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sava, impigliato ad un gancio, vi restò miseramente sospeso e come impicca to. Francesca si gittò disperatamente fra' due germani; ma Lanciotto, cieco di rabbia e di vendetta, mirando ad uccidere lui, trafisse lei, che cadde nel sangue. L'ira quindi più crebbe, e raggiunto l'impiccato, lo lasciò sanguinante all' uncino. Così la tragedia orribile fu piena: e, di fronte alla storia, tutte le supposizioni cadono. Ed ora qualche considerazione in fatto di arte.

La figura di Francesca, come ce la presentano i cronisti, prima a Ravenna, sposa barbaramente tradita; poscia a Rimini, moglie ingiustamente tiran eggiata; da ultimo a Pesaro, vittima infelice d'una situazione tremenda, è altamente drammatica, perchè v' ha contrasto e quindi lotta di passioni, che, per logica necessità, dovevano menare al fato supremo, la morte. E, se il Pellico avesse così bene intesa l'azione, cioè ne' suoi tre momenti evolutivi, ci avrebbe dato una tragedia oh! quanto più viva e vera oh! quanto più semplice e naturale.

All'incontro, come Dante ci ritrae la stessa patetica figura, cioè con tutte quelle sfumature o penombre, con tutte quelle incertezze o indetermi natezze di forme, prende una tinta del tutto idillica o romantica, sarei quasi per dire vaporosa; talchè (come bene osserva il De Sanctis) Francesca è « la primogenita» di quelle creature « immortali » che in arte si dicono: Giulietta, Ofelia, Desdemona, Clara, Tecla, Margherita, Emengarda e Silvia. « Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà. Ma, insieme con questo, trovi un sentimento che purifica e un pudore che rinvergina; talchè, a tanta gentilezza di linguaggio, non sai discernere se hai dinanzi la colpevole Francesca o la innocente Giulietta. Ci è qui entro un'aura di tenerezza e di dolcezza, che alita per tutto il canto; una delicatezza di sentimenti squisita; ed una cotal morbidezza femminile, in che è l'incanto di queste nature, e che si sente così bene nel verso: Farò come colui che piange e dice ». dice ». (Nuovi saggi critici, Napoli, pe' tipi del Morano, 1872, pag. 9).

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Mentre Francesca così plorava, Paolo, riconoscendosi il principale autore de' traviamenti di quella infelice, piangeva anch'egli sì angosciosamente che Dante, a tanto strazio, più non regge e sviene.

Cosi chiudesi questo capto mirabilissimo. Un verista moderno, oh! come sarebbesi deliziato nel narrare per filo e per segno que' soavi abbracciamenti e poi quel bacio pur tanto desiato e poi quell'assalto tanto bestiale e poi quella scena di sangue e poi quelle grida di orrore e poi que' tronchi accenti e poi quell'ultimo sconsolato addio e poi que' rantoli estremi. Tutto questo per Dante non è che un sottinteso; egli, perciò, tocca e passa, una pennellata e via, lasciando che la commossa fantasia di chi legge supplisca al rimanente dissimulato o taciuto.

Ed invero: se l'artista intende bene il magistero dell'arte sua, in certi momenti di massima delicatezza, non deve dir tutto, quasi a sazietà, perchè uccide la fantasia di chi legge: occorre, invece, che questa si desti, lavori col poeta, e, in certo qual modo compia il quadro da lui schizzato appena e Dante n'è maestro incomparabile. Quanti non credettero che col verso famoso: Quel giorno più non vi leggemmo avante, egli abbia voluto gittare nell'ombra la colpa per adonestare Francesca e farla quasi comparire innocente? Ma se Dante l' ha messa all' Inferno, l'ha riconosciuta, dunque, infedele: inutile quindi l' intarsio e lo sfumino. La si può commiserare ma non assolvere del tutto; Dante, pel primo, ne sente pietà tanto che sviene. E, dal tutto insieme, che cosa risulta in fatto di estetica dantesca?

Quel che io cennava fin da principio: Francesca è la più lontana da Satana e quindi tra le figure dell' Inferno la più gentile: Questi che mai da me non fia diviso. Il sentimento che l'ha trascinata alla morte SOpravvive alla tomba e si perpetua nella eternità, sia pure dannata. La bufera infernale che, nella sua rapina menò gli spiriti di qua, di là, di šu, di giù, quasi fossero festuche turbinate dal vento, non ha la forza di staccare Francesca dalle braccia di Paolo: uniti in vita, in morte, indissolubili, eternamente insieme! Ora, l'inferno è il paradiso di quelle due anime sconsolate, ma pur paghe d'un bacio e d'un amplesso eterno. La vita spirituale, adunque, entrando nella prima regione infernale o della incontinenza, è ancor sentimento.

Oneglia, 1893.

GIUSEPPE DE LEONARDIS.

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VARIETÀ

IL VERSO 123 DEL CANTO XIII DEL PURGATORIO

NELLA FAVOLA, NEI COSTUMI E NELLE TRADIZIONI LOMBARDE.

Dove fuggisti, o antica
regina dei conviti,
dea delle veglie, amica
dei casalinghi riti,

chi t' ha involata ai cari
crocchi, ai loquaci lari?
Fanciullo anch'io t'intesi
grata, festosa fola

agli ansii cor sospesi
ridir la tua parola
quando tu ancor le lievi
ali fra noi movevi.

CARLO TENCA. La Fiaba.

Sulla seconda cornice che cerchia il sacro Monte molti spiriti col ciglio forato e cucito da fil di ferro, coperti di cilicio

Del livido color della petraia

Pg., XIII, 9.

che forma l'alta ripa a cui que' penitenti, pur sostenendosi l'un l'altro, sono addossati, come

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Dante trova Sapia dei Provenzani, sanese. Da costei il poeta ode la storia della donna, e la rotta toccata da' suoi.

Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti coi loro avversari
ed io pregava Dio di quel ch' ei volle.

Rotti fur quivi, e volti negli amari
passi di fuga, e veggendo la caccia.
letizia presi ad ogni altra dispari;
tanto ch'io volsi in su l'ardita faccia,

gridando a Dio: «Omai più non ti temo »><
come fa il merlo per poca bonaccia.

Pg., XIII, 115-123.

Mezzo secolo fa chi avesse tentato di pubblicare alcuni saggi di canzoni vernacole e di tradizioni popolari sarebbe stato accusato di oltraggiare l'italiana letteratura gettandola nei trivii. Ai giorni nostri le cose sono interamente mutate, ed illustri filologi, italiani e stranieri, seppero indicare sapienza, bellezze, allusioni, filosofia, psicologia attraverso alla ingenua e capricciosa fantasia di racconti da veglia, ai quali una volta sarebbe stato per lo meno puerile attribuire serietà ed importanza. Incoraggiato dalle accoglienze oneste e liete che per l'opposto ai nostri giorni si fanno a questo genere di lavori, ho tentato colle deboli mie forze di far concorrere alla illustrazione del verso dantesco

Come fa il merlo per poca bonaccia

quella di un singolare costume de' miei paesi, nella speranza di fare opera non del tutto inutile per gli amatori di cose dantesche.

I più antichi commentatori di Dante cercano di illustrare quest'ultimo verso. Il Vellutello ed il Daniello scrivono chiamarsi in Lombardia giorni della merla i tre ultimi di gennaio; e sono freddi, dice la favola, per punire la merla che, sentendo a' que' dì mitigato il freddo, si vantò di non più temere gennaio.

L'ottimo Commento aggiunge: «Dicesi favolosamente che il merlo al tempo della neve sta molto stretto, e come vede punto di buon tempo, dice: Non ti temo, domine, che uscito son del verno ».

Anzi il Landino col Vellutello ed altri fanno una variante e scrivono: Come fe'l merlo. . . . cangiando così il tempo presente in atto, col passato in atto; l'abitudine attuale col fatto compiuto, colla vera favola.

Il Buti ed il Lana dicono: « Questo è un uccello che al tempo della neve sta appiattato, e come vede punto di buon tempo, esce fuori e par che faccia beffe di tutte le altre bestie, come si finge che dicesse nella favola di lui composta, cioè: Non ti temo, domine, che uscito son del verno».

Benvenuto da Imola commenta: «Dicitur fabulose quod merulus post saevitiem hyemis, superveniente tranquillo, garrit: Più non ti temo, ch'uscito son del verno; ita quod ego pro parva victoria praesumpsi loqui contra Deum »> (1).

(1) Ediz. Vernon. Vol. III. p. 367.

Stefano Talice di Ricaldone spiega il passo: « modo, dum Prorenzanus obsiderat collem, ista posuit se ad fenestras spectando nova de senensibus et rogabat quod confligerentur, et habuit dicere quod si contingeret senenz ses vincere, quod ipsa precipitare de palacio. Et dum sic staret, audivit nova qualiter senenses fuerunt conflicti, et Provenzanus decapitatus. Tunc ista levavit ambas ficas ad Deum, dicens: Despicio te, Deus, quia a modo non potes mihi contingere aliquid, quia moriar contenta ».

11 Viviani dice: «Si difende dal Lombardi e da altri commentatori fe', tempo passato, come più proprio di fa, tempo presente, appoggiando essi questo paragone di Dante ad una favola sussistente in Lombardia « per cui si chiamano giorni della merla i tre ultimi di gennaio, i quali per solito sono freddissimi a cagione di vendetta che continua tuttavia a far gennajo contro della merla che sentendo una volta intorno a quei dì mitigato il freddo, vantossi di non più temere gennajo ». Lodo chi per giustifi care questo passo ha riferito tale popolare opinione; io però non mi opporrei a chi volesse preferire la lezione della Crusca fa, la quale mi porge una comparazione naturale presa dal merlo, uccello solitario, che al momento della burrasca stassene quatto e zitto entro al roveto; ma appena viene un po' di bonaccia alza la testa, e lieto e baldanzoso canticchia, quasi dicendo al cielo: omai più non ti temo » (1).

Alcuni codici, e l'edizione ravegnana di Mauro Ferranti (1848) leggono invece come fa il mergo, lezione difesa da Luigi Ciampolini in un discorso letto all' Accademia della Crusca il dì 11 luglio 1838 e pubblicato nelle sue Prose e poesie, (2.a edizione, Firenze, 1838, 2° volume) (2). Il Blanc non è di questo parere, ed anche allo Scartazzini pare che Dante voglia parlare di un uccello conosciutissimo al popolo, e sulle generali, accennando ad un proverbio conosciutissimo, non ad una pretesa favola di dubbia

esistenza.

Sembra però che l'illustre Scartazzini non sia del parere del Caverni il quale commenta : « merlo in Toscana vale uomo poco accorto, dolce e minchione; ed è veramente poco provvido a' fatti suoi, benchè possa parere altrimenti, chi nella calamità si umilia e poi nelle prosperità insulta a Dio e agli uomini, come narra di sè questa poco accorta Sapìa ». A me pure non quadra questa interpretazione, giacchè per insultar a Dio ed agli uomini nelle prosperità non basta essere solamente poco accorto, dolce e minchione. Merlo, per minchione, non si usa solamente in Toscana, ma anche in Lombardia ed in chi sa quante altre contrade del bel paese ove il si suona: ed è sempre un traslato.

Il detto del merlo passò in proverbio e si vede illustrato nella novella 149 di Franco Sacchetti, ove un Tizio, abate di Tolosa, avendo colla sua ipocrisia ingannato i superiori ed ottenuto il vescovato di Parigi, appena insediatovi si smascherò e disse: Più non ti temo, Domine, che uscito son del verno, volendo alludere alla vita sua antecedente da fariseo.

La favola della merla non sarebbe però, come vorrebbe lo Scartazzini, di dubbia esistenza, od una mera presunzione, essendo comunissima nella Lombardia. Nel milanese e nei territori finitimi il racconto della favola

(1) Edizione di Udine, 1823. Tom. 2o, pag. 99.

(2) Scartazzini, Comm., Lips, II, 230.

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