dal fóro della toppa stesse un occhio vigile ad osservare ogni nostro movimento, e senza nè manco immaginare che una lettura innocente potesse menarci a conseguenza sì terribile ed inopinata. Io, che per dodici anni avea saputo dominarmi e vincere, sia per rispetto a me stessa ed a mio marito, sia per amore all'unica figlia mia e mia gioia, ben era io sicura di mia virtù, tante volte messa a cimento. e vittrice sempre. Ma a scovrire quel che gli amanti tacciono, basta uno sguardo, un sospiro, un atto qualsiasi; e leggendo scene o descrizioni d'amore, i nostri cuori, che da lungo tempo si amavano, cominciarono più fortemente ancora a palpitare. Per più fiate interrompendo la lettura, ci guardammo: eravamo tramortiti, effetto dell'ansia febbrile che ci struggeva. Era già cominciata la vertigine de' sensi: a cadere nell'errore non occorreva che una spinta; e questa fu la enfatica dipintura del bacio, in tutta l'estasi o la voluttà dell'amore. In quel punto, e fu quello che ci vinse, Paolo, che tremava come una foglia, mi si gettò fra le braccia, e su le labbra m' impresse un fervido bacio, suggendone un amoroso incanto. La volontà omai non più ci governava; ed io, ch'era come inconscia di mia fralezza, non ebbi la forza neppure di respingerlo. Mi sentiva svenire; il libro mi cadde di mano; e quel che ne seguì non saprei ridire, perchè io non intendeva più nulla, nè in che mondo mi fossi. Di chi dunque la colpa? Del libro o dell'autore. Ad un tratto, sentii spalancarsi l'uscio; e Lanciotto, armato di stocco, ci piombò furente addosso. Quel giorno più non vi leggemmo avante. Ed ecco il verso tanto torturato da' commentatori, perchè dicesse quel che Dante, a bello studio, non volle dire, quasi per coprire d'un funebre velo quell'ultimo e supremo istante. Il Giusti volle anch' egli, col suo raffinato sentimento artistico, dire all'uopo la sua opinione; ed eccone le precise parole: «Per quanto possano variare o modificarsi le interpretazioni di questo verso, dovranno pure ridursi alle tre seguenti: a 3. O che, sorpresi in quel colloquio, furono uccisi dall'offeso marito. Dopo un racconto sì commovente, se il poeta facesse dire a Francesca con quel verso, che per quel giorno il leggere fu assai, raffredderebbe nella chiusa l'affetto che spira da tutta la narrazione, perchè il lettore di-rebbe con ragione: era natural conseguenza dell' aver cominciato, il cessare, quando che fosse. >> Se invece spiegheremo: Noi, dopo il bacio, lasciata la lettura, ci abbandonammo l'uno in braccio dell' altra, si verrebbe a togliere verecondia alla donna che narra, ed a guastare le modeste intenzioni del poeta. Spiegando: Fummo sorpresi ed uccisi, l'immagine terribile della morte, rimanendo sola nel quadro, assorbirebbe le altre più gentili, più commoventi, dell' amore e di quel primo colloquio, nel quale quelle anime s' intesero». (Scritti vari, Firenze, pe' tipi successori Le Monnier, 1866, pag. 235-236). Eppure qualche cosa di vero è in tutte e tre queste opinioni, siccome risulta dalla cronistoria del Balbo, contro la quale indarno il Bartoli accampa congetture per distruggerne la veridicità. E il Buti, accettevolissimo, così ne compie la tragica dipintura. Paolo, colto flagranti crimine, tentò di fuggire e di salvarsi per una cataratta, lasciando sola, di contro al marito, la povera Francesca: in quell'istante, Paolo fu vile, o, conscio di sua reità, non ebbe il coraggio di affrontare l'ira del suo fratello e signore. Vedendolo armato, naturalmente cercò di schivare il colpo; ma essendosi una maglia del coretto che indos |