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Rotti fur quivi, e volti negli amari
passi di fuga, e veggendo la caccia
letizia presi ad ogni altra dispari;
tanto ch' io volsi in su l'ardita faccia,

gridando a Dio: «Omai più non ti temo »>
come fa il merlo per poca bonaccia.

Pg., XIII, 115-123.

Mezzo secolo fa chi avesse tentato di pubblicare alcuni saggi di canzoni vernacole e di tradizioni popolari sarebbe stato accusato di oltraggiare l'italiana letteratura gettandola nei trivii. Ai giorni nostri le cose sono interamente mutate, ed illustri filologi, italiani e stranieri, seppero indicare sapienza, bellezze, allusioni, filosofia, psicologia attraverso alla ingenua e capricciosa fantasia di racconti da veglia, ai quali una volta sarebbe stato per lo meno puerile attribuire serietà ed importanza. Incoraggiato dalle accoglienze oneste e liete che per l'opposto ai nostri giorni si fanno a questo genere di lavori, ho tentato colle deboli mie forze di far concorrere alla illustrazione del verso dantesco

Come fa il merlo per poca bonaccia

quella di un singolare costume de' miei paesi, nella speranza di fare opera non del tutto inutile per gli amatori di cose dantesche.

I più antichi commentatori di Dante cercano di illustrare quest'ultimo verso. Il Vellutello ed il Daniello scrivono chiamarsi in Lombardia giorni della merla i tre ultimi di gennaio; e sono freddi, dice la favola, per punire la merla che, sentendo a' que' dì mitigato il freddo, si vantò di non più temere gennaio.

L'ottimo Commento aggiunge: «Dicesi favolosamente che il merlo al tempo della neve sta molto stretto, e come vede punto di buon tempo, dice: Non ti temo, domine, che uscito son del verno ».

Anzi il Landino col Vellutello ed altri fanno una variante e scrivono: Come fe'l merlo. . . . cangiando così il tempo presente in atto, col passato in atto; l'abitudine attuale col fatto compiuto, colla vera favola.

Il Buti ed il Lana dicono: « Questo è un uccello che al tempo della neve sta appiattato, e come vede punto di buon tempo, esce fuori e par che faccia beffe di tutte le altre bestie, come si finge che dicesse nella favola di lui composta, cioè: Non ti temo, domine, che uscito son del verno ».

Benvenuto da Imola commenta: « Dicitur fabulose quod merulus post saevitiem hyemis, superveniente tranquillo, garrit: Più non ti temo, ch'uscito son del verno; ita quod ego pro parva victoria praesumpsi loqui contra Deum »> (1).

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(1) Ediz. Vernon. Vol. III. p. 367.

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Stefano Talice di Ricaldone spiega il passo: «modo, dum Prorenzanus obsiderat collem, ista posuit se ad fenestras spectando nova de senenet rogabat quod confligerentur, et habuit dicere quod si contingeret senerz ses vincere, quod ipsa precipitare de palacio. Et dum sic staret, audivit nova qualiter senenses fuerunt conflicti, et Provenzanus decapitatus. Tunc ista levavit ambas ficas ad Deum, dicens: Despicio te, Deus, quia a modo non potes mihi contingere aliquid, quia moriar contenta ».

11 Viviani dice: «Si difende dal Lombardi e da altri commentatori fe', tempo passato, come più proprio di fa, tempo presente, appoggiando essi questo paragone di Dante ad una favola sussistente in Lombardia « per cui si chiamano giorni della merla i tre ultimi di gennaio, i quali per solito sono freddissimi a cagione di vendetta che continua tuttavia a far gennajo contro della merla che sentendo una volta intorno a quei dì mitigato il freddo, vantossi di non più temere gennajo ». - Lodo chi per giustificare questo passo ha riferito tale popolare opinione; io però non mi opporrei a chi volesse preferire la lezione della Crusca fa, la quale mi porge una comparazione naturale presa dal merlo, uccello solitario, che al momento della burrasca stassene quatto e zitto entro al roveto; ma appena viene un po' di bonaccia alza la testa, e lieto e baldanzoso canticchia, quasi dicendo al cielo: omai più non ti temo » (1).

Alcuni codici, e l'edizione ravegnana di Mauro Ferranti (1848) leggono invece come fa il mergo, lezione difesa da Luigi Ciampolini in un discorso letto all' Accademia della Crusca il dì 11 luglio 1838 e pubblicato nelle sue Prose e poesie, (2." edizione, Firenze, 1838, 2° volume) (2). Il Blanc non è di questo parere, ed anche allo Scartazzini pare che Dante voglia parlare di un uccello conosciutissimo al popolo, e sulle generali, accennando ad un proverbio conosciutissimo, non ad una pretesa favola di dubbia

esistenza.

Sembra però che l'illustre Scartazzini non sia del parere del Caverni il quale commenta : « merlo in Toscana vale uomo poco accorto, dolce e minchione; ed è veramente poco provvido a' fatti suoi, benchè possa parere altrimenti, chi nella calamità si umilia e poi nelle prosperità insulta a Dio e agli uomini, come narra di sè questa poco accorta Sapìa ». A me pure non quadra questa interpretazione, giacchè per insultar a Dio ed agli uomini nelle prosperità non basta essere solamente poco accorto, dolce e minchione. Merlo, per minchione, non si usa solamente in Toscana, ma anche in Lombardia ed in chi sa quante altre contrade del bel paese ove il si suona: ed è sempre un traslato.

Il detto del merlo passò in proverbio e si vede illustrato nella novella 149 di Franco Sacchetti, ove un Tizio, abate di Tolosa, avendo colla sua ipocrisia ingannato i superiori ed ottenuto il vescovato di Parigi, appena insediatovi si smascherò e disse: Più non ti temo, Domine, che uscito son del verno, volendo alludere alla vita sua antecedente da fariseo.

La favola della merla non sarebbe però, come vorrebbe lo Scartazzini, di dubbia esistenza, od una mera presunzione, essendo comunissima nella Lombardia. Nel milanese e nei territori finitimi il racconto della favola

(1) Edizione di Udine, 1823. Tom. 2o, pag. 99.

(2) Scartazzini, Comm., Lips, II, 230.

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varia alquanto nella forma, nella sostanza però viene più o meno collimandosi trattasi di un atto di folle ed empia superbia. Al tempo in cui parlavano e bestie e piante e mesi, la merla, vedendo allungarsi i giorni e diminuire alquanto l'intensità del freddo, contenta di vedere fuori di pericolo i suoi merlotti, uscì cantando dal suo nascondiglio, e disse al mese di gennajo, il più rigido dell'anno: Adesso non ho più paura di te. Ma gennajo, adirato contro l'insolente, decise di farla pentire della sciocca proposizione, e quasi che non bastassero i due giorni che ancora gli rimanevano giacchè si era ai 28 del mese, se ne fece imprestare uno da febbrajo, che rimase con 28 giorni, e così in questi tre giorni fece un freddo tanto crudo che la merla, per salvarsi, dovette rifugiarsi nei fumaiuoli, dai quali uscì nera.

A proposito di questo imprestito fatto da febbrajo, che non ebbe mai più la relativa restituzione, si conserva ancora un dialoghetto vernacolo che in certi luoghi fa parte della Canzone della merla, di cui terrò parola in seguito esso si rammenta ogni anno dai crocchi, nelle sale, ai focolari, e nelle stalle; suona come segue:

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Il cronista dell' Osservatore cattolico (1886, n. 25) reca la seguente versione: « Una merla co' suoi merlotti erasi in un inverno, per difendersi dal rigore della stagione, appiattata sotto una cappa da cammino, in una casa da contadini. Avendo creduto per poca bonaccia di gennajo finito il freddo, merla e merlotti abbandonarono la cappa ospitale, e usciti fuori, volando e spaziando per l'aere, gridavano in vecchio dialetto:

Boffa, gennè

che i me merli i' ho già levè (2);

al che gennaio, indispettito, irrigidì di nuovo e più di prima: merla e merlotti perirono, e gennaio da quel tempo soffiò negli ultimi giorni più

crudo ».

Ingenuo più di tutti è il cronista del Secolo (ultimi di gennajo 1887) il quale, a proposito sempre della povera merla precipitata sulle ceneri per

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la gola del camino, dice che, di candida che era, diventò di un bel nero lucente, e neri furono i figli che ebbe di poi; neri dopo un po' di tempo tutti i merli di questo mondo.

Nel lodigiano poi, e sue vicinanze, vige un costume assai caratteristico e meritevole di essere ricordato; costume che ab antico si è propagato di generazione in generazione sino a questi tempi, e forse in qualche remoto paesello lontano dal centro cittadino durerà ancora per chi sa quanti anni. A chi si trovasse in queste campagne durante le ultime tre sere di gennajo non tornerebbe difficile l'udire in lontananza, nel recinto di qualche cascinaggio perduto fra i campi, alcune cantilene contadinesche intercalate a regolari intervalli da spari fragorosi di schioppi e pistole.

Io che passai la mia vita fra i campi, feci caso fin da fanciullo a questa singolare costumanza, e non ho potuto esimermi dal chiedere che cosa mai si cantasse da quei contadini, in queste sere così fredde, invece di starsene tappati nelle stalle a raccontar fiabe e a tagliar gli abiti ai padroni presenti, passati e futuri.

Per sapere qualche cosa di grottesco ed anche di curioso bisogna per forza rivolgersi ai vecchi: sono essi che, generalmente, mostrano di prendere la cosa ancora sul serio; perchè già, come osservai, il costume, anche tra i contadini, specialmente a quelli che abitano vicino alla città, incomincia a sapere di puerile ed a puzzare di rancido: ed oggigiorno, anche pe' campagnuoli, una volta tanto semplici e creduli, occorre qualche cosa di più piccante e forse di meno onesto per divertirli, e certe anticaglie sono oramai diventate, anche per essi, cartuccie abbrucciate.

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Quando era giovane, vi risponderanno le nonne, l'ho cantata anche io la Merla; ed a' miei tempi si faceva meglio d' adesso; allora era molto più allegra: adesso tutte le belle usanze si smettono. Ma che cosa si cantava? Oh bella! la Merla. Ma che cosa è questa Merla? che cosa ha fatto questa merla?

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E qui, sebbene con mille varianti di particolari, vien raccontata la favola della merla, favola che brevemente ci viene narrata anche dagli antichi commentatori del dantesco poema.

Ora mi piace lasciar la parola ad un mio concittadino che, trovandosi, per ragione di impiego, in una considerevole e storica borgata della Gerra d'Adda, racconta il singolare costume: «Venti anni fa (scriveva nel 1838, nella Gazzetta della provincia di Lodi e Crema, e quindi bisogna risalire all'anno 1817) trovandomi da tre mesi in Pandino, sentii la sera del 29 gennajo, ad un'ora di notte, lo scoppio di diverse fucilate. Mi spaventai a quei rumori, in un paese per me nuovo. Fattomi pertanto al balcone, e prestando attento orecchio onde apprendere ciò che avvenisse, rinvenni dallo spavento quando udii scoppi di risa, trilli e gioviali canti; allora mi punse curiosità di sapere se erano sposi, poichè mi era noto esservi stato costume di accompagnare la sposa con fucili e di accrescere l'allegria cogli spari; ma recatomi in piazza per muovermi sull'orma delle grida, mi trovai imbarazzato e confuso udendo in capo ad ogni via allegre cantilene ed un ih!.... ih!.... ih!.... che divideva le stanze della canzone, cui faceano eco tuonate di fucili e di pistole.

«Era lì in forse per ritirarmi, quando mi passò dappresso la vecchia zoppa Catterina, che, come vicina di casa, aveva già seco qualche confidenza, e fattole domanda che cosa fossero quei, chiassi e que' canti, essa, dopo gli stupori perchè nol sapessi, mi disse: È la Merla, è la Colombina

che si canta da per tutto per tre sere: la vadi a vedere ed a sentire, la vadi, la vadi. Così inanimito, m'avvicinai al gruppo più prossimo sul dosso o trincea in fondo al viottolo detto del Castello. Erano sedici ragazze, di cui la maggiore d'età non giungeva a ventidue anni, che strette tra loro col nodo di loro braccia, a capo scoperto e col viso volto al cielo, cantavano una canzone a me nuovissima, e la cantavano sì con tutto il lor fiato, ma con un accordo che gradiva assai.

» Siccome però non erano molte le istrutte di quella canzone, così ogni strofa veniva suggerita da vecchie nonne, che, quasi chioccie verso i loro pulcini, le facevan guardia a difesa d'ogni insulto, e le dirigevano per mantenere quell' uso che ricordava i bei giorni della perduta loro giovinezza. L'orgoglio dell'essere allora necessarie, ed il rammentare quei dì dell' aprile di loro età le compensava a soverchio del freddo che sentivano. » La canzone era intitolata La Colombina, ma non se ne conserva che un brano. Eccone il tenore che mi seppe dire la Clotilde:

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