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appena nappo, ed essere poi come inabissata in fondo d'ogni miseria: è infelicità a cento doppi maggiore (e ciò sa il tuo dottore, il tuo « Savio gentile», maestro ed interprete d'ogni più delicato sentimento). Ma, se premura hai di conoscere la prima radice d'un amore sì miserando, come colui che parla e piange, nè mai sazio è di spargere lagrime.

tanta

farò

amare.

Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancilotto, come amor lo strinse:
soli eravamo e senza alcun sospetto.
Per più fïate gli occhi ci sospinse

quella lettura, e scolorocci 'l viso:
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso

esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò tutto tremante:

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante.

(Ivi, 127-138)

Era già avvenuta l' espulsione de' Malatesta da Rimini. Noi tutti, compreso mio suocero, ci eravamo rifugiati a Pesaro. Eravamo dunque in esilio; e quindi non paggi o valletti, nè dame di onore o di compagnìa: ci rimaneva qualche servo appena, e questi ci spiò, ci tradì. Per vincere le lunghe ore di noia, ci eravamo dati a leggere qualche romanzo; e quel giorno (4 settembre 1289) avevamo tra mani gli amori di Lancilotto (quasi omonimo di Lanciotto o di Cian Ciotto), famoso cavaliere della « Tavola rotonda », per la sua Ginevra. Eravamo soli, anzi chiusi in camera, senza neppure sospettare che dal fóro della toppa stesse un occhio vigile ad osservare ogni nostro movimento, e senza nè manco immaginare che una lettura innocente potesse menarci a conseguenza sì terribile ed inopinata. Io, che per dodici anni avea saputo dominarmi e vincere, sia per rispetto a me stessa ed a mio marito, sia per amore all' unica figlia mia e mia gioia, ben era io sicura di mia virtù, tante volte messa a cimento e vittrice sempre. Ma a scovrire quel che gli amanti tacciono, basta uno sguardo, un sospiro, un atto qualsiasi; e leggendo scene o descrizioni d'amore, i nostri cuori, che da lungo tempo si amavano, cominciarono più fortemente ancora a palpitare. Per più fiate interrompendo la lettura, ci guardammo: eravamo tramortiti, effetto dell'ansia febbrile che ci struggeva. Era già cominciata la vertigine de' sensi: a cadere nell'errore non occorreva che una spinta; e questa fu la enfatica dipintura del bacio, in tutta l'estasi o la voluttà dell'amore. In quel punto, e fu quello che ci

vinse, Paolo, che tremava come una foglia, mi si gettò fra le braccia, e su le labbra m' impresse un fervido bacio, suggendone un amoroso incanto. La volontà omai non più ci governava; ed io, ch'era come inconscia di mia fralezza, non ebbi la forza neppure di respingerlo. Mi sentiva svenire; il libro mi cadde di mano; e quel che ne seguì non saprei ridire, perchè io non intendeva più nulla, nè in che mondo mi fossi. Di chi dunque la colpa? Del libro o dell'autore. Ad un tratto, sentii spalancarsi l'uscio; e Lanciotto, armato di stocco, ci piombò furente addosso.

Quel giorno più non vi leggemmo avante. Ed ecco il verso tanto torturato da' commentatori, perchè dicesse quel che Dante, a bello studio, non volle dire, quasi per coprire d'un funebre velo quell'ultimo e supremo istante.

Il Giusti volle anch' egli, col suo raffinato sentimento artistico, dire all'uopo la sua opinione; ed eccone le precise parole:

«Per quanto possano variare o modificarsi le interpretazioni di questo verso, dovranno pure ridursi alle tre seguenti:

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a

2. O che, lasciato il libro, godettero del loro amore;

a

3. O che, sorpresi in quel colloquio, furono uccisi dall'offeso marito.

Dopo un racconto sì commovente, se il poeta facesse dire a Francesca con quel verso, che per quel giorno il leggere fu assai, raffredderebbe nella chiusa l'affetto che spira da tutta la narrazione, perchè il lettore di-rebbe con ragione: era natural conseguenza dell' aver cominciato, il cessare, quando che fosse.

» Se invece spiegheremo: Noi, dopo il bacio, lasciata la lettura, ci abbandonammo l'uno in braccio dell'altra, si verrebbe a togliere verecondia alla donna che narra, ed a guastare le modeste intenzioni del poeta.

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Spiegando: Fummo sorpresi ed uccisi, l'immagine terribile della morte, rimanendo sola nel quadro, assorbirebbe le altre più gentili, più commoventi, dell' amore e di quel primo colloquio, nel quale quelle anime s' intesero ». (Scritti vari, Firenze, pe' tipi successori Le Monnier, 1866, pag. 235-236).

Eppure qualche cosa di vero è in tutte e tre queste opinioni, siccome risulta dalla cronistoria del Balbo, contro la quale indarno il Bartoli accampa congetture per distruggerne la veridicità. E il Buti, accettevolissimo, così ne compie la tragica dipintura.

Paolo, colto flagranti crimine, tentò di fuggire e di salvarsi per una cataratta, lasciando sola, di contro al marito, la povera Francesca: in quell'istante, Paolo fu vile, o, conscio di sua reità, non ebbe il coraggio di affrontare l'ira del suo fratello e signore. Vedendolo armato, naturalmente cercò di schivare il colpo; ma essendosi una maglia del coretto che indos

sava, impigliato ad un gancio, vi restò miseramente sospeso e come impicca to. Francesca si gittò disperatamente fra' due germani; ma Lanciotto, cieco di rabbia e di vendetta, mirando ad uccidere lui, trafisse lei, che cadde nel sangue. L'ira quindi più crebbe, e raggiunto l'impiccato, lo lasciò sanguinante all' uncino. Così la tragedia orribile fu piena: e, di fronte alla storia, tutte le supposizioni cadono. Ed ora qualche considerazione in fatto di arte.

La figura di Francesca, come ce la presentano i cronisti, prima a Ravenna, sposa barbaramente tradita; poscia a Rimini, moglie ingiustamente tiran eggiata; da ultimo a Pesaro, vittima infelice d'una situazione tremenda, è altamente drammatica, perchè v' ha contrasto e quindi lotta di passioni, che, per logica necessità, dovevano menare al fato supremo, la morte. E, se il Pellico avesse così bene intesa l'azione, cioè ne' suoi tre momenti evolutivi, ci avrebbe dato una tragedia oh! quanto più viva e vera oh! quanto più semplice e naturale.

All'incontro, come Dante ci ritrae la stessa patetica figura, cioè con tutte quelle sfumature o penombre, con tutte quelle incertezze o indeterminatezze di forme, prende una tinta del tutto idillica o romantica, sarei quasi per dire vaporosa; talchè (come bene osserva il De Sanctis) Francesca è « la primogenita» di quelle creature « immortali » che in arte si dicono: Giulietta, Ofelia, Desdemona, Clara, Tecla, Margherita, Emengarda e Silvia. « Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà. Ma, insieme con questo, trovi un sentimento che purifica e un pudore che rinvergina; talchè, a tanta gentilezza di linguaggio, non sai discernere se hai dinanzi la colpevole Francesca o la innocente Giulietta. Ci è qui entro un'aura di tenerezza e di dolcezza, ché alita per tutto il canto; una delicatezza di sentimenti squisita; ed una cotal morbidezza femminile, in che è l'incanto di queste nature, e che si sente così bene nel verso: Farò come colui che piange e dice ». (Nuovi saggi critici, Napoli, pe' tipi del Morano, 1872, pag. 9).

Ora veniamo alla chiusa.

Mentre che l'uno spirtò questo disse,
l'altro piangeva sì, che di pietade
io venni men, così com' io morisse;
e caddi, come corpo morto cade.

(Ivi, 139-142).

Mentre Francesca così plorava, Paolo, riconoscendosi il principale autore de' traviamenti di quella infelice, piangeva anch'egli sì angosciosamente che Dante, a tanto strazio, più non regge e sviene.

Così chiudesi questo canto mirabilissimo. Un verista moderno, oh! come sarebbesi deliziato nel narrare per filo e per segno que' soavi abbracciamenti e poi quel bacio pur tanto desiato e poi quell'assalto tanto bestiale e poi quella scena di sangue e poi quelle grida di orrore e poi que' tronchi accenti e poi quell'ultimo sconsolato addio e poi que' rantoli estremi. Tutto questo per Dante non è che un sottinteso; egli, perciò, tocca e passa, una pennellata e via, lasciando che la commossa fantasia di chi legge supplisca al rimanente dissimulato o taciuto.

Ed invero: se l'artista intende bene il magistero dell' arte sua, in certi momenti di massima delicatezza, non deve dir tutto, quasi a sazietà, perchè uccide la fantasia di chi legge: occorre, invece, che questa si desti, lavori col poeta, e, in certo qual modo compia il quadro da lui schizzato appena e Dante n'è maestro incomparabile. Quanti non credettero che col verso famoso: Quel giorno più non vi leggemmo avante, egli abbia voluto gittare nell'ombra la colpa per adonestare Francesca e farla quasi comparire innocente? Ma se Dante l' ha messa all' Inferno, l'ha riconosciuta, dunque, infedele: inutile quindi l' intarsio e lo sfumino. La si può commiserare ma non assolvere del tutto; Dante, pel primo, ne sente pietà tanto che sviene. E, dal tutto insieme, che cosa risulta in fatto di estetica dantesca?

Quel che io cennava fin da principio: Francesca è la più lontana da Satana e quindi tra le figure dell' Inferno la più gentile: Questi che mai da me non fia diviso. Il sentimento che l'ha trascinata alla morte sopravvive alla tomba e si perpetua nella eternità, sia pure dannata. La bufera infernale che, nella sua rapina menò gli spiriti di qua, di là, di su, di giù, quasi fossero festuche turbinate dal vento, non ha la forza di staccare Francesca dalle braccia di Paolo: uniti in vita, in morte, indissolubili, eternamente insieme! Ora, l'inferno è il paradiso di quelle due anime sconsolate, ma pur paghe d'un bacio e d'un amplesso eterno. La vita spirituale, adunque, entrando nella prima regione infernale o della incontinenza, è ancor sentimento.

Oneglia, 1893.

GIUSEPPE DE LEONARDIS.

VARIETÀ

IL VERSO 123 DEL CANTO XIII DEL PURGATORIO

NELLA FAVOLA, NEI COSTUMI E NELLE TRADIZIONI LOMBARDE.

Dove fuggisti, o antica.
regina dei conviti,
dea delle veglie, amica
dei casalinghi riti,

chi t'ha involata ai cari
crocchi, ai loquaci lari?
Fanciullo anch'io t'intesi
grata, festosa fola

agli ansii cor sospesi
ridir la tua parola
quando tu ancor le lievi
ali fra noi movevi.

CARLO TENCA. La Fiaba.

Sulla seconda cornice che cerchia il sacro Monte molti spiriti col ciglio forato e cucito da fil di ferro, coperti di cilicio

Del livido color della petraia

Pg., XIII, 9.

che forma l'alta ripa a cui que' penitenti, pur sostenendosi l'un l'altro, sono addossati, come

li ciechi a cui la roba falla

stanno a' perdoni a chieder lor bisogna

Pg., XVII, 61-62.

Dante trova Sapia dei Provenzani, sanese. Da costei il poeta ode la storia della donna, e la rotta toccata da' suoi.

Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti coi loro avversari
ed io pregava Dio di quel ch' ei volle.

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