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Onde il subito desìo che in lui si desta, di parlare a que' duo. E Virgilio gli dice di. pregarli Per quell' amor, che i mena; ed ei verranno. Di fatto, come il vortice li gira dalla parte del poeta, ei così loro favella:

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Ed ecco la cara dipintura virgiliana (V. il VI libro dell' Eneide):

Quali colombe dal desio chiamate,
con l'ali aperte e ferme, al dolce nido
volan, per l'aer dal voler portate;
cotali uscir dalla schiera ov'è Dido,
a noi venendo per l'aer maligno:
sì forte fu l'affettuoso grido.

(Ivi, 82-87).

Alla voce d'amore, a quel grido affettuoso, le due anime affannate sono pari a due colombe, che, una volta appaiate, non si disgiungono mai più, e dove una va e l'aitra vola, sempre concordi in un volere. Per tal modo, il canto, che cominciava con una tinta lugubre, or prende l'espressione d'infinita dolcezza; ed è questo il vero idillio della vita, che si celebra ne' regni della morte: cosa del tutto inusitata e però nuova nel campo dell' arte.

O animal grazioso e benigno,

che visitando vai per l'aer perso

noi che tingemmo il mondo di sanguigno;

se fosse amico il re dell' universo,

noi pregheremmo lui per la tua pace,

poi ch' hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel ch'udire e che parlar vi piace
noi udiremo e parleremo a vui,

mentre che 'l vento, come fa, si tace.
(Ivi, 88-96).

Ponete mente alla prima collocazione di questa bella e grande figura

umana.

Essa è la più remota da Satana; e, quindi, conserva ancor tanto di sua gentilezza natìa, che, se la sua preghiera fosse accetta a Dio, lo pregherebbe di ridonare a Dante l'antica pace, forse per sempre perduta.

Nè sfugga un' altra considerazione. Francesca parla in plurale e dice:
Di due si è, dunque, formata un' anima sola. Francesca parla,

« Noi. »

bensì, nel suo proprio nome; ma, leggendo nell' anima di Paolo, ella può dire: << Noi. » È cosa mirabile nello stesso Inferno è già un saggio della beatitudine eterna, che dal poeta poi verrà svolta nelle altre due cantiche divine.

Eppure, per quanto io mi sappia, a tutto ciò niuno mai volse l'attenzione; talchè tutta la bellezza del canto non si è per anco rivelata agli estetici. Il soffio maligno di Satana appena arriva a quell' aer perso. Indi il fascino e la soavità, che la Francesca inspira a tutte le anime gentili. Ed com'ella stessa ci narra la sua dolente istoria:

ora,

Siede la terra, dove nata fui,

su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch' a cor gentil ratto s' apprende,

prese costui della bella persona,

che mi fu tolta, e il modo ancor m' offende.

Amor, che a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte.

Caina attende chi vita ci spense.

Queste parole da lor ci fur porte.

(Ivi, 97-108).

Parafrasiamo un po', perchè, meglio ancora, s'intenda la prima parte del racconto, ch'è tirata d'un fiato.

Ravenna, la mia patria diletta, siede, quasi regina (e bene è tale l'antica sede dell' Esarcato), su l' adriaca marina; dove per più bocche si scarica il Po (l'antico Eridano) e dove par che vada finalmente a riposare, insieme agli altri fiumi, o affluenti di destra o di sinistra, che ne seguono il corso. Chiunque da natura ha sortito squisitezza d' animo gentile, sente il bisogno di amare: è suprema necessità morale, è legge universale di natura: e, quindi, niuno farà le maraviglie se anch'io ne fui attratta, e vi sono soggiaciuta anch' io. Aggiungasi che amore è tiranno, nè perdona: quando si è amata, bisogna riamare: è dolce ricambio di affetto o di sentimento: si può lottare col dovere, ma la carne è inferma, e si cade. Qui è tutta la storia dell'anima mia: Paolo s'invaghì di me, perchè la mia persona era bella ed io la riamai, perchè mi faceva piacere l'affetto di lui, tipo di cavaliere. Ben io, per dodici anni, lottai col mio cuore; ma, se la idea di moglie mi allontanava da lui, il cuore di amante mi attraeva a lui: dissidio terribile, profondo, in cui non penetrò che l'occhio di Dio soltanto. Ful tragedia, del tutto segreta, intima: ed essa finì, come dovea, col sangue. Lanciotto, mio marito e signore, di fatto, mi colse all'improvviso con Paolo,

e ci uccise. Ma si può spegnere forse lo spirito, e con esso l'amore? Le anime nostre si confusero in un sol bacio; e, siccome vedi, siamo tuttora teneramente abbracciati per tutta la eternità. Lanciotto fù brutale con noi: se l'uccidere un fratello è orribile, spegnere una donna è viltà. Ei, così, disonorò la sua casa, coverta di vergogna; e quindi, sol che vi ripensi, mi sento tuttora offesa da quel barbaro modo. La bolgia di Caino o de' cainiti ora l'attende. E questo appello alla coscienza pubblica, in ultimo, è grande è un tratto più che degno di Dante, che da sè costituivasi vindice della oltraggiata umanità.

Da ch'io intesi quell' anime offense,

chinai ' viso; e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: Che pense?
(Ivi, 109-111).

La impressione che Dante ne riceve è triste, perchè moralmente partecipa dell' offesa fatta dal marito alla sua compagna e regina; talchè resta meditabondo ed a capo chino, fino a che Virgilio così lo riscuote: Che pensi ? E Dante:

Quando risposi, cominciai: Oh lasso!
Quanti dolci pensier, quanto disìo
menò costoro al doloroso passo!

(Ivi, 112-114).

E qui, per bene intendere la mente del divino poeta e tutti que' punti ammirativi, quasi punte di pugnali addossati gli uni agli altri, fa d' uopo riprodurre per intero la cronistoria della povera Francesca, quale fu raccolta o dissepolta da quell' insigne istoriografo che fu Cesare Balbo, e contro cui mal si accampa, in certi casi, la critica storica moderna. Essa, dunque, in testimonio del vero, dice così:

« Nell'oste fiorentina, all'impresa contro Arezzo, e così forse anche a quella che seguì immediatamente contro Pisa, era Bernardino da Polenta, capitano de' pistoiesi (V. Veltro, pag. 32), cognito così certamente a Dante.

>> Bernardino era figliuolo di Guido da Polenta, cittadino principale, signore e tiranno di Ravenna. E figliuola pure a Guido, sorella a Bernardino, era la gentile Francesca, data dodici anni prima in isposa a Giovanni figliuol primogenito del Malatesta da Verrucchio, un potente signore guelfo, già vicario di re Carlo a Firenze, e allora podestà di Rimini.

» Ma Giovanni era di que' giovani, più buoni tra uomini che tra donne; ardito ed attivo in quelle parti e quelle ambizioni, onde speravasi succe

desse alla potenza paterna; ma zoppo, mal concio e mal curante della persona; onde chiamato Giovanni lo zoppo, Gianciotto, e Giovanni lo sciancato sembra che mai non piacesse alla fanciulla.

» A farlo piacere anche meno, s'aggiungeva l'aver esso un fratello chiamato Paolo, giovane (dice Benvenuto) « bello della persona, e pulito, e più dato all'ozio, che alla fatica; » tutto l'opposto, come si vede, del fratello. Presersi quindi d' amore i due cognati, o dopo, o forse anche prima delle nozze; trovandosi narrato dal Boccaccio, essere stato mandato il bel Paolo invece dello sciancato Giovanni a corteggiare Francesca novizza, ed ignara dello scambio fino al mattino dopo le nozze compiute.

>> Ad ogni modo, moglie era, da dodici anni, madre già di un figliuolo perduto e di una figlia sopravvivente; era Francesca, nel 1289, col marito Gianciotto e il bel cognato e lo suocero, da due anni cacciati tutti da Rimini, a Pesaro. Ed ivi, aiutata dagli ozî dell' esilio, o incominciava o continuava la dimestichezza de' due cognati che Boccaccio sembra voler iscusare dall'ultimo fallo.

>>

Ma, rinchiusi insieme una volta, furono traditi da un servo, che condusse a spiarli il marito. Il quale, forzato l'úscio, e insieme trovandoli, insieme li ammazzò (addì 4 settembre 1289). Ed insieme poscia, restituiti in Rimini i Malatesta, furono i due corpi là riportati, insieme sepolti, insieme due secoli dopo ritrovati, intere ancora le loro seriche vesti; e insieme cantati e immortalati da Dante ». (Vita di Dante, Firenze 1853, libro I, capo VI, 1289, pag. 82-83).

Dante, adunque, avea risaputo la dolente istoria di Francesca, recentissima allora, dalla bocca stessa del fratello di lei Bernardino, commilitone con lui, prima contro i ghibellini di Arezzo e poi di Pisa sotto le mura del castello di Caprona; e la impressione che ne avea ricevuto, fu di pietà: impressione che si riproduce come forma di arte. E, in altri termini, pare che il poeta dicesse così: Povera Francesca...... fu tradita da tutti, anche dal padre, che, per timore d' una repulsa da parte della figlia, avea custodito gelosamente il tranello; e fu una infamia delle più inaudite. A corte, di fatto, era apparso, non lo sciancato Giovanni: ma Paolo, il bel giovine aitante della persona, dal vestire elegante, da' modi gentili da principe; e Francesca, in buona fede, credeva di sposare il suo Paolo, fior di grazia e di cortesia. Qual maraviglia, quindi, se n' era perdutamente innamorata? E non fu che una vittima innocente, coronata di fiori d'arancio, e menata all'altare, o, meglio, al supplizio. Nè s'avvide dell'inganno, se non quando le nozze erano compiute. Qual dolore non fu il suo quando, invece di Paolo, trovossi a fianco un mostriciattolo, dalle maniere burbere, dal piglio soldatesco, tirannico? Ben ella dovette esserne desolata. Chi sa quante lagrime avrà sparso! Chi sa quante volte, vedendo Paolo, avrà sospirato in se

Giornale dantesco

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greto! E chi sa quante volte avrà imprecato al suo destino! Così si spiegano tutti gli ammirativi di Dante.

Pure la poverina, facendo di necessità virtù, avea saputo contenersi; nè mai, per ben dodici anni, ruppe fede al suo sposo e sire. Ma v'hanno momenti fatali nella vita: espulsi ì Malatesta da Rimini, si rifugiarono a Pesaro; e qui, nell' esilio, avvenne la catastrofe orrenda. Bisogna dire che qualche lampo sinistro fosse già balenato alla mente del marito, se, su le orme degli amanti, avea già messo una spia; e questa, fedele al padrone, li faceva sorprendere, mentre erano chiusi in camera. Forzato l'uscio, ne seguì la tragedia tremenda; e tuttora a Pesaro, quando ricorre quella data nefasta del 4 di settembre, i popolani dicono che in quella stanza sentonsi lamenti: tanto la fantasia, anche oggidì, si commuove a quel pietoso episodio! Ed ora, è tempo di tornare alla poesia.

Poi mi rivolsi a loro, e parla' io,

e cominciai: Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi al tempo de' dolci sospiri,
a che, e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi desiri?

(Ivi, 115-120).

È chiaro: Dante, per rendere più poetico il suo racconto, immagina che i due cognati non si sieno innamorati prima delle nozze, ma dopo; e sia: Pictoribus atque poetis, quidlibet audendi, semper fuit aequa potestas (giusta l'antica sentenza di Orazio, sempre nuova).

Ed ella a me: Nessun maggior dolore,

che ricordarsi del tempo felice

nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.

Ma, s' a conoscer la prima radice

Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
farò come colui che piange e dice.

(Ivi, 121-126).

Come è bella la introduzione a questa seconda parte del racconto! A Dante, ch'è triste e commosso fino alle lagrime, Francesca risponde piangendo, o sono più lagrime che parole; sicchè la commozione cresce nell'animo di tutti e due o, meglio, di tutti e tre, dappoichè anche Paolo non fa che piangere e sospirare, quasi eco fedele della sua diletta. Ed è vero, verissimo meglio non aver mai gustato la felicità, anzichè averne delibato

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