varia alquanto nella forma, nella sostanza però viene più o meno collimandosi: trattasi di un atto di folle ed empia superbia. Al tempo in cui parlavano e bestie e piante e mesi, la merla, vedendo allungarsi i giorni e diminuire alquanto l'intensità del freddo, contenta di vedere fuori di pericolo i suoi merlotti, uscì cantando dal suo nascondiglio, e disse al mese di gennajo, il più rigido dell'anno: Adesso non ho più paura di te. Ma gennajo, adirato contro l'insolente, decise di farla pentire della sciocca proposizione, e quasi che non bastassero i due giorni che ancora gli rimanevano giacchè si era ai 28 del mese, se ne fece imprestare uno da febbrajo, che rimase con 28 giorni, e così in questi tre giorni fece un freddo tanto crudo che la merla, per salvarsi, dovette rifugiarsi nei fumaiuoli, dai quali uscì nera. A proposito di questo imprestito fatto da febbrajo, che non ebbe mai più la relativa restituzione, si conserva ancora un dialoghetto vernacolo che in certi luoghi fa parte della Canzone della merla, di cui terrò parola in seguito esso si rammenta ogni anno dai crocchi, nelle sale, ai focolari, e nelle stalle; suona come segue: Il cronista dell' Osservatore cattolico (1886, n. 25) reca la seguente versione: - « Una merla co' suoi merlotti erasi in un inverno, per difendersi dal rigore della stagione, appiattata sotto una cappa da cammino, in una casa da contadini. Avendo creduto per poca bonaccia di gennajo finito il freddo, merla e merlotti abbandonarono la cappa ospitale, e usciti fuori, volando e spaziando per l'aere, gridavano in vecchio dialetto: Boffa, genne che i me merli i' ho già levè (2); al che gennaio, indispettito, irrigidì di nuovo e più di prima: merla e merlotti perirono, e gennaio da quel tempo soffiò negli ultimi giorni più crudo ». Ingenuo più di tutti è il cronista del Secolo (ultimi di gennajo 1887) il quale, a proposito sempre della povera merla precipitata sulle ceneri per la gola del camino, dice che, di candida che era, diventò di un bel nero lucente, e neri furono i figli che ebbe di poi; neri dopo un po' di tempo tutti i merli di questo mondo. Nel lodigiano poi, e sue vicinanze, vige un costume assai caratteristico e meritevole di essere ricordato; costume che ab antico si è propagato di generazione in generazione sino a questi tempi, e forse in qualche remoto paesello lontano dal centro cittadino durerà ancora per chi sa quanti anni. A chi si trovasse in queste campagne durante le ultime tre sere di gennajo non tornerebbe difficile l'udire in lontananza, nel recinto di qualche cascinaggio perduto fra i campi, alcune cantilene contadinesche intercalate a regolari intervalli da spari fragorosi di schioppi e pistole. Io che passai la mia vita fra i campi, feci caso fin da fanciullo a questa singolare costumanza, e non ho potuto esimermi dal chiedere che cosa mai si cantasse da quei contadini, in queste sere così fredde, invece di starsene tappati nelle stalle a raccontar fiabe e a tagliar gli abiti ai padroni presenti, passati e futuri. Per sapere qualche cosa di grottesco ed anche di curioso bisogna per forza rivolgersi ai vecchi: sono essi che, generalmente, mostrano di prendere la cosa ancora sul serio; perchè già, come osservai, il costume, anche tra i contadini, specialmente a quelli che abitano vicino alla città, incomincia a sapere di puerile ed a puzzare di rancido: ed oggigiorno, anche pe' campagnuoli, una volta tanto semplici e creduli, occorre qualche cosa di più piccante e forse di meno onesto per divertirli, e certe anticaglie sono oramai diventate, anche per essi, cartuccie abbrucciate. Quando era giovane, vi risponderanno le nonne, l'ho cantata anche io la Merla; ed a' miei tempi si faceva meglio d' adesso; allora era molto più allegra: adesso tutte le belle usanze si smettono. Ma che cosa si cantava? Oh bella! la Merla. Ma che cosa è questa Merla? che cosa ha fatto questa merla? E qui, sebbene con mille varianti di particolari, vien raccontata la favola della merla, favola che brevemente ci viene narrata anche dagli antichi commentatori del dantesco poema. Ora mi piace lasciar la parola ad un mio concittadino che, trovandosi, per ragione di impiego, in una considerevole e storica borgata della Gerra d'Adda, racconta il singolare costume: «Venti anni fa (scriveva nel 1838, nella Gazzetta della provincia di Lodi e Crema, e quindi bisogna risalire all'anno 1817) trovandomi da tre mesi in Pandino, sentii la sera del 29 gennajo, ad un'ora di notte, lo scoppio di diverse fucilate. Mi spaventai a quei rumori, in un paese per me nuovo. Fattomi pertanto al balcone, e prestando attento orecchio onde apprendere ciò che avvenisse, rinvenni dallo spavento quando udii scoppi di risa, trilli e gioviali canti allora mi Funse curiosità di sapere se erano sposi, poichè mi era noto esservi stato costume di accompagnare la sposa con fucili e di accrescere l'allegria cogli spari; ma recatomi in piazza per muovermi sull'orma delle grida, mi trovai imbarazzato e confuso udendo in capo ad ogni via allegre cantilene ed un ih!.... ih!.... ih!.... che divideva le stanze della canzone, cui faceano eco tuonate di fucili e di pistole. «Era lì in forse per ritirarmi, quando mi passò dappresso la vecchia zoppa Catterina, che, come vicina di casa, aveva già seco qualche confidenza, e fattole domanda che cosa fossero quei, chiassi e que' canti, essa, dopo gli stupori perchè nol sapessi, mi disse: È la Merla, è la Colombina che si canta da per tutto per tre sere: la vadi a vedere ed a sentire, la vadi, la vadi. Così inanimito, m'avvicinai al gruppo più prossimo sul dosso o trincea in fondo al viottolo detto del Castello. Erano sedici ragazze, di cui la maggiore d'età non giungeva a ventidue anni, che strette tra loro col nodo di loro braccia, a capo scoperto e col viso volto al cielo, cantavano una canzone a me nuovissima, e la cantavano sì con tutto il lor fiato, ma con un accordo che gradiva assai. » Siccome però non erano molte le istrutte di quella canzone, così ogni strofa veniva suggerita da vecchie nonne, che, quasi chioccie verso i loro pulcini, le facevan guardia a difesa d'ogni insulto, e le dirigevano per mantenere quell'uso che ricordava i bei giorni della perduta loro giovinezza. L'orgoglio dell'essere allora necessarie, ed il rammentare quei di dell' aprile di loro età le compensava a soverchio del freddo che sentivano. » La canzone era intitolata La Colombina, ma non se ne conserva che un brano. Eccone il tenore che mi seppe dire la Clotilde: » Per quella sera stetti con quella sola compagnia, ma la seguente volli sentirne più d'una, e quindi ai primi trilli corsi ai più presto a godere quel divertimento; poi finito il lor canto, volsi ad altro stuolo, e poi ad un terzo, finchè tutti li vidi serrarsi nelle loro stalle; non essendomi possibile di intervenire a tutte le raccolte, contandosene più che trenta e tutte quasi alla stess' ora. Attorno a quei femminili stuoli vi erano zerbinotti che in lontananza vi facevano cerchio, avendone licenza il solo valletto del padrone della stalla che veniva a rinfrescarle con una bottiglia di buon vino di quel suolo, che era poscia vuotata dai giovinotti che s'erano comprata la sete coi gridi e colle schioppettate tratte a divisione delle stanze. cantate dalle loro belle. >> Ragazze nel fior dell' età, belle e vispe come pesci, allegre e garrule come cardellini, cantare a roccolo a cielo scoperto, in luogo eminente, canzoni riservate a quelle tre sole sere in tutto l'anno, e quell'eco che rispondeva dalle due torri del castello, fu per me una scena romanzesca che mi colmò di piacere, e che io non scorderò giammai. Fin che fui in quel buon paese io intervenni sempre a quelle innocenti allegrìe, e ne animava la continuazione. Anche il cielo pareva arridesse a quei canti mostrandosi col suo manto azzurro, illuminato dall' argentea luna e dalle centomila stelle che spandevano amorosi raggi, mentre addormentato se ne stava il vento, e il gufo e le strigi del vecchio castello sospendevano gli infausti loro gridi all' insolito donnesco canto ». Ma essendo la canzone della merla stata affidata unicamente alla tradizione, questa, come è suo costume, dovea portare nella canzone stessa qualche variante cambiando paese; così a San Colombano al Lambro, all'Ospedaletto, a Sant' Angelo lodigiano, paesi situati nella parte più meridionale del territorio alaudense, si conserva pure il costume di cantare la merla, ma la canzone, pure attenendosi al fatto principale, subisce qua e là delle variazioni ed aggiunte, colle quali si tirano in ballo, per cagione della rima, altre località. A spiegar questo non fanno d'uopo molti commenti una volta stabilita la canzone ed il fatto principale, il popolo trova facile qualche aggiunta particolare al paese, o riferibile a circostanze speciali e proprie al medesimo, tanto per allungare il divertimento. Sul finire di gennaio non mancano quasi mai alcune belle giornate rallegrate da splendido sole, che fanno volare col pensiero alla prossima primávera. I contadini non di rado, durante queste giornate, sentendosi soverchiamente oppressi dai loro abiti grossolani, se ne alleggeriscono, buscandosi, alle volte, gravi e funeste malattie che conducono in fin di vita. Nessuna maraviglia quindi, se, a mettere in guardia tanti imprudenti dai mali a cui si esponevano, e renderli cauti contro la stagione infida, da alcuni saggi si immaginasse la favola che la merla, volendo ridersi di gennaio, che stava per finire, sia stata presto punita della sua sciocchezza, venendo costretta a rifugiarsi nei fumaiuoli, ove forse morì. Dal desiderio ardentissimo dei poveri contadini di uscire finalmente all'aria, dalla necessità del guadagno per sfamare le proprie famiglie che per lunghissime settimane dovettero accontentarsi di una magra razione, si può derivare il costume di uscire dalle stalle in queste tre sere, e cantare la canzone della merla. Il filo della tela era dunque preparato. A questa prima canzone se ne aggiungevano altre, e forse non inutili; e l'inverno era proprio per inventarne. Il De Gubernatis nella sua Storia degli usi nuziali, nè passa in rassegna una quantità propri delle diverse provincie d'Ita lia, ed anche fuori: secondo l'erudito autore è l'inverno, e specialmente in gennaio, che si elegge particolarmente dalle fanciulle così in Italia, come in Germania, in Russia e nella Scandinavia, per riscaldare i loro amori. In Italia, a dispetto del diritto romano, le fanciulle, innanzi di andare a marito, vogliono far all'amore, e in nessun paese forse si ama più che fra noi con tanta facilità, varietà e gaiezza. Qui ed in Grecia, e un tantino pure in Ispagna, i fidanzati si amano cantando; vi è strepito, vi è pompa nei nostri amori; perciò questi si prestano più agevolmente a venire descritti. Da noi poi il canto popolare è quasi tutto amore e ci sovrabbonda. Gli amori incominciati nei campi al sole di luglio e sulle aje in settembre, si riprendono nelle stalle durante le lunghe serate di gennajo. E in questo mese precedente la quaresima che si combina la maggior parte dei matrimoni fra i contadini. Ed i nostri antichi, dopo di avere dimostrato coll' esempio dell' incauta e presuntuosa colombina, che per sapere ben volare sull' aja, si volle spingere imprudentemente in alto mare, ove annegò, i pericoli a cui si va soggetti amoreggiando, non trascurarono di dare alle ragazze l'avvertimento di guardarsi bene da tali pericoli, di essere oneste e di parlar poco: e convenivano di permettere un poco di svago in questi giorni algenti e noiosissimi, e per giunta di carnevale. Onde la seconda parte della canzone: Trà la rocca e 'l fus in mezz a l'era.... a fa l'amor ghe voeul tre belle cose Ma per quanto le raccomandazioni fossero sensate, non mancavano però fin d'allora certi casi, ne' quali alcune, troppo imprudenti, dimenticando gli avvisi de' saggi, si lasciarono sedurre e perdettero l'onore: la merla o la colombina, di bianca che era, diventò nera. A questa metamorfosi allude la terza parte della canzone, la quale varia col mutar paese. Gettan le balestre sui balcon A San Colombano si vuole andare fino in Francia a prendere un barbiere per far guarire la bella ferita. La bella, perduto un ferro, non vuol fermarsi nel proprio paesello, per non essere ad ogni passo segnata a dito: ed eccola nella capitale, ove non si guarda tanto per la sottile, vestita all' ultima moda La gira per Milan, la par' na mercadanta per tutt' ve la passa la se sent a numinà... Strumento allegorico per ferire la bella era, nella canzone, la balestra; e la mitologia armava il pargoletto amore dell' arco e della farètra. L'invenzione della polvere cambiò tattica; lo schioppo surrogò la balestra, onde ། མ སྐྱ W N P |